martedì 23 giugno 2015

L’invenzione della libertà di coscienza



Quarant’anni dopo l’Atto finale di Helsinki la pace attraverso il dialogo.

Il convegno. «Quarant’anni di Helsinki. La pace attraverso il dialogo» è il tema del convegno che si è tenuto martedì 23 giugno nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, a Roma. All’incontro è intervenuto il cardinale Segretario di Stato che ha tenuto un intervento, del quale riportiamo alcuni stralci, su «Santa Sede e Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa: quarant’anni dopo l’Atto finale di Helsinki». Erano presenti, tra gli altri, il presidente del Senato Pietro Grasso e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni.
(Pietro Parolin) La partecipazione della Santa Sede alla Conferenza di Helsinki venne da una scelta, non da un processo naturale. Esistevano opinioni differenti. Il cardinale Jean-Marie Villot, segretario di Stato, avrebbe voluto declinare l’invito, poiché riteneva che essa fosse troppo marcatamente politica e rischiasse di esporre la Santa Sede in un’arena di dibattiti strategici.
Il Papa Paolo VI, all’unisono con monsignor Casaroli, era invece favorevole e decise per il sì. «La Conferenza — argomentò il Papa — può essere politica, ma si pone essenzialmente sul piano giuridico e dei principi, sul quale anche la Santa Sede è competente a titolo speciale. E quando il diritto è riconosciuto, anche se poi non è osservato, il diritto ha forza in sé». Il passo era tanto innovativo quanto rilevante. Era dal Congresso di Vienna del 1815 che la Santa Sede non partecipava come membro a pieno titolo a un Congresso di Stati.

L’articolo 24 del Trattato del Laterano del 1929 impegnava la Santa Sede a rimanere «estranea alle competizioni temporali tra gli altri Stati e ai congressi internazionali indetti per tale oggetto». Pertanto la sua partecipazione si avviò sotto riserva, volendo agire nel rispetto dei patti ed evitare polemiche sempre possibili. La diplomazia vaticana intervenne nel processo di Helsinki soprattutto in ordine ai diritti umani e alle libertà fondamentali, astenendosi dai temi della sicurezza strategica e della politica di potenza, in osservanza del Trattato lateranense.
Vari motivi spinsero Paolo VI all’adesione alla Conferenza paneuropea. Papa Montini possedeva una lunga pratica diplomatica ed era attento al ruolo della Santa Sede nelle relazioni internazionali, soprattutto al fine di promuovere la pace nel mondo.
L’invito alla conferenza era un riconoscimento del peso della Santa Sede nel concerto delle nazioni. Anni di politica orientale vaticana, altrimenti detta Ostpolitik, avevano imposto la Santa Sede come interlocutore rispettabile innanzi ai regimi comunisti e questo aveva generato il loro invito alla Conferenza. A Paolo VI, edotto delle intenzioni dei sovietici di convocarla, non sembrava opportuno tirarsi indietro allorché si poteva capitalizzare sulla scena internazionale il credito accumulato nel faticoso ed estenuante dialogo con l’Est.
Monsignor Casaroli così interpretava l’invito alla Santa Sede affinché partecipasse alla Conferenza: «Il passo, per quanto spiegabile formalmente con il fatto che la Città del Vaticano entra nel novero degli Stati europei (...) non poteva non apparire singolarmente eloquente, provenendo dai Paesi di quel Patto di Varsavia e non nascondendosi, da loro parte, che l’interesse a una positiva risposta riposava non tanto sul vantaggio di avere un consenso in più, adatto a “far numero”, quanto sul prestigio della Santa Sede, quale potere morale, in Europa e fuori d’Europa, e quindi sull’importanza di una sua favorevole presa di posizione». L’invito investiva, secondo Casaroli, la Santa Sede in quanto entità rappresentativa della Chiesa Cattolica, anche se formalmente era stato rivolto allo Stato della Città del Vaticano. In effetti, nei lavori di Helsinki, le varie delegazioni degli Stati si sarebbero sempre rivolte alla delegazione pontificia come Santa Sede e non come Stato del Vaticano.
Al di là del buon senso politico, importanti motivi ideali spingevano alla partecipazione. La Santa Sede vedeva l’Europa come un’unità, senza cortine di ferro a separare le genti dell’Ovest e dell’Est. La Conferenza si presentava come un’assise per la possibile ricomposizione dell’unità europea lacerata a Yalta, unità che, per di più, era principalmente fondata sulle sue radici cristiane, che avevano prodotto una comune cultura.
Inoltre, se la Conferenza era intesa a svolgere in primo luogo i temi della pace, della sicurezza e della cooperazione tra Stati e tra popoli, non erano precisamente i temi su cui la diplomazia vaticana era intenta a lavorare? La presenza della Santa Sede avrebbe dato al concetto della pace un fondamento morale e non solo politico. E la libertà religiosa andava posta come caposaldo ideale della pace, in quanto, da una coscienza umana aperta alla dimensione della Trascendenza sarebbero scaturite le altre libertà e i diritti umani su cui l’autentica pace si fondava.
