venerdì 24 luglio 2015

Dare un volto all’amore.




di Michael Lonsdale
La fede semplice di un celebre attore. Michael Lonsdale, volto noto del grande schermo, confida la sua storia cristiana nel suo nuovo libro Dare un volto all’amore. Confessioni di un attore(Editrice Missionaria Italiana, pagine 80, euro 9), in questi giorni in libreria. Lonsdale, conosciuto al grande pubblico per le decine di film girati in carriera (Il nome della rosa, Quel che resta del giorno, Munich, Uomini di Dio, Il villaggio di cartone), racconta perché ha deciso di diventare cristiano da adulto, a 22 anni, e quanto la fede ha arricchito la sua vita di artista e attore. Nato in Marocco, cresciuto in un contesto islamico, Lonsdale si avvicina all’arte nella Parigi degli anni ’50 quando decide anche di farsi battezzare. L’amicizia con alcuni padri domenicani e la frequentazione di alcuni grandi teologi – Yves Congar, Marie-Dominique Chenu, Maurice Zundel – forgiano l’animo di questo artista credente che interpreta con passione la propria vocazione. Dal volume anticipiamo un brano in cui Lonsdale racconta il suo rapporto col cinema e col teatro e uno stralcio della prefazione di Dario E. Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione del Vaticano.
Fin dal mio debutto la fede non è stata lontano dal mio lavoro di artista. Fu padre Ambroise-Marie Carre – a quel tempo cappellano degli artisti – che mi incoraggiò a seguire i corsi di Tania Balachova. Si trattava di una docente notevole, per suo tramite ho conosciuto Jean-Louis Trintignant, Laurent Terzieff, Delphine Seyrig, Bernard Fresson… Lei ha rotto la patina di timidezza che mi imprigionava: io preferivo ruoli divertenti o leggeri, lei mi ha costretto un giorno ad arrabbiarmi. Dovevo interpretare il personaggio di Alceste nella prima scena del Misantropo di Molière. Lei voleva che io esplodessi. Ho cercato di esprimere l’arrabbiatura del personaggio. Tania mi trovava troppo timoroso: ci voleva ancora più rabbia! «Lasciami stare, te ne prego!», dovetti risponderle, arrabbiato. Ci ho messo del tempo, ma alla fine sono riuscito a liberare tutta la mia energia fino a distruggere una sedia! Ero spaventato da me stesso, ma alla fine soddisfatto; lei mi spiegava che l’attore deve attraversare tutti i sentimenti umani, dai più terribili ai più generosi. 

Ma il teatro non è un cammino facile: l’arte trova spesso la sua fonte in una ferita, una mancanza, e non è raro che gli artisti siano fondamentalmente delle persone in rivolta, esseri umani in ricerca. Credo che mediante l’arte – la pittura, la scrittura, il cinema… – noi cerchiamo di superare il dolore per far giungere un mondo migliore. La creazione è come un grido, che rende la bruttezza qualcosa di sublime. Noi non fuggiamo dai drammi di questo mondo, e così l’arte estirpa il male per liberare la bellezza, per guarire, riconciliare, calmare. 

Ho conosciuto molto bene Samuel Beckett e rimango ancor oggi colpito dal suo lavoro: e il primo ad aver risolutamente scelto come eroi personaggi perdenti, malati, clochard, in un tempo in cui il teatro era popolato di principesse, re e persone importanti. Tutta questa sofferenza umana viene messa in scena con molto humour e tenerezza: egli è arrivato a mettere i poveri al centro della sua opera, per parlarci meglio dell’uomo. E, si badi, Beckett non era credente! 

Essendo piuttosto timido, come attore mi ritraevo molto, soprattutto per quanto riguarda la fede. E non andavo a “predicare” il Vangelo sul set di un film: il modo di vivere il mio mestiere deve testimoniare ciò che conta per me. D’altra parte, il mio padre spirituale mi aveva detto un giorno che, attraverso il mio mestiere, io mi confidavo con il pubblico in un modo che mai avrei fatto con altri. 

