sabato 28 febbraio 2015

QUANDO LA PAROLA PRENDE FUOCO I CONSACRATI CHIAMATI ALLA PROFEZIA BRUNO SECONDIN O.C.

Opus Dei - Esempi di fede (IV): Il profeta Elia

L'anno appena iniziato è dedicato alla vita consacrata. Di seguito una meditazione del padre Bruno Secondin.

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QUANDO LA PAROLA PRENDE FUOCO
I CONSACRATI CHIAMATI ALLA PROFEZIA

BRUNO SECONDIN O.C.
docente di Teologia spirituale, Pontificia Università Gregoriana, Roma

Siamo chiamati ad esercitare un ministero profetico, assieme a tutto il popolo di Dio, in maniera simbolica, critica e trasformatrice, come si diceva al Sinodo (Instrumentum Laboris del Sinodo 1994, n. 9; VC84-85). Possiamo anche dire che senza la dimensione profetica la vita consacrata non è se stessa: 
nelle origini di questa vocazione ecclesiale e nelle rinascite che hanno segnato di tempo in tempo il suo rilancio, e anche la sua capacità di reinventare il paradigma orientatore, sempre la dimensione profetica, cioè una forte esperienza di Dio assieme alla santità, all'audacia, e all'inventiva, hanno caratterizzato i vari momenti.
Oggi forse, più che nel passato recente, abbiamo bisogno, in questa giungla globale, di aprire delle radure, degli spiazzi abitabili e accoglienti. Così come nel passato furono aperte radure nelle selve della natura, adesso bisogna aprirne in questa seconda natura, quella artificiale. Aprirsi un varco significa coltivare modi di comportarsi e di pensare che si discostino dall'isteria globalistica: rallentare i ritmi, saper essere caparbi, coltivare il senso del luogo in cui ci si trova, saper staccare la spina. Aprirsi una radura con un po' di luce, significa scoprire, nell'intrico delle storie, la propria storia e mostrarla agli altri come carica di senso e di valore.
Non si vive la dimensione profetica come fosse un prodotto "distillato dagli alambicchi" di geniali pensatori, che una ne fanno e cento ne pensano. Si tratta di una qualità da portare con Cristo e con tutto il popolo, sotto l'impulso dello Spirito, in uno specifico contesto storico e culturale.