Agli inizi del processo di Helsinki pochi vedevano la rilevanza di una discussione impegnativa sui diritti umani, mentre la stabilizzazione di un clima distensivo, la sicurezza degli Stati e la conferma degli assetti del 1945 sembravano al centro della Conferenza in fieri. Alla Santa Sede invece non sfuggiva come una distensione politica autentica fosse connessa alla libertà e ai diritti umani.
Se per i sovietici significava il congelamento dello status quo uscito dalla seconda guerra mondiale, per gli occidentali si trattava soprattutto di una dinamica evolutiva, volta a risolvere attriti e crisi nei termini del dialogo e della diplomazia, non della forza. La posizione della Santa Sede si avvicinava a quella occidentale.
Era il valore della pace a far propendere la Santa Sede alla partecipazione. Come osservò monsignor Casaroli, essa era stata «il frutto di una scelta meditata preceduta da una riflessione non priva di qualche dubbio ed esitazione», trattandosi di un’assise di Stati «chiaramente politica. Non sarebbe stato meglio seguire, incoraggiare, orientare — eventualmente — con una buona parola? La scelta dipese dal concetto che la Santa Sede ha della pace come valore morale, oltreché politico».
Singolare è la vicenda storica della Conferenza di Helsinki. Era stato il blocco dell’Est a volerla per cristallizzare con unanimi consensi le frontiere dell’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale. Mai Mosca aveva comandato su tanta parte dell’Europa centrale e desiderava dunque che la sua notevole espansione fosse digerita dall’insieme degli Stati europei. Pertanto essa offriva pace, distensione e collaborazione in svariati campi, in cambio del riconoscimento dei confini del 1945 che, nel sistema dei blocchi allora in auge, rappresentava una sorta di morsa su mezza Europa.
La prima risposta occidentale consistette in un allargamento delle tematiche: non solo la stabilizzazione definitiva delle frontiere, ma anche la cooperazione intereuropea in campo economico, scientifico, ambientale, umanitario. In questa fase preliminare la Santa Sede ebbe un ruolo determinante nell’affermazione del principio della libertà religiosa e quindi delle libertà fondamentali e dei diritti umani nei loro vari aspetti.
Nessuno aveva pensato alla libertà religiosa, alla sua cruciale rilevanza nella vita di popoli dell’Est europeo, la cui identità profonda era plasmata dalla dimensione religiosa, malgrado la temporanea vernice del comunismo ateo. In Vaticano si era ben consapevoli della millenaria influenza che il cristianesimo aveva avuto nel formare le rispettive identità nazionali di essi.
Pochi a Helsinki, il 1° agosto 1975, colsero pienamente il significato delle parole del VII principio dell’Atto finale, che sottolineavano, facendone un programma da osservare da parte degli Stati firmatari, «la libertà dell’individuo di professare e praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo, agendo secondo i dettami della propria coscienza».
Nella fase preparatoria non era stato pensato un nesso vincolante tra le questioni di sicurezza e quelle della libertà. Ad eccezione della Santa Sede, i partecipanti ai lavori erano concentrati sui temi strategici, politici ed economici.
Monsignor Achille Silvestrini si rese conto di aver proposto qualcosa di nuovo: «Ricordo l’emozione con cui il 7 marzo 1973 presentammo, nell’ambito dei principi che dovevano reggere i rapporti fra gli Stati, una proposta sulla libertà religiosa, ricordando che nella storia d’Europa esisteva una comune cultura, quella cristiana. L’ambasciatore della Svezia, che mi era accanto, esclamò sorpreso “questa è una bomba”, l’ambasciatore Böck della Germania orientale chiese se la libertà di coscienza era proposta per tutti, anche per gli atei».
Monsignor Casaroli insisteva sulla giustizia e sui valori morali atti a salvaguardare la sicurezza collettiva e la pace, al di là delle misure puramente politiche e militari: «Il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», tra cui «in particolare la libertà di religione» erano quanto, «pur nella diversità dei sistemi» creava una «profonda base comune».
I Paesi dell’Est, accettando le richieste sui diritti umani, non immaginavano il potenziale eversivo per i loro assetti interni degli impegni sottoscritti, anche se ne percepivano l’alterità ai loro sistemi.
Oggi l’Osce viene spesso criticata per la mancanza di efficienza e la lentezza nell’assumere decisioni, ma non dobbiamo dimenticare che la scelta per il dialogo costante che si conclude con accordi accettati da tutti, non è stata una via facile, ma lunga e faticosa e che i processi avviati, riunendo tutti allo stesso tavolo, favoriscono la costruzione di una pace duratura.
