venerdì 27 febbraio 2015

La fine della civiltà occidentale (2)



Come funziona la propaganda all’eutanasia

di Giuliano Guzzo
L’offensiva mediatica e politica a favore dell’eutanasia in corso in Italia – che vede marciare compatto un organizzato schieramento che va da Le Iene al quotidiano La Repubblica, dal mondo radicale a quello di taluni cosiddetti vip, molto abili a maneggiare gli slogan – è sotto gli occhi di tutti. Decisamente meno visibili, quando non del tutto occulte, risultano invece essere le strategie costantemente impiegate per orientare il dibattito, e che vanno sempre più assumendo gli avvilenti contorni di una propaganda. Per questo è importante isolare ed esaminare da vicino, sia pure in estrema sintesi, gli argomenti – che poi, in realtà, sono sempre gli stessi da qualche anno – proposti e riproposti per creare consenso attorno alla “dolce morte” benché assai fallaci, per non dire palesemente falsi e finalizzati non già a far ragionare la gente sul tema oggettivamente delicato del fine vita, bensì a smerciare ragionamenti preconfezionati, per così dire, e quindi manipolatori.
La prima tattica è quella dei sondaggi: non c’è vera campagna a favore dell’eutanasia, fateci caso, senza massiccio ricorso ad indagini demoscopiche. Peccato che detti sondaggi da un lato siano esaltati come dogma e, dall’altro, presentati in modo parziale. Non è corretto, per esempio, scrivere – come ha fatto nei giorni scorsi il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari – che «secondo l’ultimo Rapporto Italia dell’Eurispes il 64,6% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia» (La Repubblica, 26.2.2015). Premesso che ogni sondaggio sul tema è difatti da prendersi con massima cautela per via delle divergenze, talvolta perfino fra gli stessi medici, sulla definizione di eutanasia, con una rapidissima verifica si scopre come «secondo l’ultimo Rapporto Italia» i favorevoli all’eutanasia siano in realtà il 58,9%, cioè il 5,7% in meno rispetto al 2013 (64,6%) ed oltre il 9% in meno – sempre attenendosi ai dati Eurispes – al 68% del 2007. La vera notizia è quindi che gli Italiani, anno dopo anno, sono sempre più contrari all’eutanasia: ma questo, guarda caso, nessuno lo dice.
Una seconda strategia è quella di puntare il dito sulla piaga della clandestinità. E’ un vecchio trucco già usato con l’aborto: negli anni precedenti la legge si diceva fossero da 1,5 a 3 milioni (Corriere della Sera, 10.9.1976) oppure addirittura 4 milioni (L’Espresso, 9.4.1967), poi si scoprì che erano stime ingigantite in modo esponenziale, talvolta persino del 4.000%. E lo stesso accade adesso con l’eutanasia: da un lato si intervistano medici che riferiscono fatti curiosamente non verificabili e, dall’altro, si dice che in Italia i casi clandestini di “dolce morte” sarebbero addirittura 20.000, numero presentato come esito di una ricerca dell’Istituto Mario Negri. Se si va sul sito degli autori della ricerca, opera del Gruppo Italiano per la Valutazione degli interventi in Terapia Intensiva, si trova però una netta presa di distanza da siffatta interpretazione della stessa. «I dati di quella importante ricerca – si legge - sono stati riportati in maniera distorta e scorretta» e non può che essere «frutto di ignoranza, di superficialità o peggio di malafede porre sullo stesso piano l’eutanasia e la desistenza da cure inappropriate per eccesso, come purtroppo si è visto fare».
Un terzo argomento, collegato al precedente, è quello di quanti sostengono che già oggi, colpevolmente ignorate dallo Stato, oltre 1.000 persone malate l’anno si tolgono la vita ed altrettante tentano di farlo. Perché non offrire a costoro – è il ragionamento dei promotori dell’eutanasia legale – che comunque sono sofferenti e stanchi di vivere, strutture e reparti dove poter morire con dignità? A parte che fra il morire e l’essere uccisi, fino a prova contraria, sussiste un’abissale differenza pratica, etica e giuridica, c’è un aspetto che va ancora una volta tenuto presente: la fonte dei dati, ossia l’Istat (2008). Ebbene, esaminando i dati si scopre che, se è vero che vi sono stati 1.316 suicidi aventi la malattia come movente, è altrettanto vero come la gran parte di questi riguardi malattie psichiche (1.010) e non malattie fisiche (306); stesso discorso per i 1.382 tentativi di suicidio: quasi tutti causati da malattie psichiche (1.259) anziché da quelle fisiche (123). Come mai si nasconde questo dato? Forse perché scomodo e perché sarebbe dura mettere associare il suicidio di chi ha problemi psichici con l’osannata libertà di scelta?
