sabato 28 marzo 2015

Non è l’imperatore

Alle radici della scena dell’ingresso trionfale in Gerusalemme.


(Fabrizio Bisconti) «La folla lo seguiva, anche per la fama, che egli aveva provocato con la resurrezione di Lazzaro». Questa è l’euforia che Giovanni rievoca, raccontando l’ingresso di Gesù a Gerusalemme (12, 12-19), descritto al dettaglio da Matteo (21, 1-11): «Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: “Andate nel villaggio che vi sta di fronte: subito troverete un’asina legata e con essa un puledro. Scioglieteli e conduceteli a me. Se qualcuno poi vi dirà qualche cosa, risponderete: 
Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà subito”. Ora questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: dite alla figlia di Sion: ecco, il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla numerosissima stese i suoi mantelli sulla strada mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla via. La folla che andava innanzi e quella che veniva dietro, gridava: Osanna al figlio di Davide!».
Il racconto di Matteo, ripreso più sinteticamente da Marco (11, 1-11) e da Luca (19, 28-38), ebbe grande fortuna nella letteratura, ma soprattutto nell’arte, tanto è vero che quando si pensa a questo festoso episodio, il pensiero corre al suggestivo affresco di Giotto nella cappella padovana degli Scrovegni, ma subito dopo viene in mente il sontuoso quadro dipinto da Pietro Lorenzetti tra il 1310 e il 1319 nella basilica inferiore di San Francesco d’Assisi e, segnatamente, nel transetto sinistro della basilica, nell’ambito delle storie della Passione di Cristo.
L’affresco recupera l’iconografia tradizionale della scena, che, come vedremo, affonda le sue radici nell’arte paleocristiana. Ma il capolavoro assisiate — che sembra proporre una sorta di tridimensionalità, intrecciando due punti di fuga, l’uno che ha come vertice il Cristo, che avanza, da sinistra, seguito dagli apostoli, l’altro costituito dalla porta urbica di Gerusalemme da cui esce tutta la popolazione — è ricco di dettagli e preziosità, che definiscono il modello di Giotto e anticipano certi minuziosi accorgimenti che Ambrogio Lorenzetti inventerà per gli Effetti del Buon Governo, realizzato tra il 1338 e il 1339 nel Palazzo Pubblico di Siena.
Ma lasciamo la civiltà figurativa del medioevo per cercare le radici della scena dell’ingresso trionfale di Cristo in Gerusalemme.
La ricerca ci fa rimontare all’età costantiniana e alla produzione di alcuni sarcofagi concepiti da un atelier romano, che mostra nei fregi continui delle fronti scolpite, il Cristo rappresentato come un fanciullo vestito di tunica e pallio, il quale incede verso destra sul dorso dell’asina, cavalcando all’amazzone e facendo il gesto della parola. Lo schema ripropone quello adottato nell’arte classica per l’aulico adventus imperiale, proprio con l’intento di mettere a confronto il solenne e trionfale arrivo dell’imperatore stante sul carro con il festoso ingresso del mite Christus rex, che cavalca un’asina e mostra la fisionomia di un innocuo bambino, sospeso nel tempo e nello spazio, infondendo alla scena quel significato epocale che vuole anticipare quella passio Christi, vera e propria felix culpa, paradossale richiamo al peccato dell’origine, che preparerà la morte e la resurrezione del figlio dell’uomo.
Nei sarcofagi del IV secolo, il Cristo fanciullo, in sella all’asina, che, spesso ha tra le zampe quel puledrino, a cui allude Matteo, è attorniato dagli apostoli e da un ragazzo che stende il mantello. Tra la folla emerge un giovane arrampicato su una pianta, da riconoscere come il piccolo pubblicano ebreo Zaccheo, salito sul sicomoro per vedere Gesù a Gerico, nell’episodio, narrato da Luca (19, 1-6) e accaduto subito prima dell’ingresso a Gerusalemme. Questa assimilazione, molto cara anche ai produttori di sarcofagi provenzali, nell’ultimo scorcio del secolo IV, torna nel sarcofago del prefectus Urbi Giunio Basso, riferibile al 359, giustamente considerato il gioiello dell’arte paleocristiana e ora conservato nel Museo del Tesoro della Basilica di San Pietro in Vaticano.
Il tema spunta anche nella produzione pittorica paleocristiana, come in un affresco della catacomba siracusana di Vigna Cassia, ancora del secolo IV, e nell’ipogeo di Santa Maria in Stelle, nell’hinterland veronese, già nel secolo V. Una certa fortuna dell’episodio si riscontra anche nelle arti minori e segnatamente in alcuni dittici eburnei del V secolo e in una formella della cattedra ravennate di Massimiano, da riferire all’età giustinianea. In età bizantina il trionfo del Cristo che entra a Gerusalemme si diffonde capillarmente nei codici miniati. Fu forse per il tramite di queste bibbie miniate che il festoso ingresso di Cristo in Gerusalemme fu traghettato nei programmi decorativi dei più prestigiosi edifici di culto del medioevo, con l’intento di ricordare il trionfante adventus del Cristo fanciullo, giovane, puro, senza macchia, come un piccolo agnello pronto al sacrificio.


