domenica 22 febbraio 2015

La lezione di Gandhi e la verità senza violenza


Diario di bordo del recente viaggio in India dell'arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato su "Il Sole 24 Ore" di domenica 22 febbraio


di Bruno Forte
Cape Comorin (Kanyakumari nella lingua Tamil) è la punta estrema del subcontinente indiano, bagnata dai tre mari che lì si incontrano, l’Oceano Indiano, il Mare Arabico e il Golfo del Bengala. A poche centinaia di metri dalla costa, due rocce sporgenti ospitano rispettivamente un tempio in onore della dea Kanya, e la grande statua del poeta tamil Thiruvalluvar. Sulla destra del tempio risalta sul mare il monumento a Gandhi, costruito nel 1952 nel luogo in cui venne posta l'urna contenente una parte delle ceneri del Mahatma, prima che fossero sparse nelle acque.
Del Mahatma è riportata una frase, dedicata all’incantevole luogo: "I am writing this at the cape, in front of the sea, where three waters meet and furnish a sight unequalled in the world. For this reason is no port of call for vessels. Like the Goddess, the waters around are virgin" - "Sto scrivendo sulla punta (dell'India) di fronte al mare, dove tre acque s’incontrano e forniscono uno spettacolo ineguagliabile nel mondo. Per questo motivo non è porto di attracco per le navi. Come la Dea, le acque qui intorno sono vergini".
L’immagine dei tre mari che s’incontrano senza perdere la loro identità, mantenendo cioè la “verginità” delle loro acque, è colta da Gandhi come metafora del messaggio di reciproca tolleranza e rispetto che egli volle diffondere con la sua vita intera, fin quando una mano assassina pensò invano di ridurlo al silenzio. Oggi più che mai l’insegnamento del Mahatma è necessario e attuale, come ho potuto cogliere nel breve soggiorno che mi ha condotto in India a parlare agli oltre centotrenta vescovi cattolici del Paese e a visitare diverse comunità cristiane a Bangalore e nello Stato del Tamil Nadu, dov’è la diocesi di Tuticorin gemellata da decenni con quella a me affidata.
La prima, forte impressione che dà l’incontro con la realtà indiana è quella di una ricchissima diversità, testimoniata in maniera intensa dalle esperienze religiose che vi convivono: templi indù dai mille colori, popolati di statue delle divinità più diverse, si affiancano a chiese cristiane, dove l’unico Dio e Signore del cielo e della terra è adorato nell’ascolto della parola di vita eterna pronunciata nel suo Figlio unigenito, fatto uomo per noi.
Qui e lì qualche moschea aggiunge la voce dell’islam a quelle dell’induismo e del cristianesimo. Per quanto non ostentata, recepita anzi con naturalezza dalla mentalità comune, la diversità si impone allo sguardo, fatta di presenze cariche di secoli di storia: da quella plurimillenaria dell’induismo, a quella cristiana, giuntavi sin dalle origini della fede in Cristo attraverso la predicazione dell’apostolo Tommaso, a quella dell’Islam, che alcuni secoli dopo raggiunse varie aree del subcontinente indiano.
La diversità religiosa non è sperimentata dalla stragrande maggioranza della popolazione come una ferita o una sfida, ma accettata e rispettata come una ricchezza analoga alla varietà che rende bello il mondo: e la convivenza pacifica fra persone e famiglie di fede diversa è all’ordine del giorno, come parte naturale del clima intensamente religioso della cultura indiana. Questa reciproca tolleranza non equivale però in alcun modo a banale sincretismo: se il mondo indù è per sua natura aperto ad accogliere altre esperienze religiose come vie del tutto plausibili all’esperienza del divino, il cristianesimo coniuga slancio evangelizzatore a rispetto e dialogo con il diverso in nome dell’amore incarnato da Cristo. La creazione dei due Stati a maggioranza musulmana, il Pakistan e il Bangla Desh, nell’India moderna ha di fatto evitato il rischio di possibili tensioni religiose con l’Islam.
È in quest’ambiente culturale che si comprende lo straordinario messaggio di pace di Gandhi: lungi dal farsi portatore di un’indifferenza spirituale che banalizzasse le differenze, il Mahatma ha saputo interpretare lo spirito migliore della convivenza pacifica e tradurlo nella sua dottrina della “non violenza”, riconosciuta dalla maggior parte degli abitanti del subcontinente indiano come in profonda sintonia con le proprie radici.
Non si tratta di rinunciare alla verità, di cui tutti abbiamo bisogno per vivere dando senso pieno alla vita, ma di riconoscere che “la verità non è mai stata rivendicata con la violenza”, che essa non ha bisogno di essere difesa perché si difende da se stessa, e che chi volesse a tutti i costi difenderla dimostrerebbe proprio così di non credere in essa. “Piccolo grande uomo”, Gandhi incoraggia ciascuno a “cercare la propria strada e a seguirla senza esitazioni”, a “non avere paura”. È sua convinzione che “chi è davvero nobile, conosce tutti come uno solo e rende con gioia bene per male”, perché “non ci sarà liberazione per alcuno su questa terra, se non attraverso la verità e la nonviolenza, in ogni cammino della vita, senza eccezione”.
Si comprende, allora, come il recente insorgere dell’integralismo in alcune componenti del mondo indù sia in totale contrasto con questo spirito e risulti giustificato da calcoli politici piuttosto che da convinzioni radicate nello spirito religioso dell’India (in questa luce vanno letti anche i presupposti delle inaccettabili lungaggini nel processo ai due marò italiani detenuti in India).
Nei pochi giorni della mia permanenza nel grande Paese, a contatto con persone che potevano offrirmi chiavi interpretative affidabili e fondamentali, ho compreso che l’India del passato e del futuro non è quella degli attuali fondamentalisti, dei loro atti di violenza, delle loro prepotenze verbali. E il segnale importante del totale crollo di consenso del partito integralista al governo della nazione nelle elezioni svoltesi nella capitale Dehli due settimane fa, mostra come l’antidoto gandhiano alla barbarie continui ad agire nel profondo della grande cultura indiana.
A quest’anima occorre guardare e con essa bisogna dialogare per sostenerla nella sua possibilità di incidere sul presente e sull’avvenire dei trenta Stati che formano l’India moderna e ne fanno una protagonista di prim’ordine nel consesso delle nazioni per la costruzione della pace necessaria a tutti nel “villaggio globale”.