Quarto argomento: il dolore insopportabile. Chi è contro il diritto a morire – è la tesi sostenuta – vuole imporre o prolungare la sofferenza. Ora, sarebbe interessante scoprire l’identità di soggetti tanto spietati da voler infliggere ai pazienti dolore. Di certo non lo vogliono infliggere i cattolici, che invece auspicano che a ciascun malato sia assicurata piena assistenza farmacologica ed umana e, quando colpito da forti sofferenze, il massimo alleviamento del dolore attraverso la somministrazione di opportune cure. Ne parlava già Papa Pacelli (1876-1958) il quale, nel lontano 1957, si spinse a precisare che se anche se «la somministrazione dei narcotici cagiona per se stessa due effetti distinti, da un lato l’alleviamento dei dolori, dall’altro l’abbreviamento della vita» essa è da ritenersi «lecita». Analogamente il Catechismo spiega che «l’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile» (2279).
L’ultima tattica pro eutanasia è strumentalizzare singoli casi di malati gravi; si fissano obbiettivi e microfoni sul volto di chi è purtroppo colpito da patologie incurabili quasi ricattando i telespettatori col seguente messaggio: se costui è costretto a rimanere in vita soffrendo la colpa è vostra. Le scorrettezze di simili strumentalizzazioni sono varie. Anzitutto non si dice che quel dolore, più che fisico, è spesso psicologico e spirituale. In secondo luogo, prendere il caso limite per discutere un tema è sbagliato trattandosi, appunto, di caso limite: è come se si facesse un’inchiesta sulle condizioni di estrema povertà che fanno arrivare alcuni rubare. La disperazione che porta a commettere reati dovrebbe forse spingerci a depenalizzare il furto? No, ovvio: dovrebbe spingerci invece a contrastare quella povertà; così il grido di chi chiede di morire non deve portarci a depenalizzare l’omicidio del consenziente ma a riflettere, all’insegna della vicinanza umana, sulla genesi di quel grido. Il terzo inganno è dire che l’eutanasia riguarderebbe il singolo, mentre invece avvierebbe una tendenza: in Olanda e Belgio, nel giro di pochi anni, le “morti legali” son cresciute a dismisura. Ma anche questo non si deve sapere, altrimenti la gioiosa macchina pro morte potrebbe incepparsi.
28/02/2015 (La Croce quotidiano)
*Virginia e non solo. Vittime dell'eugenetica
di Stefano Magni

Con una sentenza storica, nella sua sostanza, ma molto tardiva per i suoi effetti, lo stato della Virginia ha pienamente riconosciuto la sua colpa e ha deciso di risarcire (per quanto sia possibile) le vittime della sua passata politica eugenetica di sterilizzazioni forzate. Il risarcimento, che ha più valore morale che effettivo, a questo punto, è pari a 25mila dollari per ogni vittima, per un totale di 400mila dollari. “Non ho mai potuto avere una famiglia, come tutti gli altri. Hanno portato via i miei diritti” è stato il primo commento di una vittima ancora in vita di questa politica, Lewis Reynolds.
La politica eugenetica, dunque la sterilizzazione di tutti coloro che erano ritenuti “non degni di riprodursi” non è stata prerogativa del nazismo, anche se storicamente siamo portati a ricondurla al regime di Hitler. C’è chi ha preceduto i programmi dei nazionalsocialisti di selezione artificiale della “razza” e chi ha proseguito anche dopo la sconfitta della Germania. Il caso della Virginia è uno di questi. Lo stato del Sud degli Stati Uniti ha infatti effettuato circa 7000 suoi cittadini dal 1924 (dieci anni prima del nazismo) al 1979. E non è l’unico, né il più metodico nell’eseguire questa politica. Prima in assoluto, negli Usa, è e resta la California con circa 20.000 sterilizzazioni forzate dal 1909 (quando fu autorizzata nelle carceri) al 1963, quando il programma venne terminato. Una vittima di questa politica californiana, Charlie Follett, intervistato sei decenni dopo la sua operazione, rivela quanto arbitraria fosse questa procedura: stava prendendo il sole in un campo quando venne prelevato e portato in ospedale, senza una spiegazione, senza un perché. “Mi hanno prima iniettato alcune medicine, per addormentare i nervi. Poi ho sentito un ‘snip, snip’ ed era tutto finito”. Era una vasectomia. Da quel momento in poi Charlie era sterile, non avrebbe più potuto avere figli. In North Carolina, altro stato che ha praticato le sterilizzazioni forzate e recentemente ha deciso di compensare le sue vittime, un’altra donna, Deborah Blackmon venne sterilizzata quando aveva 14 anni.