1. Che ci fanno i profeti in una società liquida?
Che ce ne sia bisogno e urgenza di profezia mi pare che possiamo dirci convinti tutti. Il modo come riuscire a farlo, magari, rimane ancora nel vago: sia per parte nostra, perché siamo ormai defatigati assai per le traversie del rinnovamento di questi decenni, dai quali non abbiamo ricavato in fondo molto, se ci sono tanti che ancora dubitano che sia stato positivo questo trambusto postconciliare. Sia per parte del contesto socio-culturale, perché la società dentro la quale vorremmo essere pungolo e lievito, si sta sgretolando nei progetti e nelle attese, ogni giorno è più marasma che buon vivere.
Molti anni fa il teologo H.U. Von Balthasar avvertiva la sfida dell'indebolimento dell'agape a favore di un eros transitorio fatto di relazioni corte e quasi "tascabili" e di messa in scena estetizzante e senza responsabilità. Tempi duri per la fede, quindi, a causa dell'evidente transitorietà e vulnerabilità di tutto (o quasi tutto) quello che conta nella vita terrena. Potremmo dire che i nostri sono tempi poco propizi alla fiducia e più in generale ai progetti di "ampio respiro". È la convinzione del famoso sociologo Zygmund Bauman, che insiste a parlare di società liquida.
E con ciò ci ha messo in guardia dalle illusioni di parlare a gente e contesti dai principi solidi e dai valori stabili. Tutto pare dominato dalla provvisorietà durevole (lui direbbe transitorietà congelata), cioè da un modus vivendi che è accozzaglia di momenti, che si compongono, si scompongono e si sciolgono in fretta. Progetti a breve termine ed episodi giustapposti che non consentono orientamenti verticali (cioè stabili), ma solo laterali, cioè fughe e diversioni, mosse strategiche per sottrarsi e accelerazioni paniche per non rimanere impantanati.
In questa congerie di confusione e di illusioni, il cristiano deve trovare uno stile che parli e incida, come dice il teologo Christoph Theobald, un cristianesimo come stile, come un modo di abitare questa postmodernità, facendo concordare il contenuto con la forma.
E allora ci limitiamo a vendere pane, per ricordare una battuta di Miguel de Unamuno, mentre il nostro mestiere sarebbe quello di essere il lievito; curiamo la messa in scena - mise-en-forme -, assistiamo distratti allo scempio dei reality shows, invece di operare per ri-formare e con-formare questo nostro vivere, segnalandogli dei valori meno effimeri e delle ragioni meno precarie. C'è una urgenza profetica nella congiuntura storica che viviamo, ma che bisogna decifrare, per non accendere fuochi fatui.
Sarebbe piuttosto doveroso illuminare bene i sentieri appena intravisti e decifrare nella imperversante delusione per ogni avventura creativa, le risorse ancora non inquinate dal pessimismo e dalla manutenzione svogliata. Diceva mons. Oscar Remerò, commentando l'immagine dei cani muti di Is 56,10: "Non possiamo tacere come Chiesa profetica in un mondo corrotto e ingiusto. Sarebbe il compiersi di questo terribile paragone: dei cani muti. A che serve un cane muto che non protegge la casa?"
Come custodire l'eccedenza profetica della speranza cristiana quando essa è un bene scarso e fragile, e il ripiegamento sulla soggettività e il culto del sé stanno mettendo in metastasi tutto il nostro ecosistema di vita consacrata? E così si diffondono protesi malriuscite per angosce mal interpretate: penso a certi imprudenti reclutamenti vocazionali, al discernimento a maglie molto larghe per trattenere qualcuno almeno, a certe fondazioni in paesi poveri, dove si vive da borghesi, per attirare vocazioni da inviare in Europa. Tanto per fare un esempio. Per cui, oltre a violenze antievangeliche sulla pelle dei deboli, abbiamo avuto dei laboratori di globalizzazione negativa, dove la diversità delle culture e delle sensibilità è stata semplicemente folklorizzata, al servizio di identità religiose locali non permeabili, riottose ad ogni flessibilità, razziste in maniera palese.
Gli esegeti ci dicono che la parola metanoia, può significare svolta stretta, conversione a U, cambio di direzione. Ma anche un vedere oltre, al di là, un orizzonte che sovrasta, allarga; come del resto è la teshuvah ebraica, che non è puro pentimento e conversione, ma implica una coscienza non conformista, un vedere luce e "una cosa nuova" là dove tutti imprecano per il buio. Di possibilità profetiche ne abbiamo sentite in abbondanza in questi tempi: il problema è che siamo in una fase anemica per le forze che vengono meno e il sovraccarico di strutture che non riusciamo a dismettere o nemmeno rottamare. E si deve aggiungere una situazione di anomia, di deregulation che si intreccia con l'indebolimento delle forze, il rimescolamento delle prospettive culturali, lo spostamento al sud del nostro futuro non solo come membri giovani, ma presto anche come priorità culturali e ermeneutiche carismatiche.
Ecco, ingarbugliati come siamo, come riuscire a reinventare il fermento profetico nella vita ecclesiale? Cosa che del resto abbiamo sempre vantato di saper fare e sempre abbiamo elogiato nei fondatori. È arrivato forse il tempo di tirare i remi in barca, di accontentarci di rivisitare il passato glorioso e ammirevole, nescienti sull'avvenire che ci sovrasta?
Ma sono proprio queste situazioni di perdita delle tracce di Dio nella nostra storia, della paura dell'avvenire incombente, della disseminazione dei progetti in mille faville che subito si spengono, il tempo propizio per il ministero profetico. A patto che esso non nasca per indorare di sacro aneliti meschini, ma per ridare alla Parola di Dio - intesa come proiezione e affermazione di un disegno che ha un fine e una finalità ben marcata -tutta la sua forza di interpellazione e di speranza.

