giovedì 26 febbraio 2015

La strategia dell’Is in Iraq e Siria.


Guerra contro i civili

La strategia del cosiddetto Stato islamico (Is), in difficoltà sul piano militare sui fronti iracheni e siriani, si sta definendo sempre più come una guerra alle popolazioni civili, con il ricorso sistematico a sequestri e atti di terrorismo. Ne dà conferma anche una dichiarazione diffusa ieri dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condanna il sequestro dei cristiani nel nord-est della Siria.
«Questi crimini dimostrano ancora una volta la brutalità dello Stato islamico, responsabile di migliaia di abusi contro persone di tutte le fedi religiose, etnie e nazionalità, senza riguardo per ogni valore di base dell’umanità» si legge nel documento.

E mentre crescono i timori per la vita dei cristiani rapiti in Siria — il cui numero resta ancora incerto, ma che alcune fonti stimano a oltre duecento — si è appreso ieri di un’analoga operazione di sequestro di massa compiuta dall’Is in Iraq, dove i miliziani hanno preso in ostaggio un centinaio di membri, compresi nove bambini, di un clan tribale schieratosi con il Governo di Baghdad.
Poche ore prima era stata data notizia che almeno ottanta miliziani erano stati uccisi in un raid aereo sferrato dalla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti sul centro di Mosul, la città settentrionale più volte indicata come prossimo obiettivo dell’offensiva contro il gruppo jihadista. Fonti mediche di Mosul citate oggi dalle agenzie di stampa internazionali hanno riferito che nei raid della coalizione nelle ultime ore sono stati uccisi cinquanta civili, compresi donne e bambini.
Sempre ieri, in diversi raid aerei egiziani nella regione del Sinai settentrionale sono rimasti uccisi 38 jihadisti. Altri 27 sono stati feriti. Lo ha riferito una fonte militare
Nella provincia nordorientale siriana di Hasaka, dove è avvenuto lunedì scorso il sequestro dei cristiani, i peshmerga curdi hanno annunciato intanto di aver interrotto il principale canale di rifornimento dell’Is — e di collegamento tra i territori controllati dal gruppo jihadista in Iraq e Siria — assumendo il controllo della strada tra la cittadina di Tel Hamis e la località di Al Houl, situata proprio a ridosso del confine iracheno. Resta invece incerto, più a est, l’esito del tentativo dell’Is di mantenere aperto il collegamento con la frontiera turca tramite la quale, secondo molte fonti, continuerebbe a ricevere rinforzi.
La lotta contro l’Is resta comunque il tema cruciale di confronto sia a livello di rapporti internazionali sia all’interno dei Paesi che partecipano alla coalizione, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento da tenere con il Governo di Damasco. È il caso, per esempio, della Francia, dove il ministero degli Esteri ha preso le distanze dall’iniziativa di una delegazione di parlamentari, di maggioranza e d’opposizione, recatisi a Damasco dove hanno incontrato il presidente Bashar Al Assad. Si tratta della prima visita di questo genere dall’interruzione delle relazioni diplomatiche con la Siria decisa congiuntamente nel maggio 2012 da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna. Una nota ministeriale parla di «un’iniziativa personale, in nessun modo ufficiale o diplomatica», mentre lo stesso ministro degli Esteri, Fabius, ha ribadito di ritenere falsa «l’idea che si potrebbe trovare la pace in Siria fidandosi di Bashar Al Assad».
La vicenda dell’Is sembra destinata ad avere un peso anche nelle relazioni tra il Governo di Washington e quello di Teheran. Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha dichiarato ieri che gli Stati Uniti e l’Iran hanno un comune interesse a sconfiggerlo. «L’Iran si oppone totalmente all’Is e sta eliminando i suoi uomini al confine tra Iran e Iraq. Abbiamo almeno un reciproco interesse, se non un impegno comune», ha detto.

