sabato 28 marzo 2015

Gesù, il crocifisso

15 03 28 donatello crocifisso

Riportiamo il contributo di fr. Enzo Bianchi al catalogo Donatello svelato. Capolavori a confronto - Padova, Museo Diocesano 27 marzo – 26 luglio 2015
Vorrei contemplare insieme con voi Gesù crocifisso, secondo le tre splendide interpretazioni fornite cinque secoli fa da Donatello, che ora abbiamo la straordinaria possibilità di ammirare simultaneamente, grazie alla Mostra assai opportunamente allestita presso il Museo diocesano di Padova. Queste opere di eccezionale bellezza, che hanno accompagnato la fede di innumerevoli cristiani nel corso degli ultimi cinquecento anni, accompagnano ancora la nostra fede, qui e oggi, perché il Crocifisso resta per il cristiano il luogo per eccellenza in cui egli può conoscere Dio. La croce è davvero la cattedra della sapienza di Dio (cf. 1Cor 1,18-25), è il luogo dove Dio è stato massimamente narrato da suo Figlio Gesù Cristo (cf. Gv 1,18: exeghésato).
Tutte le testimonianze scritte sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è morto in croce. Per le sante Scritture questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Dt 21,23; Gal 3,13), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini. Gesù, un galileo che aveva radunato attorno a sé una comunità di pochi uomini e alcune donne coinvolti nella sua vita itinerante, ritenuto maestro e profeta da questi discepoli e da un numero più ampio di simpatizzanti, è stato condannato e messo a morte mediante la crocifissione a Gerusalemme, il venerdì 7 aprile dell’anno 30. Questa fine fallimentare è subito apparsa uno scandalo, «lo scandalo della croce» (cf. 1Cor 1,23), un grave ostacolo per la fede in Gesù, specialmente quando si cominciò a confessarlo Messia di Israele e Figlio di Dio. Ecco perché, ancora all’inizio del II secolo d.C., il giudeo rabbi Trifone afferma nel dialogo con il cristiano Giustino: «Noi sappiamo che il Messia deve soffrire ed essere condotto come pecora (cf. Is 53,7); ma che egli debba essere crocifisso e morire in un modo così vergognoso e ignominioso, attraverso la morte maledetta dalla Legge, non possiamo neppure arrivare a concepirlo» (Giustino, Dialogo con Trifone 90,1).
Eppure per l’autentica fede cristiana è proprio il Crocifisso colui che ha raccontato Dio; anche sulla croce, anzi soprattutto sulla croce, Gesù «ha reso testimonianza alla verità» (cf. Gv 18,37), trasformando uno strumento di esecuzione capitale nel luogo della massima gloria. Ma com’è stato possibile che un uomo appeso a una croce diventasse colui sul quale i cristiani tengono fissi lo sguardo come Signore e Salvatore? Per rispondere a questo interrogativo occorre innanzitutto guardarsi dalla tentazione di leggere Gesù a partire dalla croce. Al contrario – come vedremo meglio tra breve – bisogna leggere anche la croce a partire dalla vita di chi vi è salito, l’uomo Gesù: questa morte è l’atto che ricapitola l’intera sua esistenza spesa nella libertà e per amore di Dio e degli uomini.
Per contemplare il Crocifisso è necessario meditare sulla paradossale «parola della croce» (1Cor 1,18), il mistero centrale della nostra fede. In verità, di fronte alla «parola della croce», debolezza di Dio, debolezza del cristiano, debolezza della chiesa, ma pienezza della vita perché «vita in abbondanza» (cf. Gv 10,10), «vita eterna» (cf. Gv 3,15-16.36; 4,14; ecc.), nessuno di noi è all’altezza di definirsi discepolo di Cristo. Se mai, potrà fare sue le parole di Ignazio di Antiochia: «Ora comincio a essere discepolo» (Ai Romani 5,3). D’altra parte, se questa nostra debolezza è assunta consapevolmente, in essa può manifestarsi «Cristo crocifisso, … potenza di Dio» (1Cor 1,23-24), secondo la parola rivolta dal Signore a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). E saranno proprio alcune riflessioni di Paolo nelle sue due lettere alla chiesa di Corinto a costituire la trama della mia meditazione.