In nessun modo il cinema o il teatro mi hanno impedito di credere, anzi, il contrario, anche quando ho impersonato i personaggi più terribili! Sono stato un curato di campagna, sono stato prete, religioso, cardinale e anche rettore della Grande Moschea di Parigi o l’arcangelo Gabriele, ma ho interpretato anche ruoli di cattivi, ad esempio in un James Bond, poi sono stato il diavolo nei Fratelli Karamazov… 

L’attore non è un “protetto”, un uomo fuori dal mondo: vive immerso nella realtà, si dibatte tra il bene e il male, e vive questa condizione umana attraverso un gioco, quello del teatro o del cinema. Da carne e sangue ai suoi personaggi, attraversa con loro il meglio e il peggio. Si tratta di una possibilità inedita di vivere diverse vite. Questo non mi impedisce di trasmettere qualcosa: sono stato molto felice nei miei diversi ruoli. (...) 

Arte e fede sono intimamente intrecciate. Per me è qualcosa di vitale, ma non voglio esagerare: esistono grandi credenti che hanno la fede senza possedere un’anima d’artista. E non tutti gli artisti sono toccati dalla grazia di credere. 

Per me, che sono sensibile all’espressione artistica, l’arte resta una forma di Dio. La bellezza è uno dei nomi di Dio. Ne sono spesso testimone: la bellezza, l’emozione possono portare alla fede. Ho conosciuto persone che si sono convertite ascoltando Mozart o Bach. Altri sono entrati nella cattedrale di Chartres e sono caduti in ginocchio. La nostra sensibilità ci rende permeabili alla dimensione spirituale e la fede può coglierci in risposta a un’emozione, una scoperta, un incontro. Saremo sempre sorpresi dall’imprevisto di Dio. 

Tra arte e fede esiste una curiosa alchimia. Gli artisti celebri sono geni di una fede incredibile! Rembrandt ha dipinto scene bibliche con una sensibilità sconvolgente, una profondità che solo la sua fede poteva permettergli di avere. Non molto tempo fa ho avuto la possibilità di restare da solo per lungo tempo in mezzo ad alcune opere di Rembrandt. Un canale televisivo mi aveva domandato di commentare l’esposizione organizzata al Museo del Louvre sui volti di Cristo dipinti dall’artista olandese. I tecnici hanno predisposto i loro strumenti da ripresa, tutto era pronto: ho raccontato quanto amavo quei dipinti. E poi hanno messo via le loro macchine e sono rimasto da solo, con i quadri. Che spettacolo! È stato un momento sconvolgente. Rembrandt è stato uno dei primi ad aver osato prendere un uomo del suo tempo come modello per rappresentare Cristo. Un uomo del XVII secolo ha dato i suoi tratti perché io possa oggi contemplare il volto di Cristo… 

Per lungo tempo i pittori hanno ripreso le immagini delle icone, con un Cristo solitamente biondo, qualcosa di piuttosto raro in Israele! Ci hanno presentato un Cristo stereotipato, dipinto sempre alla stessa maniera, congelato. Un’immagine molto bella che però non riesce a rappresentare un Gesù umano, bensì troppo divino. Per me Gesù resta un uomo concreto, in carne e ossa. Ha voluto essere simile a noi e nulla lo distingue da noi, se non la sua straordinaria presenza. Ma è un uomo a tutto tondo. 

Per rappresentarlo, e per far passare la realtà incredibile dell’incarnazione, Rembrandt è andato nel quartiere ebraico di Amsterdam, ha incontrato un giovane e gli ha chiesto di posare per lui. Il risultato è magnifico: Rembrandt è arrivato a dare la luce dell’anima nei volti di uomini che ci mostrano Cristo. All’epoca ci voleva una sacra audacia per fare questo! Anche Caravaggio fa parte di coloro che hanno saputo mostrare Gesù con una vera forza di carattere, scartando ogni immagine pietosa e disincarnata. 

Se ho apprezzato i quadri di Rembrandt, comunque non voglio rendere materiale Gesù. Io non lo vedo come vedo una persona, per me non ha una consistenza corporea. Gli parlo come ad un amico. E questo amico mantiene una disponibilità incredibile: gli posso parlare ogni giorno, sempre, quando voglio, quando posso, in ogni istante. Scatta in me un grazie provocato da un incontro, una luce, una musica… La preghiera per me è come il respiro. Non penso al fatto di pregare, prego! Non ho bisogno di dirmi: «Ora vado a pregare!»: si tratta di una disponibilità interiore, una prossimità permanente con Gesù che non viene formulata. Una sorta di stato intimo costante che non ha niente a che vedere con una preghiera ridotta a un appuntamento fissato in agenda. 
Avvenire