giovedì 26 febbraio 2015

«Raro sono io, non la malattia»



La storia di Michele

di Lucia Bellaspiga
«Egregio direttore, il Signore si serve di "Avvenire" per fare miracoli...". La lettera arrivata in redazione giorni fa allegava due trafiletti ingialliti, usciti sul nostro giornale 25 anni or sono, obbligandoci a un flashback. "Michele è un bel bambino di 5 mesi ricoverato dalla nascita in ospedale e adottabile", spiegava l’articoletto, firmato dall’allora giudice onorario del Tribunale dei minori di Milano, Silvio Barbieri (lo stesso autore della lettera odierna). Il neonato però presentava un quadro clinico grave, occorreva una famiglia speciale... Quindici giorni dopo un secondo trafiletto ripeteva l’appello: "Si cerca una coppia che accolga il piccolo con assoluto spirito di servizio... potrebbe infatti verificarsi una morte prematura".

Fine del flashback. Genova, quartiere Sanpierdarena, ieri. Michele, il neonato destinato a morire presto, ha 25 anni e una maturità scientifica da 100 e lode. Non è guarito, non guarirà mai, perché la sua è una malattia rarissima (un caso su un milione nel mondo, 40 in tutta Italia), per cui fare ricerca non conviene. Eppure è visibilmente felice, tra mamma Paola (ex insegnante di religione) e papà Franco Cargiolli (macchinista di treni in pensione), la coppia speciale che un quarto di secolo fa il giudice di Milano cercava con il lanternino. La sindrome di Lesch-Nyhan (LND) su Michele ha infierito con cattiveria particolare: tetraparesi spastica, l’insulina fin da piccolino, poi a 9 anni il trapianto di reni seguito da una costellazione di ricoveri. 

Tutto a causa di un enzima mancante che determina disturbi gravi del comportamento: notte e giorno quattro fasce tengono legati polsi e caviglie alla sedia a rotelle, come lui ci mostra sorridendo. Sa bene che senza quelle farebbe del male a se stesso e agli altri, involontariamente: «Immagina un’automobile cui abbiano invertito freno e acceleratore – spiega Paola –, tu cerchi disperatamente di frenare e invece piombi sul pedone. Questi bambini vivono con un’angoscia tremenda, il corpo fa sempre l’opposto di ciò che vorrebbero e loro arrivano a mordere se stessi, si picchiano fino a farsi molto male». Michele sorride ancora e annuisce, «il mio corpo mi comanda», dice a modo suo. Mamma e papà "traducono" per la cronista. 

«Non hanno nemmeno freni inibitori nel parlare, come quando chiamò "ciccione" un professore grasso il primo giorno di scuola o disse ad alta voce il fatto suo a un conferenziere in Aula Magna, con grande sollievo dei compagni che non osavano fare altrettanto», ride anche Franco. «In casa ci siamo tutti abituati a una grande franchezza...». E sì che la sua vita è stata in salita fin dall’inizio, quando la sua mamma, una ragazzina minorenne, dopo averlo partorito alla Mangiagalli di Milano non lo volle riconoscere e lo lasciò lì, anche se della malattia non si sapeva ancora nulla. 

«Così per noi arrivò la cicogna, e cioè Avvenire». Il 1° ottobre 1989 lessero quel primo trafiletto assieme ai loro tre bambini, «ma non ci passò nemmeno per la testa di accoglierlo noi. Dopo 15 giorni però è uscito il secondo appello e con i nostri bambini abbiamo detto una preghiera perché quel neonato trovasse davvero una famiglia. Fu Marco, il piccolo di 8 anni, a lasciarci di stucco dicendo: e perché non lo prendiamo noi?». Un fulmine a ciel sereno, l’impossibile che si crea un varco nel possibile, soprattutto grazie al candore del bambino: «Dai, papà, in fondo non abbiamo mai vinto niente, noi!».

Chissà cosa intendeva. Certamente che Michele era comunque un «premio». «Cosa che poi è risultata vera – assicura Franco –. All’epoca mi consultai con il pediatra che, saputo il nome della malattia, si prese la testa tra le mani e ci disse assolutamente di lasciar perdere. Andai in chiesa per meditarci su e nel Vangelo di quel giorno Gesù diceva "quello che farete al più piccolo di voi lo avrete fatto a me". Era così lampante e non lo avevo capito!». Le notti insonni poi sono state migliaia, eppure «dopo 25 anni ci chiediamo ancora perché Dio abbia concesso a noi un tale privilegio. Michele cambia la vita a chiunque lo incontri». Dall’asilo al liceo, compagni e professori lo hanno amato in modo tangibile e quotidiano, così come tutti i medici che negli anni ha incontrato, nonostante le battaglie contro la burocrazia e per ottenere quel po’ di assistenza domiciliare... «Ma noi paghiamo volentieri le tasse, perché la Sanità gli ha sempre passato cure e operazioni», tiene a far sapere mamma Paola, che non percepisce pensione perché «per stare con lui lasciai il lavoro». 

Anche quel pediatra che li aveva sconsigliati non ha mai voluto un soldo: «Volete essere solo voi a fare le cose buone?», protestava ad ogni visita, innamorato di quel neonato. Che fino ai 4 anni non pronunciava una parola, non si sapeva nemmeno quanto davvero capisse, finché a sbloccare la situazione non venne Terence Hill con i suoi film: «Non voleva vedere altro, iniziò ad esprimersi allora e ancora oggi Terence Hill è la sua passione».

Da due anni Michele scrive fiabe e due libri sono già andati a ruba. L’ispirazione è chiara: il Principe Michele, seduto sul trono (la sua sedia a rotelle?) con l’aiuto di tanti amici supera incantesimi e prove di coraggio, e il dolore alla fine è sconfitto. Metà dei proventi li ha dati all’associazione dei malati di LND, con l’altra metà un anno fa ha adottato a distanza Giulien, una bimba africana. Per la psicologa non c’è dubbio, non ha chiesto una sorellina ma una figlia, adottiva come lui. Il principe Michele è diventato adulto.
Avvenire