1. «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso»
Nella Prima lettera ai Corinti, rivolgendosi a una chiesa che a pochi anni dalla sua fondazione appare attraversata da contese, ed è tentata dal culto delle personalità apostoliche (cf. 1Cor 1,12), ma soprattutto di avere ragioni per gloriarsi davanti a Dio (cf. 1Cor 1,27-29) e di fare della fede cristiana una religione capace di convincere quanti cercano miracoli, e un’ideologia per quanti cercano la sapienza, Paolo rinnova l’annuncio del Vangelo. A Corinto è infatti il cuore stesso del Vangelo a essere compromesso: la croce di Cristo rischia di essere svuotata (cf. 1Cor 1,17)! Di fronte a tale depauperamento, l’Apostolo pronuncia parole decisive, frutto di esperienze patite in prima persona: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2).
Alla sapienza mondana (sophía toû kósmou: 1Cor 1,20) insinuatasi nella comunità cristiana, cultura antropocentrica e autosufficiente (sophía anthrópon: 1Cor 2,5), Paolo oppone «la parola della croce» (1Cor 1,18), non un annuncio fondato su discorsi persuasivi o ragionamenti che hanno la loro forza nella sublimità della parola e della cultura. Nella chiesa di Corinto sono già in atto tentativi di trasformare il messaggio del Vangelo in speculazione culturale: ciò si traduce nel rifiuto del volto di Dio manifestatosi nel Figlio Gesù Cristo crocifisso, in un’interpretazione della resurrezione in termini trionfali, nel misconoscimento della debolezza quale cardine della vita cristiana. In reazione a tutto questo, l’Apostolo, che attraverso la sua vicenda personale e con la grazia del Signore ha approfondito la scientia crucis, legge sì la croce come follia perché evento inaudito, fallimento agli occhi del mondo, ma contemporaneamente la predica come «potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), cioè pienezza della vita, possibilità di giungere a quella vita piena che Dio aveva pensato per l’uomo all’atto di crearlo per mezzo e in vista del Figlio (cf. Col 1,16).
La morte di Cristo non è stata una morte qualsiasi, non è stata neppure rivestita dalla gloria del martirio, come quella del suo maestro Giovanni il Battista, ma è stata una morte vergognosa: «mortem autem crucis» (Fil 2,8). Ebbene, il carattere infamante di tale morte non può essere taciuto né rimosso: questo evento – personalizzato e quasi ipostatizzato nel termine «croce» – era e resta scandalo e follia! Non si dimentichi: al tempo di Gesù la croce era uno strumento di morte terribile, un patibolo turpissimo agli occhi dei romani, un supplizio che, agli occhi dei giudei, rendeva chi vi era appeso un maledetto da Dio e dagli uomini. Eppure Gesù ha trasformato la croce in luogo veramente glorioso, in luogo in cui egli ha amato gli uomini fino all’estremo, in luogo in cui è morto per noi, per donarci la salvezza (cf. 1Ts 5,9-10)!
Ma è necessario approfondire quest’ultima affermazione, troppo spesso ripetuta a vuoto, senza cioè comprenderla nel suo reale significato. Lo faccio prendendo a prestito un’acuta riflessione del teologo Giuseppe Colombo:
Nell’immaginario «cristiano» la croce sembra prevalere sul Crocifisso, dando libero sfogo alle tendenze ambigue insite nel subconscio dell’uomo … Non è la croce a fare grande Gesù Cristo; è Gesù Cristo che riscatta persino la croce, la quale è propriamente da comprendere, non retoricamente da esaltare (Sulla evangelizzazione, Milano 1997, p. 64).