2. Il primato assoluto della Parola per una vita consacrata profetica
La prima condizione perché si abbia davvero una "unzione profetica" e quindi anche un legittimo ed efficace munus propheticum in mezzo al popolo di Dio, è la totale apertura del cuore alla Parola di Dio. È bene riascoltare un testo che ci riguarda bene: "La vera profezia nasce da Dio, dall'amicizia con Lui, dall'ascolto attento della sua Parola nelle diverse circostanze della storia. Il profeta sente ardere nel cuore la passione per la santità di Dio e, dopo aver accolto nel dialogo della preghiera la parola, la proclama con la vita, con le labbra e con i gesti, facendosi portavoce di Dio contro il male e il peccato" (VC84b).
Non è pertanto frutto di una sensibilità sociologica, che sa cogliere i meccanismi perversi in atto nella società, non è una intuizione religiosa che percepisce le derive verso cui tende la massa dei credenti e lancia l'allarme. Non è neppure il sogno - per stare nei nostri discorsi sacri - di ridare slancio e smalto ai gesti e alle opzioni originali del fondatore o di un qualsiasi maestro, verso il quale nutriamo ammirazione e dedizione. Non è neppure la reazione aggressiva e irruente verso una vita di scandali o di collusioni degli ecclesiastici con i poteri mondani - cose che spesso sembrano motivare qualcuno per scagliarsi con violenza supposta "profetica".
La profezia cristiana nasce, si nutre e si qualifica come autentica, dall'esperienza personale, intima, sconcertante con Dio che intende risvegliare la coscienza e coinvolgere la responsabilità di una persona in vista di una nuova stagione della sua storia con questa umanità. Il profeta - donna o uomo che sia - viene investito della dynamis della parola/azione di Dio dentro questa storia, ne percepisce l'irruenza e ne viene impregnato della sua efficacia in atto, e quindi si fa testimone e portavoce di una parola che già muove la storia in una certa direzione. Il profeta è messo in grado di "vedere" la Parola che sta operando, prima ancora che altri se ne accorgano. Ma questo non può avvenire se non attraverso una misteriosa esperienza di plasmazione interiore, di sradicamento dal comune modo di pensare, per vedere - oltre la siepe di un presente occluso - i sentieri di una nuova fedeltà, tutta da inventare e vivere, non tutta già confezionata.
Nella vita consacrata è inutile parlare di dimensione profetica, di funzione profetica, di testimonianza profetica, di natura profetica, e via dicendo, se non si parte da questo punto. Se la Parola di Dio non diviene davvero la sorgente dei progetti e del senso della vita, non diviene fuoco divorante e lievito che fermenta la nostra stessa vita, la profezia è una pia illusione, anzi è sonnambulismo collettivo in pieno luce del giorno. Dove la Parola di Dio è uno dei tanti elementi, e neppure il più importante, del vivere e del pensare del gruppo; dove la Parola di Dio figura come libro fra i libri, sapienza fra le sapienze, lettura fra le letture, devozione fra le devozioni: mai possiamo aspettarci un sussulto profetico, mai si uscirà dalla gestione annoiata e tutt'al più devota delle intenzioni dei fondatori e della stessa radicalità evangelica.