Perché? Erano considerati “indegni” alla riproduzione tutti coloro che venivano considerati “mentalmente deboli”, una categoria estremamente arbitraria in cui potevano rientrare tutti i comportamenti non conformisti. In gran parte dei casi erano sterilizzati carcerati e ricoverati nei manicomi, persone in condizioni difficili come Charlie Follett i cui genitori erano alcolizzati, o come Deborah Blackmon, figlia di una famiglia povera. Le sentenze erano decise da una commissione burocratica. Non c’era processo, non c’era alcuna possibilità di difendersi, né di far valere le proprie ragioni. Fra gli sterilizzati si nota una sproporzione di donne (i due terzi dei casi) e di appartenenti a minoranze etniche, dunque afroamericani, nativi americani e latini. Il pregiudizio razziale era parte fondante del movimento eugenetico, era esplicito, partiva dalla convinzione che un nero avrebbe condotto una vita più dissoluta e incontrollabile rispetto a un bianco e avrebbe avuto una maggior propensione a far figli. Lo stesso discorso valeva per i latini: un quinto delle donne di Porto Rico, nei primi anni ’60, risultava già essere stato sterilizzato, nonostante la ferma opposizione della Chiesa locale. In tutto, sono stati 33 gli stati degli Usa, più Porto Rico, a praticare questa politica. E sempre in Nord America, anche il Canada è stato sia pioniere che assiduo esecutore della sua politica eugenetica.
Sono pochi gli stati, oltre alla Virginia e alla North Carolina, ad aver pienamente ammesso la propria colpa. La California, per esempio, non ha mai risarcito le sue numerosissime vittime e i loro familiari, anche se il governo ha espresso loro formalmente le sue scuse.
L’eugenetica non è un’esclusiva degli Usa, chiaramente, anche se il Nord America è fra i pionieri. In Europa il caso più clamoroso (oltre alla Germania nazista) resta quello della Svezia, dove si era venuta a creare una vera e propria rete di delatori, per segnalare alle autorità chi fosse indegno di riprodursi. Nella peggiore delle stime furono sterilizzate 62mila persone, su una popolazione, nella migliore 30mila, dal 1934 al 1975. Anche nella vicina Svizzera fu attivato un programma simile, che andò avanti fino agli anni 80.
I casi più noti di paesi in cui la politica eugenetica è ancora praticata in modo massiccio sono l’India e la Cina, lontano dall’Europa dunque. In Cina è la politica del figlio unico, ora solo parzialmente emendata, a causare milioni di sterilizzazioni forzate, aborti imposti dallo Stato e veri e propri infanticidi. In India la sterilizzazione è un obiettivo prioritario per i governi locali, che fissano quote di donne da sterilizzare, compensandole, persuadendole, o forzandole in un modo o nell’altro. Anche in India, l’aborto selettivo (delle femmine) è estremamente diffuso.
Ma attenzione a non sentirci ormai immunizzati dal fenomeno. L’eugenetica torna, sotto altre forme e con altri nomi. Torna col diffondersi della fecondazione artificiale, con le sempre maggiori possibilità di selezionare gli embrioni che si svilupperanno in uomini con caratteristiche desiderate. Torna con gli aborti che seguono le diagnosi pre-natali. E soprattutto con l’idea, molto diffusa fra le menti di Planned Parenthood e altre Ong per il controllo delle nascite, che l’aborto possa prevenire una vita disagiata in una famiglia povera. Kermit Gosnell, il medico finito in carcere per tre infanticidi, noto per i suoi aborti molto tardivi, lo diceva chiaramente: la sua era una “guerra alla povertà”, uccideva i futuri poveri prima che nascessero. Ai tempi dell’eugenetica, i poveri venivano sterilizzati. 

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Veronesi rilancia: eutanasia anche per i depressi
di Luigi Santambrogio
Puntuale e preciso come un bisturi al laser (ci veniva da scrivere come la morte) Umberto Veronesi è piombato come un aquilotto (ci veniva da scrivere come un avvoltoio) sulla campagna promozionale per l’eutanasia legale lanciata da Repubblica. L’oncologo, già collaudato e super gettonato sul tema, griffa un pezzo per elogiare la «bellissima testimonianza dell’infermiere Michele pubblicata coraggiosamente su queste pagine» (clicca qui).  E per reclamare, ancora una volta, una legislazione che offra copertura e impunità a medici e infermieri che praticano l’omicidio assistito. «È giusto prolungare di qualche giorno, settimana o mese, un’esistenza che è soltanto una serie di interminabili minuti di dolore a causa di una malattia terminale?», si chiede il professore, truccando un’altra volta le carte e giocando a bella posta a confondere accanimento terapeutico ed eutanasia. 