In altre parole, la morte in croce di Gesù non è nient’altro che l’esito di un’esistenza vissuta nella libertà e per amore degli uomini. Per non dimenticare questo, basterebbe prestare attenzione a quanto la chiesa, facendo memoria della vita di Gesù, sente il bisogno di proclamare al cuore della preghiera eucaristica:
Egli, nell’ora in cui andava liberamente alla sua passione, prese il pane… (Preghiera eucaristica II).
Per attuare il tuo disegno di amore, [Padre Santo], si consegnò liberamente alla morte … Venuta l’ora d’essere glorificato da te, Padre Santo, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, e mentre cenava con loro, prese il pane… (Preghiera eucaristica IV)
Nella libertà e per amore: ecco come la follia della croce è diventata potenza di Dio e sapienza di Dio!
La potenza di Dio si è rivelata in Gesù crocifisso, uomo e Figlio di Dio, che è stato fatto peccato per noi (cf. 2Cor 5,21), che si è mostrato Messia perduto, annoverato tra i peccatori, agnello afono, vittima tra le vittime della storia. La croce è il patibolo impuro, chi vi sale è un anáthema, rigettato dalla comunità cui Dio si è legato in alleanza; chi vi muore, muore fuori dell’accampamento e della porta della città (cf. Eb 13,11-13), nel luogo sconsacrato in cui Dio è ritenuto assente. Davvero, la croce è l’anti-sacrificio per eccellenza, secondo le norme cultuali di Israele: è follia, stoltezza e scandalo! Ma solo chi conosce questa verità e assume fino in fondo questa follia, vedendo Gesù morire in croce, può confessare con il centurione: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39; cf. Mt 27,54).
Mi si conceda di riassumere la paradossale potenza della croce in questo modo: guai a chi deifica Gesù e lo chiama Dio senza conoscere la vita umanissima di Gesù, senza conoscere come egli è vissuto, facendo della vita un dono e amando gli altri fino all’estremo; nello stesso tempo, guai a chi non sa fare del sigillo ignominioso della croce, télos di questa vita, la cattedra del magistero cristiano! Ma quando della croce si misura la follia, allora essa appare potenza di Dio, allora è distrutta la sapienza dei saggi e l’intelligenza degli intellettuali (cf. 1Cor 1,19), allora si conosce veramente il mistero di Dio e si vede in Gesù «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).
Mistero paradossale: la croce di Cristo è realmente stoltezza e debolezza di Dio che urta quelli che richiedono manifestazioni di una sua presunta onnipotenza, o confidano su una raffinata sapienza religiosa. Ma è precisamente nella croce che Dio mostra la sua sapienza e la sua potenza, «perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor 1,25). È proprio nella croce che egli chiede che sia riconosciuto il suo agire folle di amore per l’umanità! Sì, è nello svuotamento della sua forma divina (cf. Fil 2,7) e nell’atto del con-discendere là dove sono gli uomini, che il Figlio di Dio ha svelato la grammatica della potenza di Dio. Gregorio di Nissa ha potuto scrivere in proposito:
La croce è teologa per coloro che hanno lo sguardo penetrante, e proclama con la sua forma l’autentica potenza di colui che appare su di essa ed è «tutto in tutti» (1Cor 15,28) (Primo discorso sulla resurrezione di Cristo).
E Lutero fa eco:
Non è sufficiente conoscere Dio nella sua gloria e maestà, ma è anche necessario conoscerlo nell’umiliazione e nell’infamia della croce … In Cristo, nel Crocifisso, stanno la vera teologia e la vera conoscenza di Dio (La disputa di Heidelberg, Tesi 20).
Una volta compresa, o almeno intuita, questa indicibile realtà, spetta al cristiano e alla chiesa nel suo insieme vivere in modo che questa follia e debolezza di «Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,2) si riverberi nella vita dei suoi discepoli: qui e qui soltanto sta la verità della sequela Christi.
