venerdì 24 luglio 2015

Piangiamo preghiamo e speriamo



Il patriarca di Gerusalemme dei Latini sulla situazione dei cristiani in Medio oriente. 

I cristiani del Medio oriente si trovano ad affrontare difficoltà di un livello che va dal “grave” al “meno grave”. Vale a dire che in quella zona del mondo al momento nessun fedele può affermare di vivere in condizioni di relativa tranquillità. È quanto afferma il patriarca di Gerusalemme dei Latini, monsignor Fouad Twal, intervistato dal Catholic News Service. Mentre definisce “brutta” la condizione dei palestinesi in Cisgiordania, il presule sostiene che la loro situazione è migliore rispetto alle sfide che sono costretti ad affrontare i cristiani in Siria e in Iraq, soprattutto quelli che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni e i propri villaggi a causa delle violenze e delle persecuzioni degli estremisti appartenenti allo Stato islamico (Is).Il patriarca Twal ha ribadito ancora una volta quanto sia importante e urgente la fine delle ostilità in tutta la Terra Santa e in Medio Oriente. «Condanniamo — ha detto — coloro che vendono le armi e che contribuiscono a mantenere viva la guerra in Siria. È un peccato. Non avevamo mai raggiunto questo livello di violenza. Noi preghiamo, speriamo, piangiamo. In tutto il Medio oriente non c’è una vita normale».
Sebbene riservi la definizione di “Chiesa del calvario” alla comunità cattolica della Terra santa, il patriarca ritiene che nell’intero Medio oriente si rischia di gettare la popolazione cristiana nelle medesime condizioni, dato il massiccio spostamento di fedeli dai Paesi d’origine a causa delle violenze. Twal ha ricordato che la Chiesa cattolica in Giordania contava fino a qualche tempo fa circa duecentomila cristiani. Negli ultimi tempi essa ha assorbito circa settemila rifugiati provenienti in particolare dalla Siria e dall’Iraq. Il patriarca si è detto “afflitto” dalle umiliazioni che sono costretti ad affrontare i rifugiati in Giordania, che prima vivevano una vita tranquilla, andavano a lavorare guadagnando un buon salario per poter vivere senza dipendere dagli altri e potevano mandare i loro figli a scuola. «Nel complesso — ha spiegato — la situazione dei rifugiati sta peggiorando, la gente si sente avvilita perché si rende conto che non sarà più in grado di tornare nelle loro case e nei loro Paesi in Iraq o in Siria. Non c’è speranza, non c’è vita, non c’è speranza di una fine» delle sofferenze.
Mentre le scuole cristiane, le parrocchie giordane e le agenzie caritative, come Caritas Giordania, hanno fatto del loro meglio per prendersi cura dei profughi, adesso sono a corto di risorse e hanno difficoltà a mantenere gli attuali livelli di aiuti. «Adesso, sono tutti stanchi. I parroci sono stanchi, i donatori sono stanchi, la gente è stanca e ha perso il proprio entusiasmo. All’inizio — ha proseguito il presule — erano felici di aiutare. Ma adesso si guarda il futuro e non si vede una fine. La Caritas non ha le risorse per assicurare tre pasti al giorno per ogni persona». 
Qualche elemento positivo c’è, tuttavia. Il patriarca ha espresso la propria soddisfazione per la liberazione del padre francescano Dhiya Aziz, che ha trascorso una settimana di prigionia. «È stato rapito dopo aver celebrato messa nel villaggio siriano di Yacoubieh, nella Valle dell’Oronte, della Custodia francescana di Terra santa. Padre Aziz — ha ricordato Twal — è stato il secondo francescano rapito nella valle dal 2014, e il settimo religioso in Siria. Altri sei sacerdoti sono ancora nelle mani dei rapitori e attendiamo che vengano rilasciati».
La priorità è dunque recuperare la speranza. Nonostante il grido di dolore, in numerose occasioni il patriarca di Gerusalemme dei Latini ha ribadito che «come cristiani siamo chiamati, al cuore di questa regione del Medio oriente scosso dalle guerre e insanguinato dalla violenza, a essere segni di contraddizione, segni di speranza malgrado tutto. Il nostro futuro in questa regione e in questo mondo è incerto e persino più oscuro, ma noi non abbiamo paura, Cristo ci ha preceduto ed è con noi». 
L'Osservatore Romano