3. La parresia e l'autenticità del profeta
È quanto mai vero e imprescindibile, quanto dice Lineamenta del prossimo Sinodo 2008: bisogna dare risalto alla "potenza trasformante della Parola nel cuore di chi l'ascolta" (n. 26). Da qui nasce e si nutre la parresia del profeta e la sua autenticità, non da altre sorgenti; e "senza un rinnovato ascolto della Parola di Dio non v'è preghiera né cammino autentico di santità" aveva già avvertito Movo millennio Ineunte (cfr n. 39).
Eppure sono ancora in molti che credono che preghiera e santità nascano così per celeste mozione, accanto, se non a prescindere dalla Parola di Dio. E allora si fanno impalcature contorte di santità e catafalchi devoti di vita di preghiera, che poco hanno a che fare con l'autentica santità cristiana e con la preghiera come risposta a Dio che ci parla e ci ama (cf. Catechismo Chiesa Cattolica, nn. 2559-2564). Già Vita Consecrata aveva segnalato il legame strettissimo - parlava di istinto soprannaturale - fra la frequentazione della Parola, l'intensità della contemplazione e l'ardore della azione apostolica (VC94).
Vogliamo riprendere nella Chiesa una credibile funzione profetica, un ruolo di testimonianza audace, una capacità di intuire e anticipare le esigenze e le opere di Dio, allora cominciamo col mettere al centro in senso pieno, decisivo, esemplare, quasi esagerato (sì esagerato, dico, vista la disabitudine da cui veniamo) la Parola di Dio, l'ascolto orante, riflessivo, appassionato di questa memoria della nostra identità e delle opere da Dio compiute per chiamarci al dialogo e alla comunione.
Se la Parola è trascurata, o messa lì come soprammobile, per caso e senza un cuore appassionato e impegnato a farne la sapienza unica di vita, continueremo a piangere perché "il sacerdote e il profeta si aggirano per il paese e non sanno cosa fare" (Ger 14,18). Saranno sterili i nostri progetti, perché non forgiati nel crogiolo della Parola, perché non sono nati nel silenzio vivente di un ascolto umile e implorante, ma piuttosto nel frastuono di slogans a cui affidiamo un kairòs che non compete loro, perché sono moneta falsa.
Per questo io insisto sulla lectio divina - per quanto possa anche essere spesso una moda pasticciona e di frequente ridotta a puro rattoppo devozionale o infilata per scrupolo ipocrita nell' orario comunitario - e dico che la lectio divina è uno delle poche risorse che hanno mostrato di garantire - qualora sia fatta con serietà e dedicazione di fede, in comunione con la fede della Chiesa e situata nelle vicende storiche (cfr VC 94) - una rigenerazione profonda delle ragioni di vita e "una sorgente di conversione, di giustizia, di speranza, di fraternità, di pace" (Lineamenta, n. 26b).
Questo stesso documento parla ancora di una terza frontiera cui deve portare l'ascolto orante e impegnato della Parola: "la franchezza, il coraggio, lo spirito di povertà, l'umiltà, la coerenza, la cordialità di chi serve la Parola" (ivi). Sono tutti elementi che non nascono per sviluppo moralistico dell'ascolto devoto della Parola, ma per la sua intrinseca capacità di mettere in moto delle novità, di dare corpo e forma a quanto essa stessa propone e indica. C'è una dynamis intrinseca alla Parola che opera, e non è frutto della nostra spiegazione moralistica o prassiologica. Come dice il profeta, la Parola che Dio sparge porta intrinseca la capacità di diventare "pane da mangiare e seme al seminatore" (Is 55,10).
lo direi che chi si mette a leggere per esempio il Deutero-lsaia, non solo con l'intento di fare una riflessione interiore devota ed edificante, ma con la preoccupazione anche di vedere in gioco le due sponde antagoniste: il disfattismo consolidato dai decenni di umiliazioni e di dispersione degli esiliati, e la empatia con cui Dio, attraverso il profeta, rassicura di capire le ferite profonde del popolo, ma anche intende mantenere la fedeltà liberatrice, si troverà come nel bel mezzo di molte nostre situazioni ecclesiali e di Congregazioni religiose. Si tratta di scavare, con animo di stupore e con un ascolto attento alle sfumature dei moti profondi della psiche, per riuscire a cogliere ondate di paura e di speranza, le cicatrici appena rimarginate e le piaghe ancora sanguinanti, la nostalgia struggente delle storie dei padri e la tentazione del qualunquismo fondata su realtà senza soluzioni alternative. La stessa cosa si può fare con molti altri testi biblici: purché non sia la curiosità a guidare, ma la ricerca di un ascolto obbediente e stupito di ciò che Dio ha da dirci ancora oggi, nelle situazioni senza via di uscita.

4. I poveri ci evangelizzano
Mi pare che qui venga a proposito quanto già annotava il documento della Pontificia Commissione Biblica,13 cioè che si è fatta più acuta la coscienza ecclesiale che il vero interprete della Parola di Dio è chi ha l'animo del povero, in senso interiore, ma anche esteriore e sociologico. Scriveva infatti: "È motivo di gioia vedere la Bibbia presa in mano da gente umile e povera, che può fornire alla sua interpretazione e alla sua attualizzazione una luce più penetrante, dal punto di vista spirituale ed esistenziale, di quella che viene da una coscienza sicura di se stessa". La frase è riportata con convinta adesione anche da Lineamenta (n. 25) e trova senza dubbio nella prassi delle CEBs latinoamericane o delle PCC africane o asiatiche una riprova ricca di ispirazione.
Questo nuovo contesto ermeneutico esistenziale, quello dei poveri e degli emarginati, può spiegare meglio alcuni requisiti - ribaditi proprio da Lineamenta (n. 26) - che sembrano più propri del contesto comunitario e dei lettori delle classi povere che del mondo monastico: come l'annuncio e la testimonianza della Parola come sorgente di giustizia, fraternità, pace; e la sua stimolazione per la franchezza, il coraggio, lo spirito di povertà, la coerenza, la cordialità. Tutte virtù e capacità virtuose che sembrano riflettere una lettura orante di gruppo più che la solitària lectio nella cella monastica. Non solo quindi ci si allontana dalla esegesi accademica e fredda, ma anche dalla lettura meditativa e riflessiva nella solitudine, per una lettura empatica, trasformante, socialmente e storicamente appassionata ed efficace. Le esperienze sono numerosissime, ma anche le paure di esagerazioni e prassiologie troppo immediatiste abbondano e allarmano. Bisogna trovare un equilibrio, ma l'orizzonte è aperto con decisione. E anche l'esortazione Vita consacrata aveva segnalato che l'opzione per i poveri - in tutto lo spettro delle esigenze, non solo dei gesti ma anche della condivisione dei criteri e delle categorie di valutazione - era una caratteristica della vita consacrata, nei suoi modelli e tempi migliori. E aveva esortato la vita consacrata a contestare "con forza l'idolatria di mammona, proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della misura e il significato stesso delle cose" (VC90).
 
