sabato 29 agosto 2015

L’Apocalisse e il senso della vita. Dall’idolatria al disincanto.




Anticipiamo ampi stralci dell’intervento (pubblicato integralmente sul sito del giornale) che l’arcivescovo di Chieti-Vasto pronuncia il 29 agosto a Bari in occasione della Settimana liturgica nazionale, sul tema «Ogni celebrazione liturgica è una festa nuziale. La dimensione eucaristica della vita degli sposi e della famiglia». 
(Bruno Forte) La liturgia del cielo, come quella della terra, muove da una domanda di fondo, quella che ispira ogni ricerca della verità da parte del cuore umano: è la domanda sul senso della vita e del tempo, in particolare sul senso del dolore. Perciò l’Apocalisse è un libro sempre intrigante, che affascina e sorprende, che non lascia mai indifferente chi vi si avvicini ponendosi in ascolto senza paure e senza pregiudizi. La domanda è espressa al capitolo 5, dove è presentato l’Agnello seduto sul trono, cui viene affidato da Dio il libro sigillato della storia affinché lo apra: come scrive Hans Urs von Balthasar, si tratta di «uno dei passi più grandiosi della letteratura mondiale». 
A porre l’interrogativo «a gran voce» — quasi a raccogliere tutte le voci del tempo — è l’“angelo forte”: «Chi è degno di aprire il libro e di scioglierne i sigilli?» (5,2). La domanda potrebbe essere trasposta così: «Chi può decifrare il senso del mondo in quanto natura e in quanto storia? Quale filosofia può spiegare il principio, il centro e la fine del tutto? Di ciò che è sigillato sette volte?». È la domanda che in un modo o nell’altro tutti ci siamo posti, almeno qualche volta nella vita: questo mondo e la mia vita hanno un senso che superi la fragilità di ciò che passa? Dinanzi a questa domanda la liturgia dell’Apocalisse offre una prima reazione, quella di un generale ammutolirsi: «Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di leggerlo»! È l’esperienza umanissima di chi non riesce a trovare risposta al dolore che lo interroga, proprio o altrui che sia. 
Ed è l’esperienza del veggente di Patmos, in questo più che mai nostro fratello e compagno nella tribolazione: in una sorta di disorientato silenzio, egli singhiozza a voce alta: «Io piangevo molto perché non si trovava nessuno degno». Nessuno sembra avere la forza di risolvere l’enigma del mondo! Eppure, a questo enigma non ci si sottrae, perché puntualmente esso torna ad inquietarci!
Nel silenzio anche doloroso che attende una risposta, si delinea allora la condizione necessaria per entrare nella liturgia dell’Apocalisse, come in ogni liturgia veramente vissuta: soltanto chi sente la forza e il dolore delle vere domande, potrà avvicinarsi con fiducia al libro sigillato e all’Agnello. 
Per l’Apocalisse, come per la liturgia, vale la condizione espressa dai Padri: «Poteva comprendere il senso delle parole di Gesù, soltanto chi riposò sul petto di Gesù» (Origene, In Joannem 1,6). Solo l’amore apre alla conoscenza dell’Amato! Sono le due condizioni espresse da Agostino al termine della più bella e tormentata delle sue opere, il De Trinitate: «Signore mio Dio, unica mia speranza, fa’ che stanco non smetta di cercarTi, ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore. Dammi la forza di cercare, Tu che ti sei fatto incontrare, e mi hai dato la speranza di sempre più incontrarTi. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te. Amen!».
Purificata dal giudizio di verità del Dio che è venuto e che viene, l’assemblea liturgica si apre alla visione della storia nel suo insieme come nei singoli eventi alla luce dell’Agnello immolato e risorto, in modo da poter vivere la vita nel discepolato fedele di Lui, il Signore Gesù. 
In questa parte della liturgia dell’Apocalisse il discepolo è presentato come chi legge l’ora e il futuro, personale e collettivo (cfr. 4,1), alla luce di tre fondamentali parametri: la sovranità di Dio Padre (4,2s. 9s. e i seguenti); il suo piano di amore (il libro dai sette sigilli); e il Crocifisso Risorto (l’Agnello immolato in piedi: 5,6), in cui la luce divina ci è stata rivelata e donata. 