2. «Sono stato crocifisso con Cristo»
Nella Seconda lettera ai Corinti Paolo si dedica ampiamente a descrivere la stoltezza della croce e la debolezza, quali si rivelano nella sua vita e nel suo ministero, con affermazioni che non possono non riguardare la vita di ogni cristiano. In questo testo l’Apostolo si propone certamente di difendere il suo ministero di fronte ad avversari provenienti sia dal giudaismo, sia dall’interno della stessa comunità di Corinto; più di ogni altra cosa, però, ciò che gli sta a cuore è la salvaguardia dell’integrità del Vangelo, al cui servizio egli si è totalmente dedicato. Per questo egli afferma innanzitutto la potenza del proprio ministero apostolico (cf. 2Cor 2,14-4,6), ma nel contempo ne sottolinea la debolezza (cf. 2Cor 4,7-5,10). In tal modo, come già a proposito della potente stoltezza della croce, siamo posti di fronte al carattere di paradosso del ministero apostolico e, più in profondità, dell’intera vita cristiana.
Dopo aver affermato la centralità normante della Parola di Dio, del Vangelo e della predicazione su Gesù Cristo, Paolo delinea i criteri non mondani che ispirano il suo servizio all’interno della chiesa (cf. 2Cor 4,2-6): rifiutare le doppiezze, i raggiri, la falsificazione della verità, l’operare ipocritamente, l’agire diversamente da come si predica, il piegare ai propri fini, anche religiosi ed ecclesiali, il Vangelo. L’Apostolo non predica se stesso, non manipola la Parola di Dio rendendola ideologia umana, non cerca il successo servendosi del proprio posto nella chiesa, né aspira ad ottenere facili consensi. Al contrario, il suo ministero è efficacemente sintetizzato in due compiti ben precisi: predicare Gesù quale Messia e Signore e, conseguentemente, servire i propri fratelli (cf. Mt 20,25-28 e par.; Gv 13,12-15). A questo ministero solo Dio può rendere idoneo un credente (cf. 2Cor 3,5) perché è il servizio della Nuova Alleanza, servizio condotto nello Spirito che vivifica (cf. 2Cor 3,6), diakonía ben più gloriosa di quella svolta da Mosè (cf. 2Cor 3,7-8).
Sì, il ministero è potenza di Dio, potenza che si mostra in primo luogo nella misericordia usata verso la debolezza di chi è incaricato di tale servizio. Ma ecco, puntuale, il riverbero della stoltezza della croce: «Noi abbiamo questo tesoro in vasi di argilla, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2Cor 4,7). Il contrasto tra l’argilla e il tesoro non va inteso nel senso di un’antropologia dualista, ma serve solo a definire la paradossale grandezza della vita cristiana. Il tesoro del Vangelo, il tesoro della Nuova Alleanza o, meglio ancora, il mistero pasquale della morte e resurrezione di Gesù (cf. 2Cor 4,10) è infatti affidato all’uomo, creatura debole e fragile: nella nostra carne mortale siamo chiamati a manifestare la vita di Gesù, vita piena e autentica, vita divina! Paolo sembra testimoniare questa inenarrabile verità quando confessa: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me … Io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Gal 2,19-20; 6,17).
Ma in vari altri passi il Nuovo Testamento ama evocare il «Vangelo di Gesù Cristo» (Mc 1,1; cf. Rm 16,25; 2Ts 1,8) il «mistero del regno di Dio» consegnato da Gesù ai credenti (Mc 4,11), con le espressioni «perla preziosa» (Mt 13,46), «tesoro nel campo» (Mt 13,44), e si compiace di definire la fede «molto più preziosa dell’oro» (1Pt 1,7), poiché «in Cristo sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3). È questo il tesoro che il cristiano porta nel suo vaso d’argilla! E il cristiano maturo è proprio colui che ha la consapevolezza, da un lato, del tesoro affidatogli e, dall’altro, della propria debolezza (linguaggio paolino); è colui che ha la consapevolezza di essere straniero e pellegrino sulla terra, ma nel contempo è abitato dalla speranza della vita eterna (linguaggio petrino: cf. 1Pt 2,11 e 1Pt 3,15).