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Siria: la Turchia attacca l'Is. Padre Sahoui: siamo nelle mani di Dio

In Siria per la prima volta la Turchia ha attaccato direttamente lo Stato Islamico. Caccia dell’esercito hanno colpito i jihadisti nel nord della Siria e il governo ha dato la disponibilità della base di Incirlik alla coalizione internazionale che combatte contro l’Is. “E’ necessario un passo diverso”, ha detto il presidente Erdogan, a pochi giorni dall’attentato nel sud della Turchia che è costato la vita a 32 persone. Intanto in Siria continua l’emergenza umanitaria, come spiega padre Ghassani Sahoui, direttore del Jesuit Refugee Service di Aleppo
R. – Viviamo ad Aleppo, quindi stiamo imparando a vivere giorno dopo giorno la vita con quello che ci presenta. Infatti ad Aleppo diciamo sempre: “Siamo nelle mani di Dio”, perché viviamo sempre con il rischio di morire, in ogni momento… Questa crisi ha fatto sì che vivessimo insieme, cristiani e musulmani. Siamo in contatto quotidiano con i musulmani. E anche i musulmani mi chiamano “padre”.
D. – Come si vive quotidianamente ad Aleppo? Come si va avanti?
R. – Le famiglie devono pagare per avere l’elettricità, talvolta – menomale – un’ora viene fornita dallo Stato. Ma la maggior parte del tempo non c'è perché ci sono dei problemi. Anche per l’acqua è la stessa cosa. E quindi la gente si trova talvolta ad aspettare in fila - una lunga fila - davanti ai rubinetti delle strade, delle chiese o delle moschee per avere dell’acqua.
D. – E come si affrontano i bombardamenti?
R. – Purtroppo siamo esposti in ogni momento al rischio della caduta di una bomba o di un missile. Nella maggior parte della zona dove ci troviamo sono poche le bombe che cadono. Certamente ci sono vittime, però purtroppo questo è un po’ il disastro della guerra: trovare gente senza mani, senza piedi, che ha perso qualcosa: un figlio o la loro casa… è un dramma!
D. – La comunità cristiana come sta vivendo nello specifico questa situazione?
R. – Dall’inizio della crisi credo che la metà degli abitanti della città di Aleppo siano già partiti. La gente, anche i cristiani, quasi la metà o anche di più, hanno lasciato Aleppo, sia per altre città in Siria, più sicure, sia per l’Europa. Quelli che vivono ora ad Aleppo, o non hanno la possibilità di viaggiare - sono quindi destinati a vivere lì e a subire tutto questo ambiente di guerra - oppure hanno scelto di rimanere, malgrado tutto. E questo non è facile: per quanto riguarda le famiglie cristiane, ad esempio, queste provano ad uscire, però ci sono tanti problemi. Talvolta la moglie vuole rimanere e invece il marito vuole partire, oppure accade l’inverso. Facciamo un lavoro di discernimento spirituale con le famiglie. Talvolta i bambini e i giovani vogliono partire, perché non c’è un futuro... È difficile lasciare i luoghi dove sono stati abituati a vivere, a lavorare, trovare un po’ di vita, è difficile! Perciò sono crisi talvolta che viviamo nelle famiglie. Dobbiamo accompagnare sempre questi cristiani che pongono delle domande.
D. – Due anni fa circa spariva padre Dall’Oglio: lei lo ha conosciuto personalmente…
R. – È un grande uomo, un nostro amico e un nostro compagno. Credo che abbia avuto voluto dare tutta la sua vita per la causa del popolo siriano. Ha preso una direzione sulla base delle sue convinzioni. Però io ho sempre lodato il suo coraggio… Purtroppo lui è assente da due anni, non sappiamo niente del suo destino. Ci sono solo delle voci secondo le quali forse sarebbe stato ucciso. Vivere in questa crisi in alcune zone è difficile, siamo a rischio di essere uccisi o rapiti. Però non posso trovare un senso alla mia vita senza questa gente. RV