Da qui la reiterata richiesta di una legge sul testamento biologico, in modo da eliminare ogniresponsabilità e rischio per i medici e rispettare alle lettera la volontà del malato. Il solo autorizzato a decidere quando e come uscire dalla vita quando «una malattia senza alcuna speranza la renda insopportabile per il dolore fisico e la sofferenza psicologica». Notate quella “sofferenza psicologica”: basta una depressione per autorizzare l’iniezione letale.  Per impedire, dice Veronesi, anche il ripetersi di strazi come quelli di Eluana Englaro «che restò in coma vegetativo permanente per quasi vent’anni, finché il padre Beppe riuscì ad ottenere l’interruzione della vita artificiale».
L’importante per il professore è che si faccia presto, che il Parlamento si decide a legiferare sultestamento biologico e a liberalizzare l’eutanasia, perché «in assenza di regole viene calpestato in Italia il sacrosanto diritto di non soffrire». Cioè, non il diritto a tutte le migliori cure ma solo quello di togliersi la vita. Nessuna sorpresa, il number one dei chirurghi anticancro ci ha ormai abituato a queste campagne mortifere: aborto, droga, fecondazione artificiale, clonazione, eutanasia: da anni il professore ha abbandonato la sala operatoria per diffondere a tempo pieno il verbo della tecnoscienza con una crescente mole di iniziative, saggi, libri con una vitalità (non è una battuta) davvero stupefacente.
Oggi in molti ospedali, dicono i fans della punturina al cianuro, i medici praticano “l’abbandonoterapeutico”: lasciano cioè morire il paziente o gli somministrano dosi sempre più massicce di morfina fino a farlo crepare. Ma si tratta, di una “mezza eutanasia”, e senza che nessuno chieda nulla al malato. Lo dicono loro, ma dati certi non ce ne sono e quelli che vengono forniti non hanno alcun fondamento statistico. Le cifre potrebbero essere anche inventate perché vengono buone ai promoter della dolce morte per manipolare periodicamente l’opinione pubblica e orientarla in quel senso.  Tutto è lecito, anche inventarsi inesistenti “accanimenti” per tenere in vita pazienti già tecnicamente morti, solo per allungargli il calvario per qualche giorno o un mese al massimo.
Lo raccontava il fantomatico infermiere Michele, intervistato l’altro giorno da Repubblica, lo ripetepari pari l’oncologo Veronesi. Ma a smentirlo è uno che impegnato nello stesso fronte eutanasico ma senza bisogno di propalare panzane. È Mario Riccio dell’associazione Coscioni, il medico rianimatore che seguì Piergiorgio Welby. «Non è vero», dice Riccio, «che tutti coloro ai quali si interrompono le cure sono destinati a morire in pochi giorni. Nei corridoi degli ospedali prendiamo in tre quattro, giorni decisioni che per Englaro hanno richiesto anni». Beh, almeno questo medico ha il coraggio della verità: l’eutanasia non è per quelli che hanno poche ore di vita.
A fare un po’ di chiarezza interviene Massimo Antonelli, primario al Gemelli di Roma e presidente della Società scientifica degli anestesisti. «L’eutanasia», spiega, «è l’azione del medico che uccide intenzionalmente una persona somministrando farmaci e assecondando le richieste del paziente: un procedimento attivo. Altra cosa è la desistenza terapeutica. Bisogna avere la capacità di comprendere quando le cure offerte al malato sono straordinarie o sproporzionate. Proseguendole si rischia l’accanimento terapeutico». Insomma, Michele ha dato (intenzionalmente?) i numeri sull’eutanasia “silenziosa” già praticata oggi negli ospedali e anche al professor Veronesi ci mette tutto del suo per dare autorevolezza e dignità alla grande bugia.
Repubblica, come al solito, si limita a fare la buca delle lettere, a rilanciare tesi e dati senza andare a vedere se le cose stanno davvero così. Tantomeno ci preoccupa di garantire lo stesso spazio di parola a chi non la pensa come l’esimio professore Veronesi e lo sconosciuto infermiere. Così lavora la “macchina del fango” della sinistra mediatica e house organ dei nuovi padroni del vapore. La “dolce” morte di malati terminali o pazienti con il mal di vivere prima o poi diventerà legge e  Repubblica la saluterà come il trionfo della ragione laica e libertaria contro l’arcigna morale cattolica. Intanto si porta avanti, praticando l’eutanasia quotidiana sulla buona informazione.