venerdì 27 febbraio 2015

Il fuoco e il mantello

Conclusi ad Ariccia gli esercizi spirituali della Curia romana.


«Tradizione è conservare il fuoco, non adorare le ceneri»: non attinge alla Bibbia, ma a una frase del compositore Gustav Mahler la conclusione degli esercizi spirituali per il Papa e la Curia romana guidati ad Ariccia da padre Bruno Secondin. Il predicatore carmelitano ha voluto così — richiamando l’immagine del fuoco tanto vicina alla figura del profeta Elia — invitare tutti, tornando ai normali impegni quotidiani, a essere «esploratori di sentieri di novità per sé e per gli altri», a raccogliere il mantello di Elia, la sua eredità, e a «uscire verso le frontiere» diventando «profeti di fraternità».La meditazione di padre Secondin si è tenuta nella mattina di venerdì 27 febbraio. Al termine, dopo i saluti e i ringraziamenti di Papa Francesco, i partecipanti hanno fatto rientro in Vaticano.
L’ultima tappa dell’itinerario di riflessione e preghiera proposto dal predicatore ha centrato il suo obbiettivo sull’episodio biblico narrato nel secondo libro dei Re (2, 1-14), dove vengono descritti il saluto finale di Elia ai suoi discepoli e a Eliseo, il suo rapimento nel carro di fuoco e l’inizio della missione di Eliseo che si spoglia delle vesti, raccoglie il mantello del maestro e, sulle rive del Giordano, viene riconosciuto come il vero erede del profeta. È un racconto intenso, pieno di tenerezza, nel quale un po’ si scioglie la durezza caratteriale che contraddistingueva Elia. Il profeta in qualche modo impara — e anche noi, ha suggerito padre Secondin, dovremo imparare «a offrire abbracci di speranza e di tenerezza» — dal suo discepolo che è affettuoso e paziente.
Il viaggio che porta i due protagonisti ad attraversare il Giordano esprime anche simbolicamente quel legame, che caratterizza tutta la vicenda di Elia, con la storia antica della salvezza ma anche con la storia futura, quella che vedrà Cristo immergersi in quelle stesse acque e portare la pienezza dell’alleanza. Già questo itinerario, nel quale il discepolo accompagna premurosamente il maestro e cerca di attingere da lui tutti gli ultimi preziosi insegnamenti, suscita delle riflessioni. «Tutti abbiamo bisogno di maestri» ha ricordato il predicatore, invitando sia ad avere sempre un padre spirituale, sia a saper accompagnare gli altri: «Altrimenti — ha ammonito — siamo solo burocrati».
Poi arriva la scena topica: la «vita di fuoco» di Elia, segnata da «parole di fuoco», alla fine si consuma nel fuoco «come un olocausto». Il profeta viene rapito in cielo nel carro di fuoco. E solo se Eliseo contempla questo fuoco può ricevere l’eredità di Elia, simboleggiata dal suo mantello. «Il carisma del governo, del culto, della profezia, della sapienza si trasmette nel fuoco, in una verità vissuta che brucia ostacoli ed è capace di aprire strade nuove» ha spiegato padre Secondin. Eliseo si spoglia di se stesso e si riveste del mantello: «Deve vivere quello che il mantello richiama: fuoco, servizio, lotta».
Il giovane, tornando verso la comunità, sente la pesantezza della sfida, la grandezza che lo sovrasta. Ha paura. Nella Scrittura si legge che egli sulla riva del Giordano grida: «Dov’è il Signore, Dio di Elia?». Ed è proprio allora, in un gesto, che ha inizio la sua missione. Eliseo percuote le acque con il mantello e le acque si aprono. Tutto parte da lì. E si ritrova lì, ha sottolineato il carmelitano, un impegno per ognuno: occorre «saper aprire un passaggio nel vortice caotico della vita, aprire sentieri di vita e di fedeltà». È, ha detto, «una sfida per tutti noi».
Rivolgendosi direttamente ai presenti, padre Secondin ha continuato: «Scendendo ora verso la città, lasciando questa solitudine in cui ci siamo un po’ nascosti, noi dobbiamo ugualmente accettare che gli altri possano vedere in noi che qualcosa dello spirito di Elia è sceso su di noi: dal nostro sguardo, dal nostro stile, dalla nostra capacità di aprire strade di autenticità e sentieri di libertà, dalla nostra capacità di abbracciare ogni morto perché torni in vita, di gridare i nostri dubbi... perché anche noi ne abbiamo tanti», la gente «deve poter verificare se davvero portiamo non solo il mantello, la faccia da oremus», ma anche la capacità «di aprire cammini in mezzo ai “Giordani” caotici della vita della storia, di questa società».
In questo senso il predicatore ha ricordato che il carisma del governo nella Chiesa e quello del celebrare devono sempre essere arricchiti dal «munus profetico» e da esso devono ricevere dinamicità.
Dopo aver sottolineato che, come è stato per Eliseo, tutti devono essere disponibili «a lasciarsi giudicare dai fratelli», padre Secondin ha provato a raccogliere le provocazioni e gli inviti scaturiti da questi giorni di meditazione. Innanzitutto l’attenzione al popolo e in particolare agli ultimi. Lo aveva già indicato nella meditazione della sera di giovedì, quando aveva molto insistito sull’importanza di farsi intercessori, di farsi carico delle fatiche del popolo: «Uscire verso gli altri, verso le fatiche dei poveri», come ha ribadito anche in un’intervista rilasciata al Centro televisivo vaticano in occasione di questi esercizi spirituali. Alla parola profetica, infatti, ha detto durante la meditazione, «è intrinseca la fecondità della fraternità».
Bisogna quindi «farsi tessitori di incontri e compagni di ogni tribolato». Soprattutto, occorre «lasciarsi continuamente sorprendere da Dio, imparare ad accogliere la novità di Dio». La Chiesa, ha ricordato il predicatore, «non può essere una bottega di restauro, un museo delle cere o un laboratorio di utopie strampalate». Perciò, come Elia, dobbiamo essere sempre pronti «a metterci in cammino se la Parola ci chiede di andare».
L'Osservatore Romano