Occorre peraltro comprendere bene il significato di questa debolezza. Certo, se l’uomo è anche solo minimamente attento alla trama della propria quotidianità, l’esperienza è impietosa nel mostrargli la propria natura debole e fragile, la costante tentazione di cadere nella schiavitù del peccato, cioè di quanto si oppone alla vita piena e alla comunione fraterna. È ciò che viene espresso lapidariamente da Paolo: «Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,19). Si faccia però attenzione a non intendere questa debolezza quale sinonimo di bassa qualità umana, sovente mascherata sotto le spoglie della virtù religiosa. Dietrich Bonhoeffer mette in guardia da tutto ciò:
Le persone religiose parlano di Dio quando la conoscenza umana … è arrivata alla fine o quando le forze umane vengono a mancare – e in effetti quello che chiamano in campo è sempre il deus ex machina, come soluzione fittizia a problemi insolubili, oppure come forza davanti al fallimento umano; sempre dunque sfruttando la debolezza umana o di fronte ai limiti umani … Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo … Gesù non ha mai messo in questione la salute, la forza, la felicità di un uomo in quanto tali, né li ha considerati dei frutti bacati: perché altrimenti avrebbe risanato i malati, ridato forza ai deboli? Gesù rivendica per sé e per il regno di Dio la vita umana tutta intera e in tutte le sue manifestazioni (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo 1988, pp. 350-351.417).
In altri termini, il cristiano è chiamato a vivere una vita piena, una vita bella, buona e beata come quella di Gesù Cristo, e a fare questo senza confidare in se stesso con folle e arrogante autosufficienza – salvo poi ritornare a Dio nel momento dell’angoscia e del bisogno! –, ma solo nella grazia e nell’amore sempre preveniente di Dio. Si tratta in definitiva di fare obbedienza a una precisa parola di Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23; cf. Mt 16,24; Mc 8,34). Non occorre cercare, invano, di scegliere una «croce» per sé: è la vita stessa a fornire, volta per volta, quella peculiare a ciascuno di noi. Sono i limiti insiti nella propria storia familiare, nel proprio corpo, nella propria psiche, sono le contraddizioni immancabili nei rapporti umani, fino all’estenuante e decisiva lotta che ci attende: fare dell’enigma della morte un mistero che, illuminato dal Crocifisso, riveli il senso del senso, la chiamata dell’uomo alla resurrezione e alla vita eterna.
Verranno sicuramente giorni in cui sentiremo come una contraddizione questa debolezza, e potremo anche chiedere a Dio di togliercela, ma egli risponderà anche a noi, come a Paolo: «Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Ecco, la debolezza scelta da Dio per rivelare e attuare la salvezza (cf. 1Cor 1,27) è lo strumento privilegiato da Dio stesso per manifestare la sua azione nel cristiano. Essa va colta dal credente alla luce del dono preveniente («Se tu conoscessi il dono di Dio…»: Gv 4,10) e nella consapevolezza del tesoro che in essa è racchiuso. Solo così può essere letta e accolta come debolezza «beata», «gradita», come afferma con audacia Bernardo di Clairvaux:
O beata debolezza(optanda infirmitas), colmata dalla potenza di Cristo … L’ignominia della croce è gradita a chi non è ingrato verso il Crocifisso (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7.8).
Sì, la croce è scandalo e follia, ma al cristiano è chiesto solo di non contraddirla, bensì di accettare che, attraverso di essa, la potenza di Dio, la potenza del Crocifisso risorto operi nella sua vita!
Conclusione
Proprio la croce, il simbolo più terribile e umiliante conosciuto all’interno della società romana, accogliendo su di sé Gesù Cristo è divenuto il punto culminante della storia di salvezza di Dio con l’umanità, l’evento in cui avviene la rivelazione definitiva del volto di Dio: davvero la croce è teologa! La croce è il segno della responsabilità illimitata di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice. Nel Figlio Gesù Cristo, giusto e innocente, è Dio stesso che sulla croce assume le conseguenze dei peccati commessi dall’umanità e si sottomette alla pena riservata ai peccatori. Questa gratuità fino all’estremo, questa «follia» (1Cor 1,18.23.25) che si può spiegare solo con un eccesso d’amore diventa allora ciò che fa intravedere nella croce il senso radicale dell’esistenza umana del credente come esistenza responsabile.