5. La luce e i problemi
Questo servizio profetico di contestazione e di richiamo della coscienza per essere autentico non può che essere ancorato alla lettura della Parola con l'animo e in compagnia dei poveri. Perché da questo luogo sociale e culturale lo sguardo e le prospettive sono differenti, c'è un senso realistico molto più concreto e diretto, i temi dell'oppressione, dell'ingiustizia, della emarginazione, sono sentiti sulla carne viva, non ideologicamente.
Scrive Carlos Mesters: "Leggendo la Bibba, il popolo ha presente i problemi della dura e sofferta realtà della sua vita. La Bibbia appare come uno specchio di ciò che oggi si vive. Il popolo scopre che oggi calpestiamo lo stesso terreno di ieri. Stabilisce così un legame profondo tra la Bibbia e la vita. Si realizza una illuminazione reciproca: la Bibbia getta la sua luce sulla vita e la vita rende più comprensibile la Bibbia.
A partire da questo legame tra la Bibbia e la vita, i poveri fanno la scoperta, la più grande di tutte: se Dio è stato vicino a quel popolo in passato, allora egli sarà vicino anche a noi. Se ha ascoltato l'invocazione di quel popolo, ascolterà anche la nostra! Se ha liberato loro, sta anche dalla nostra parte nella lotta che sosteniamo per la libertà".
Per fare un esempio, prendiamo il libretto di Rut: la vicenda di questa famiglia di emigranti ha un fascino che ancora oggi incanta. Costretti ad emigrare in cerca di pane, Noemi e il marito, con due figlioletti, emigrano verso la terra di Moab, in cerca di pane e dignità. Là i due figli trovano anche moglie, ma poi tutti e tre gli uomini muoiono e restano tre vedove, in balia della loro solitudine e della loro emarginazione. Allora Noemi decide di rientrare a Betlemme ma Rut la vuole assolutamente seguire e condividere tutto con la suocera, mentre Orpa non se la sente di lasciare la sua patria.
Sappiamo come poi vanno le vicende: Rut riesce, con il consiglio della suocera a riscattarsi dalla sua emarginazione e a sposare Booz, dal quale ha un figlio, Obed, che sarà poi il nonno di Davide. In tutta la vicenda che ha il sapore di un racconto popolare e quasi l'incanto di una favola, si vede bene come anche nelle tragedie più gravi i poveri sappiano affrontare con piena lucidità e ingegnosità le situazioni, ma anche con un senso di fede profondamente serena e fiduciosa. Il libro di Rut termina con la scena di Noemi che tiene sulle ginocchia il neonato e le donne che dicono: "È nato un figlio a Noemi" (Rt 4,17).
Si ha l'impressione che quel bambino sia una vittoria di popolo: contro le disgrazie, le morti inspiegabili, gli sradicamenti che uccidono tenerezze e fecondità. È anche canto e gioia per l'amore che è più forte della morte; la lotta per sopravvivere che alla fine trasforma anche le situazioni più fragili in storia nuova. La Betlemme da cui Noemi ed Elimelech si erano allontanati con dolore in cerca di pane e di vita, e a cui era ritornata solo Noemi rinsecchita e avvilita nel cuore (cfr Rt 1,20-21), accompagnata dalla nuora Rut, anch'essa vedova, ora ridiventa la terra del pane, della gioia, della vita.
È la parabola della nostra vita: ci sembra di vivere giorni amari, sterili, senza futuro. Lasciando il protagonismo ad altri, come Noemi con Rut e Booz, ma mettendo a disposizione esperienza e intuito, senza gelosia, la storia cambierà, rinascerà la vita. È importante imparare a tirarci indietro, dare spazio, credere nella maturità altrui. Non stare sempre lì a rivendicare ruoli ormai non più reali, a piangere sul passato che ci ha deluso e che però vorremmo che ci desse miracolosamente liberazione. Le nostre congregazioni sono "vecchie" anche perché gli anziani, spesso, troppo spesso, non sanno fare come Noèmi, rimanere tra le quinte, suggerire, incoraggiare, gioire, sognare per il bene dei giovani. Tanti anziani e anziane continuano a credersi sempre validi e forti, non lasciano spazio ai giovani, alla loro avventure giovanili, alle loro utopie, e tutto diventa allora vecchio e ammuffito, stantio e triste, e si tira avanti senza gioia né audacia profetica. In queste situazioni mai nascerà un Obed della speranza.