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La domenica delle Palme secondo Severo di Antiochia. Siede sull’asinello riposa sui santi 


(Manuel Nin) Il 31 marzo 513, domenica delle Palme, Severo, patriarca di Antiochia, nell’omelia spiegò la celebrazione innanzi tutto in continuità con la liturgia del giorno precedente, quando era stato letto il brano evangelico della risurrezione di Lazzaro: «Dopo essere sceso fino a Betania, il Signore risuscitò Lazzaro, che era stato messo nella tomba da quattro giorni, spezzando la forza della morte che doveva uccidere completamente quando discese lui stesso negli inferi per liberare le anime ivi rinchiuse».
Secondo la spiegazione del patriarca antiocheno, l’ingresso a Gerusalemme manifesta la divinità di Cristo: «E Gesù, che sapeva quello che doveva capitare, cioè che i bambini e la folla gli sarebbero andati incontro, fece in modo che fosse un ingresso degno di Dio e allo stesso tempo simbolico, poiché diventava per noi prefigurazione della sua seconda venuta nella gloria». 
Nell’omelia vi è una lettura cristologica ed ecclesiologica del puledro d’asina su cui Cristo siede. L’asino raffigura le nazioni pagane chiamate alla fede e riceve su di sé i mantelli (e cioè le dottrine) degli apostoli, e su questi Gesù siede: «Quando i credenti si sono rivestiti delle virtù apostoliche come di vestiti, allora la grazia di Gesù, o piuttosto Gesù stesso si è seduto su di loro, in loro ha abitato e su essi ha riposato, come siede sui cherubini lui che è santo e riposa sui santi».
Quindi il vescovo si sofferma a commentare il significato dei rami di ulivo tagliati dalla folla esultante: «La pianta dell’ulivo indica la riconciliazione che viene da Dio e la sua carità verso di noi, elargita non a causa della nostra giustizia bensì per la sua misericordia. Allo stesso modo una colomba con un ramo di ulivo nel becco indicò la fine del diluvio nei giorni di Noè».
Il predicatore commenta poi l’aggiunta del vangelo di Giovanni («Quando udirono che Gesù arrivava a Gerusalemme, presero rami di palma e uscirono al suo incontro»), e anche in questa rintraccia un simbolo: «La palma ci fa vedere che veniva dal cielo colui che era osannato. È un albero infatti la cui parte superiore ha dei rami abbondanti e bianchi, mentre nella sua parte media e inferiore è rude e spinoso, slanciandosi sempre in alto. Così anche colui che si avvia alla conoscenza di Cristo troverà un cammino rude e difficile, ma quando arriverà all’altezza, per quanto è possibile agli uomini, troverà la luce della teologia e la rivelazione di cose ineffabili, come i rami di palma che sono bianchi. Per questo ancora la sposa del Cantico dei cantici, che è la Chiesa di coloro che hanno creduto in Cristo, dice: Salirò sulla palma, afferrerò i rami più alti».
Verso la conclusione dell’omelia Severo commenta il brano del vangelo di Matteo dell’espulsione dei trafficanti dal tempio, episodio che mette in evidenza l’unità dei due testamenti, antico e nuovo. E dà poi una lettura cristologica della citazione che i vangeli fanno del salmo «Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! Con la bocca di bambini e di lattanti hai posto una difesa contro i tuoi avversari»: la lode dei bambini all’ingresso di Gesù a Gerusalemme è infatti una professione di fede in colui che essendo grande ed eccelso si è umiliato e si è fatto piccolo.

L'Osservatore Romano