Il Crocifisso ci rimanda all’amore per l’altro fino al dono della vita: la croce è il compimento dell’amore di Cristo per i suoi discepoli e per l’umanità tutta (cf. Gv 13,1); la croce è il compimento dell’obbedienza del Figlio al Padre (cf. Mc 14,35-36); la croce è il compimento della libertà di Cristo che depone da se stesso la propria vita (cf. Gv 10,17-18). Sì, la croce è compimento più che fine: è il compimento di un’esistenza vissuta nell’amore, nell’obbedienza e nella libertà, di una vita di fede come vita responsabile, di fronte a Dio e di fronte agli uomini.
Ebbene, sulla croce Gesù è stato l’uomo che si è caricato delle sofferenze dei fratelli, l’uomo che non si è difeso rispondendo con violenza alla violenza che gli veniva inflitta, ma ha speso la vita per gli altri, offrendo se stesso «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8). Proprio in questa morte che agli occhi del mondo è una sconfitta consiste la vittoria dell’amore di Gesù, il Servo del Signore crocifisso, «vincitore perché vittima» (Agostino, Confessioni 10,43).
E come Gesù ha narrato Dio, vivendo e predicando l’amore fino ai nemici, così i cristiani sono chiamati a rinnovare questo racconto tra gli uomini. Certo, questo è possibile solo per grazia, solo perché lo Spirito è stato effuso nel cuore del cristiano (cf. Rm 5,5; Tt 3,5-6); solo perché il cristiano può gemere gridando: «Abba, Padre!» (cf. Rm 8,15; Gal 4,6); solo perché nel cristiano non vive più l’io segnato dall’egoistica philautía e dall’odio verso gli altri, ma vive Cristo (cf. Gal 2,20). È lui, il Cristo crocifisso e risorto, il Signore vivente, che nel cristiano vive, ama, perdona, prega, intercede. Questo è follia per il mondo, ma è il linguaggio del Crocifisso: chi lo contempla non può non vedere i segni di questo amore, che spinge al dono totale di sé. Scrive Guglielmo di Saint-Thierry:

Ci poniamo davanti una rappresentazione della Tua passione
affinché i nostri occhi di carne abbiano qualcosa a cui aderire.
Essi però non adorano una immagine
perché l'immagine rinvia alla realtà della Tua passione.
Quando infatti guardiamo più attentamente l'immagine della Tua passione,
nel silenzio ci sembra di udire la Tua voce che dice:
Ecco come vi ho amati, vi ho amati fino alla fine.

(Meditativae orationes 10,7)
I Crocifissi di Donatello, che possiamo contemplare in questa mostra con un unico sguardo, narrano certamente un Cristo sofferente, con il capo reclinato in un dolore umanissimo... La bocca però è aperta ed emette lo Spirito. “Tutto è compiuto!” sono le ultime parole del Crocifisso nel vangelo secondo Giovanni. E l’evangelista prosegue: "Chinato il capo, effuse lo Spirito". Marco, Matteo e Luca dicono “chinato il capo, morì, spirò”; Giovanni invece precisa "consegnò, effuse lo Spirito". Quello Spirito che lo abitava, lo Spirito santo, che aveva presieduto al suo concepimento nel seno della Vergine Maria, che era disceso su di lui al momento del Battesimo… Gesù con la sua morte lo effonde su tutto l’universo, su tutta la terra. La Pentecoste per Giovanni è sotto la Croce!
Stare sotto la croce di Donatello è ricordare che sotto la Croce c’eravamo anche noi e che lo Spirito che Gesù ha emesso dalla sua bocca è lo Spirito santo che perdona i peccati di tutti gli uomini ("ipse remissio omnium peccatorum", recita un testo liturgico). Quello stesso Spirito nella cui potenza Dio ha risuscitato Gesù, ravviva tutta la Chiesa e tutta l’umanità.