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Appello dei presuli. Per non abbandonare la Siria   

«Non abbandonateci, non lasciateci soli». È il drammatico appello che l’arcivescovo di Aleppo dei Greco-Melkiti, Jean-Clément Jeanbart, lancia da quella che, suo malgrado, è diventata una della città simbolo della guerra civile in Siria. «È appena caduto un razzo — racconta il presule all’agenzia Sir — siamo a circa cento metri dalla linea di demarcazione, al confine della città antica. Ogni giorno muore qualcuno». La notizia del rapimento delle decine di cristiani — duecentoventi secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani — da parte dei jihadisti del cosiddetto Stato islamico, che ha conquistato alcuni villaggi cristiani nel Khabour, è arrivata fino ad Aleppo e adesso sale la preoccupazione per la sorte dei rapiti.
Da parte del presule c’è anche la denuncia dell’atteggiamento di sufficienza con il quale, almeno fino ai gravi fatti di Parigi, la comunità internazionale sembra avere guardato all’espandersi del fondamentalismo. «Ma per questa gente innocente, colpevole solo di professare la fede cristiana, nessuno spende mai una parola e ciò è davvero terribile», aggiunge l’arcivescovo, che descrive anche la situazione di «grave emergenza umanitaria» in cui versa Aleppo. «In città — afferma — manca tutto: elettricità, cibo, acqua, benzina, medicine. Le industrie sono state chiuse e i loro operai, più di un milione e duecentomila, ora sono privi di reddito. Le infrastrutture sono state colpite e distrutte dai bombardamenti dei ribelli e dei governativi. La vita è sempre più dura, complice anche l’inflazione che ha fatto quadruplicare i prezzi dei generi di prima necessità». E, ancora: «Prima della guerra qui abitavano oltre tre milioni di persone, oggi ne sono rimaste poco meno della metà. Gli altri oggi ingrossano le fila dei profughi e degli sfollati. Come Chiesa facciamo quel che possiamo forse più delle ong, delle agenzie umanitarie e anche del Governo stesso, aiutando quanta più gente possibile. Ma non basta».
Alle nazioni occidentali e alla comunità internazionale si rivolge anche l’appello del vicario apostolico di Aleppo dei Latini, Georges Abou Khazen, affermando — come riferisce AsiaNews — che «l’intervento militare contro lo Stato islamico non è la via giusta» per risolvere la crisi e restituire pace e sicurezza alla Siria e al Medio oriente. «Non ho mai creduto nella guerra — precisa — perché essa crea ancora più odio e divisioni». L’occidente, prosegue il presule, dice di combattere questi gruppi «ma li aiuta dall’altra parte. Chi compra il loro petrolio, chi vende loro le armi, chi è coinvolto nel traffico di reperti archeologici, di beni antichi di inestimabile valore?». Insomma, ci sarebbe anche molta «ipocrisia» nella lotta ai terroristi, «che non si risolverà certo con le bombe, ma smettendola di finanziare» i terroristi «a livello economico e militare. Quello che chiediamo è di non aiutare questa gente, non vendere loro le armi, lo diciamo da tempo ma nessuno ci ascolta». Parole molto simili a quelle dell'arcivescovo di Hassaké-Nisibi dei Siri, Jacques Behnan Hindo, che in una dichiarazione all’agenzia Fides ha denunciato le «politiche sciagurate» di alcune nazioni, che hanno «portato a questo caos» e hanno «distrutto la Siria, facendoci regredire di 200 anni».
Una severa condanna degli «attacchi criminali» arriva anche dal patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël i Sako, che si unisce agli appelli rivolti «alle comunità regionale e internazionale di proteggere i civili e di trovare in tempi brevi una soluzione efficace, seria e radicale al problema del terrorismo».
La Chiesa siro - ortodossa, nel frattempo, ha diffuso un appello ai fedeli emigrati all’estero e che ancora possiedono case a Qamishli, nella provincia siriana di Hasaka, perché le mettano a disposizione dei cristiani che hanno dovuto abbandonare i propri villaggi nella zona di Khabur attaccati dalle milizie fondamentaliste. Migliaia di fedeli siro ortodossi — si legge nel comunicato diffuso dal sito Baghdadhope — hanno lasciato la Siria già dal 2011, abbandonando le proprie case senza venderle. A quei fedeli fa appello la Chiesa, ricordando come le migliaia di sfollati che si sono riversati nelle città di Hasaka e Qamishli abbiano bisogno di un tetto e di un posto sicuro.
L'Osservatore Romano