Chi si lascia illuminare da questa luce è come la Donna «vestita di sole» (12,1), figura dell’assemblea celebrante della prima alleanza e della Chiesa, e non di meno la Madre del Messia, la donna Maria, icona di ogni credente che si lascia inondare dalla luce divina e legge la vita e la storia in Dio. L’ingresso della figura centrale dell’Agnello è preparato dalla grande domanda, sottesa a tutta l’Apocalisse e ad ogni liturgia: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?» (5,2). È l’interrogativo ineludibile circa il senso della storia e della vita di ciascuno e di tutti. La constatazione che «nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di osservarlo» (5,3) è dolorosamente vera: «I tentativi di qualsivoglia concezione del mondo, religione o filosofia falliscono nell’impresa». È nel contesto di questa tensione drammatica, eco dell’attesa dell’intero creato, che entra in scena l’Agnello.
Come osserva giustamente Hans Urs von Balthasar, in questa scena va riconosciuto il filo rosso di tutta l’Apocalisse. L’Agnello ha la pienezza dell’energia messianica (“sette corna”) e dello Spirito (“sette occhi”: 5,6), eppure è una figura storica precisa, quella che l’attesa messianica di Israele aveva presentato come “il leone della tribù di Giuda, la radice di Davide”, colui che sarebbe germogliato dal tronco di Iesse, il padre del re Davide. È all’Agnello che viene consegnato il libro. È qui che si coglie il vangelo dell’Apocalisse, che è poi semplicemente la buona novella cristiana proclamata e celebrata in ogni liturgia: a svelare il senso della vita e della storia è l’Agnello immolato in piedi, colui cioè che, pur essendo di condizione divina, ha fatto suo il nostro dolore sulla Croce e con la sua resurrezione lo ha portato nel cuore stesso di Dio per redimerlo e superarlo. L’Apocalisse legge il tempo e la vita alla luce di questa fondamentale certezza della fede: Dio non è restato lontano da noi nella sua trascendenza, ma ha accettato di abitare il nostro dolore, di assumere il nostro peccato, di morire la nostra morte, perché la sua vittoria sulla morte fosse la nostra, la sua liberazione dal male ci raggiungesse.
È alla luce della figura umile e sovrana dell’Agnello immolato, ritto in piedi, che l’Apocalisse, come la liturgia, legge la vicenda umana. La commistione di morte e di vita, di dolore e di gioia, di abbandono e di vittoria, è la chiave di comprensione della lotta del discepolo e di quella della Chiesa nel tempo: Mors et vita mirando conflixere duello - “Vita e morte si sono affrontati in un mirabile duello”. Si delineano i tratti della battaglia, in cui si riassume simbolicamente la storia intera del mondo. Gli ultimi due capitoli dell’Apocalisse descrivono il compimento del mondo creato e della storia nel segno della vittoria di Dio, anticipata e promessa nella Pasqua dell’Agnello, l’Innocente morto e risorto alla vita. Questa vittoria va realizzandosi progressivamente nella lotta cosmica, figura della condizione agonica della fede nel tempo, significata dalla battaglia del Drago contro la Donna vestita di sole e contro il Figlio che ella partorisce. Il sole irradiato da Dio nella Pasqua di Gesù riveste la Donna Chiesa, che trova nella Donna Maria il proprio modello, la propria Madre e Regina, e la rende capace di sostenere la lotta e di vincere, resistendo nella fedeltà dell’amore fino alla pienezza escatologica. Perché questa pienezza arrivi c’è però ancora bisogno di preparazione e di attesa: questa attesa sarà lunga, ma non durerà per sempre. L’Apocalisse ha contribuito decisamente a trasmettere all’intera spiritualità cristiana quest’urgenza, questa coscienza che la scena del mondo passa e viene a noi il Desiderato, l’Atteso che è inseparabilmente l’Amato, Colui che si è fatto Servo per amor nostro, e per noi è stato esaltato nell’ora di Pasqua quale Signore della storia passata, dell’oggi che si consuma e del tempo futuro, quando verrà come giudice di misericordia e di giustizia. L’Apocalisse si chiude, come era iniziata, in uno scambio di invocazioni e di promesse in atto di realizzarsi, che ha luogo fra i protagonisti (22,6-21).