6. Una dynamis intrinseca
Questo significa che la Parola di Dio ha in sé la forza plasmatrice che consolida nel cammino di fede e insieme rilancia verso stagioni non vissute, da vivere con fiducia e pazienza, come il contadino, direbbe Giacomo, che attende le piogge d'autunno e di primavera, con animo sereno e vigilanza operosa (cfr Cc 5,7).17 Se pensiamo invece che siamo noi con le nostre spiegazioni a dare senso e attualità alla Parola, come se fosse un involucro che ha bisogno di apporti esteriori per avere peso e senso, siamo fuori strada. "Non è l'uomo che può penetrare la Parola di Dio, ma solo questa può conquistarlo e convertirlo, facendogli scoprire le sue ricchezze e i suoi segreti e aprendogli orizzonti d senso, proposte di libertà e di piena maturazione umana" (Lineamenta, Sinodo 2008, 34).
Ha scritto da qualche parte Carlo Maria Martini: "Questo mondo richiede personalità contemplative, attente, critiche, coraggiose. Esso richiederà di volta in volta scelte nuove e inedite. Richiederà attenzioni e sottolineature che non vengono dalla pura abitudine né dall'opinione comune, bensì dall'ascolto della parola del Signore e dalla percezione dell'azione misteriosa dello Spirito Santo nei cuori".
Il contatto assiduo, impegnato, obbediente dei religiosi con la Parola, è la sola condizione perché riescano a ritrovare l'audacia delle scelte profeti-che e il fervore nel portarle a compimento con parresia e robustezza d'animo. E ce n'è bisogno oggi, dell'una e dell'altra, dato il momento che stiamo passando. Se vogliamo "rifondare" la vita consacrata, perché sia all'altezza delle sfide attuali e non sia pura manutenzione di vecchie storie isterilite, dobbiamo percepire questa "urgenza profetica", non cercando ricette e istruzioni pronto uso, ma esercitando la nostra immaginazione, e ricuperando quella funzione simbolica, critica, trasformatrice di cui facciamo credito ai nostri fondatori e in genere alla storia della vita consacrata. Sarà proprio la capacità di esercitare la nostra immaginazione profetica, nella sequela Cristi, nella forma Ecclesiae, nella imago mundi, che potrà garantire il nostro futuro, non come sopravvivenza archeologica e folklorica, ma come stile che manifesta e attesta l'unità fra passione per Dio e passione per l'umanità. La passione che anima i profeti è soffio divino, è la passione stessa di Dio: un amore infinito per tutta l'umanità, un amore tenace, audace, fiero, sempre possibile, nonostante tutto.
Si tratta di leggere la vita con la Bibbia, non una qualsiasi vita, ma quella che è iscritta nella nostra carne, nelle nostre strade, nelle nostre storie vecchie e nuove. E allora i testi saranno ascoltati, ma diventeranno anche fuoco che purifica e germoglio che spacca anche il terreno più duro. Se sappiamo accostarci a mani nude a questi carboni incandescenti e ce ne lasceremo ustionare, lo Spirito donerà altre primavere, renderà la nostra vita una dossologia della Parola e della sua dynamis imprevedibile. E la Parola prenderà fuoco, ma arderà anche la nostra vita.


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