Il beato Paolo VI ha definito la Chiesa «esperta di umanità» disponendo essa di «una visione globale dell’uomo e dell’umanità» posta al servizio del bene comune. Superando la Chiesa per sua natura i confini nazionali e abbracciando le nazioni, essa può chiamarsi a buon titolo anche «esperta di dialogo».
Con il concilio Vaticano II la Chiesa Cattolica ha rafforzato il dialogo con il mondo contemporaneo, con le confessioni cristiane e con le altre religioni, convinta che è uno strumento significativo per compiere la sua missione. La Santa Sede ha dimostrato durante le trattative in vista dell’Atto finale di Helsinki e successive alla sua firma, di essere esperta di dialogo. Da 40 anni essa partecipa ai lavori dell’Osce, impegnandosi a mediare nei conflitti.
La promozione del dialogo è la raison d’être della Santa Sede quale membro e non come semplice osservatore all’Osce. I “dieci principi” che aprono il documento finale promuovono la proficua cooperazione tra le nazioni, che nasce dalla fiducia reciproca. In questa prospettiva, il dialogo non è mai uno spreco di tempo, ma una valida misura di sicurezza. L’esperienza del crollo dei blocchi che hanno diviso il nostro continente deve spingere gli Stati partecipanti all’Osce a rafforzare il dialogo per superare le tensioni che rischiano di esplodere in violenza e aggressività.
Se il dialogo è lo strumento per raggiungere la pace, la tutela dei diritti umani è la garanzia per conservarla. L’unico di tali diritti fondamentali espressamente menzionato nell’Atto finale di Helsinki è quello alla libertà religiosa. Tale diritto riconosce la dimensione trascendente dell’essere umano, garantisce la sua dignità inviolabile e assicura ai credenti la possibilità di vivere la loro fede.
La diplomazia della Santa Sede considera la promozione della libertà religiosa una priorità dei suoi impegni internazionali. Tale diritto fondamentale non è minacciato solo in Paesi totalitari ma anche in Stati che, pur definendosi “neutri”, escludono di fatto qualsiasi espressione religiosa dalla vita pubblica.
La Santa Sede non cessa di ricordare alla comunità internazionale la necessità di combattere l’intolleranza e la discriminazione contro i cristiani con la stessa determinazione con cui lotta contro l’odio nei confronti di membri di altre comunità religiose. Gli Stati partecipanti all’Osce si sono impegnati a farlo e la missione dell’Osce per la tutela della libertà religiosa e la lotta alla discriminazione dei cristiani è di grande attualità. Accanto a esperti per l’antisemitismo e l’islamofobia esiste un rappresentante della Presidenza dell’Osce che segue il tema della discriminazione dei cristiani.
La Santa Sede partecipa ai lavori dell’Osce per promuovere il diritto alla libertà religiosa e i diritti umani alla base della pace e della stabilità in Europa. La visione dell’uomo come essere che trascende la pura materialità rafforza l’impegno contro le nuove minacce alla sua dignità. Penso, in modo particolare, ai diritti fondamentali dei migranti, il cui status di “stranieri” non cancella la loro identità come “membri della stessa famiglia umana”.
Anche in quest’ambito, l’Osce ha assunto decisioni che rimangono valide e attuali. Mi riferisco al diritto di riunificare le famiglie dei migranti, che gli Stati partecipanti all’Osce si sono impegnati a facilitare nell’Atto finale di Helsinki, nel Documento di Madrid del 1983 e nel Documento finale di Vienna del 1989.
La commemorazione dei 40 anni dell’Atto finale di Helsinki diventa oggi l’occasione per un appello a tutelare la nostra casa comune e ad agire perché non prevalga quella «cultura dello scarto» che misura il valore dell’essere umano solo secondo le categorie economiche.
Dove viene promossa la libertà religiosa, difendendo una dimensione dell’essere umano che supera quella materiale e immanente, si tutela il bene comune di tutti i cittadini, credenti o non-credenti e si pongono le premesse per un’azione inclusiva, che non trascuri i poveri, gli ultimi, le minoranze, le periferie e in genere tutti coloro che necessitano di uno speciale accompagnamento, poiché dispongono di una voce troppo flebile per far valere, da soli, i loro diritti.
San Giovanni Paolo II, in occasione del già citato viaggio apostolico in Finlandia nel 1989, rivolgendosi all’Associazione Paasikivi, disse: «Nel nobile compito di portare a termine il processo di Helsinki la Chiesa cattolica non mancherà di essere accanto a voi, al vostro fianco, in quel modo discreto che caratterizza la sua missione religiosa. Essa è infatti convinta della validità dell’ideale incarnato qui quattordici anni fa in un documento che per milioni di Europei è più di un documento finale: è un atto di speranza».
La commemorazione del grande evento di 40 anni fa sia per noi e per tutti gli uomini di buona volontà un’occasione per ravvivare questa speranza e continuare a costruire la nostra casa comune.
L'Osservatore Romano