La figura dominante nello stupendo dialogo liturgico conclusivo del libro è quella di Colui che viene: davanti a Lui, in atto di invocarlo, di attenderlo e di accoglierlo, sta la sposa vivificata dallo Spirito. È significativo che ritorni qui una figura femminile, richiamo della donna della scena centrale della battaglia escatologica. Perché, ancora una volta, una donna, come nell’ora del primo peccato e in quella dell’annunciazione, come nella Chiesa del Cenacolo e come nella grande battaglia col Satana? Donna è grembo in cui viene ad abitare l’avvento. Donna è la Eva del primo rifiuto, madre dei viventi e della ferita radicale, che come resistenza sorda e tenace si oppone alla luce dell’Agnello, finché non sia lavata dall’acqua della vita. Donna è Maria, inizio nuovo del mondo, Vergine, Madre e Sposa, arca dell’alleanza, modello della fede. La Sposa dell’Apocalisse diventa allora la figura di ogni cuore che accoglie l’avvento, di quella fede necessaria, senza cui l’Onnipotente, rispettoso della libertà della creatura, non può compiere le meraviglie promesse. Un mondo idolatrato in se stesso spoglia l’esistenza della sua sfida più profonda: il disincanto del mondo, cui la liturgia educa, è condizione di possibilità dell’amore più grande, perché apre al rischio supremo, all’ultimo addio, alla scelta che esclude, dalla parte dei segnati per la vita o dei condannati alla seconda morte (Apocalisse 2,11; 20,6; 21,8). Chi vive la quotidiana esperienza della fedeltà all’amore nuziale comprende quanto questo disincanto sia necessario!
Infine, il messaggio di disincanto e di speranza si congiungono per motivare un nuovo affidamento al Dio vivente in coloro che sono impegnati nella lotta: libro della speranza della fede, l’Apocalisse è anche il libro dell’interiorità salvata, della forza e della gioia attinte dal dialogo liturgico con il Signore che viene e lo Spirito che grida in coloro che lo attendono, della lode che ritorna come trama costante di riconoscimento dei doni dell’Eterno e di celebrazione della sua gloria. L’Apocalisse è capace di far vibrare le corde più intime dell’anima e di suscitare in chi entra nelle strategie retoriche del suo straordinario Autore un movimento di risposta alla rivelazione e alla chiamata dell’Eterno. In questo dialogo liturgico, il singolo non si scopre perduto: al contrario, il senso di appartenenza al popolo della lode e dell’invocazione lo conferma nell’atto di fede, lo stimola all’audacia della preghiera. È quanto la liturgia consente di vivere a chiunque si accosti ad essa con consapevolezza e docile attesa. Per quanti sono uniti nell’alleanza nuziale, il nutrimento dell’interiorità di ciascuno nella fede nulla toglie alla comunione fra i due, la rende anzi più profonda e solida nell’attingere alle sorgenti eterne dell’amore. 
È così che la liturgia lancia ponti fra l’eternità e la storia, non solo nell’oggettività della parola o della visione che vengono dall’alto, ma anche suscitando il movimento del cuore che si affida, delle labbra che cantano il canto della speranza della fede, per prepararsi a cantare il cantico dell’Agnello vittorioso nell’ora della gloria senza tempo. Nulla, forse, come la mistica è capace di esprimere il senso di questa interiorità salvata, aperta a Dio e desiderosa di Lui, che la liturgia permette sempre di nuovo di sperimentare. Lo testimonia un’innamorata partecipe della liturgia della Chiesa nella fedeltà dei giorni, Raïssa Maritain, che alla scuola dell’eucaristia ha nutrito la sua gioiosa fedeltà di sposa, in versi non a caso intitolati Transfiguration (non è l’azione liturgica una partecipazione sempre nuova all’esperienza del Tabor?): «Quando t’avrò vinto o mia vita o mia morte/ Quando t’avrò vinto — amore/ E sarò fatta conforme all’amore eterno/ Come un uccello che batte le ali/ Che discioglie nel suo volo i legami della terra/ Quando t’avrò vinto ostile fascino della felicità/ E avrò conquistato la mia libertà celeste/ Quando avrò sconfitto la gioia e lo sconforto/ Quando avrò superato le vie dei desideri/ E avrò scelto il cammino più duro/ Come il cielo notturno sconfinato e puro/ Nell’armonia vera di tutte le stelle/ Sarà il mio cuore nell’armonia della grazia/ Ma ti avrò salvato — amore/ Di te avrò salvato la vita e non la morte/ E t’avrò incontrato — felicità/ Dopo aver dato al mio Signore tutto di me stessa/ Come un vascello fortunato/ Che rientra nel porto col suo carico intatto/ Approderò in cielo col cuore trasfigurato/ Recando offerte umane e senza macchia».
L'Osservatore Romano