lunedì 24 agosto 2015

ULTRAFISICA

Teilhard de Chardin

L’ultrafisica di Teilhard de Chardin. Rivisitazione messicana dell’inquieto gesuita francese riabilitato in tempi recenti dal Concilio Vaticano II 
 Terre d'America 

Un giudizio che non passa inosservato, se a pronunciarlo è il poeta, scrittore e accademico messicano Hugo Gutiérrez Vega: «In questo momento di revisione di molti aspetti dell’uomo e della cultura, è necessario tornare a un pensatore che con la sua saggezza, la sua onestà e il suo rigore scientifico ci lascia una visione equilibrata del fenomeno umano». Alla guida della Jornada semanal, supplemento culturale messicano di La Jornada, introduce così l’ampio articolo di Sergio A. López Rivera sulla validità del pensiero di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), scomparso a New York nella più totale solitudine umana e intellettuale la sera di Pasqua di sessant’anni fa.
Geologo e paleontologo francese, entra diciottenne nel noviziato della Compagnia di Gesù, ma all’inizio del secolo è costretto ad abbandonare la Francia. All’indomani delle leggi antireligiose promulgate dal governo Waldeck-Rousseau (1899-1902) per porre fine ai disordini scoppiati in seguito all’affaire Dreyfus, i gesuiti assieme ad altre congregazioni religiose sono banditi dal territorio nazionale. Studia in Egitto e in Gran Bretagna, dove nel 1911 è ordinato sacerdote. Durante il primo conflitto mondiale presta servizio al fronte come barelliere. Legge e ama Dante. Tornato in patria, ottiene un incarico all’Istituto Cattolico di Parigi, ma ben presto è allontanato dai suoi superiori a causa delle sue idee scientifiche poco conformi all’ortodossia cattolica. Per vent’anni vive e lavora in Cina, partecipa a numerose spedizioni di ricerca, tra cui quella in cui torna alla luce il sinhantropus, (l’uomo di Pechino). Alla fine della seconda guerra mondiale torna nuovamente a Parigi ed è nominato direttore del Centro Nazionale di Ricerca scientifica. Ancora una volta i superiori lo invitano a lasciare la Francia e nel 1951 parte per gli Stati Uniti dove resta fino alla fine della sua vita.
Dal pensiero di Teilhard de Chardin emerge una concezione integralmente evoluzionistica. Nell’opuscolo La vita cosmica, pubblicato nel 1916, egli osserva che il mondo è regolato dalla legge della ricorrenza e che la materia è costituita da una serie incessante di aggregazioni sempre più complesse. Sulla base della speculazione filosofica di Henri Bergson ed Édouard Le Roy che sostengono la dimensione temporale della realtà, Teilhard intuisce che l’universo stesso è una “storia”. Dall’alba dei tempi il cosmo partecipa a un costante movimento progressivo. Il processo evolutivo unisce tutti i fenomeni di trasformazione della materia a partire da un atomo primigenio fino all’uomo, sintesi di cosmogenesi, biogenesi e antropogenesi. In virtù di questa complessità la vita umana è capace di ricevere il pensiero. Inoltre, l’evoluzione non finisce con il fenomeno umano, in continua ascesa, ma procede verso una «noogenesi» che indirizza l’umanità verso un fine – il Punto Omega – che rende solidali tutti i destini del cosmo. Nella riflessione del paleontologo francese non c’è spazio per alcuna forma di determinismo. Cristo mediatore è principio, fine e condizione di tutto il processo evolutivo. Solo grazie all’iniziativa divina, volontà perfetta che guida e orienta, l’uomo avanza nella sua continua tensione al destino.
L’idea che l’uomo sia all’interno di un processo non compiuto, ma di una più estesa cosmogenesi, sorregge l’intera architettura teorica della riflessione di Teilhard de Chardin, che vuole essere scientifica e ultrafisica, ma mai metafisica. Tutto il senso dell’evoluzione deve essere rintracciato nel principio della cosmogenesi, che postula l’universo come fenomeno temporaneo in fieri. L’originalità del suo lavoro scientifico consiste nell’affermare che la semplice lettura scientifica del fenomeno evolutivo è di per sé una ricerca di senso, del significato profondo del creato, del tempo e dell’esistenza umana.
La pretesa di interpretare i fatti osservati e cercare un senso alimenta il grande dibattito sul suo lavoro fin dalle prime pubblicazioni. L’originalità e la profondità del suo approccio, la serietà e la profondità di osservazione e di analisi dei fenomeni, unito a un ineccepibile rigore logico, costituiscono motivi validi per suscitare discussioni su più livelli di conoscenza. Uno straordinario sforzo di visione unitaria che è possibile riassumere in un passaggio di rara intensità: «L’umanità nella sua marcia si trova in una fase di stallo perché gli spiriti esitano a riconoscere che c’è un orientamento preciso e un asse specifico di evoluzione». Forse la “fase di stallo” cui si riferisce lo scienziato ha impedito ai suoi contemporanei di cogliere la novità e lo spessore del suo pensiero.
Osteggiato dai vertici della Chiesa cattolica, abbandonato dalla comunità scientifica, se negli ultimi momenti della vita denunciava l’impossibilità di citare almeno uno scritto o un autore che condividesse con lui la diafanità di un cosmo trasfigurato, anche Eugenio Montale, uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, riservò nei suoi confronti versi poco lusinghieri in “A un gesuita moderno” (Satura, 1962-1970): «se vuoi farci credere / che un sentore di noi si stacchi dalla crosta / di quaggiù, meno crosta che paniccia / per allogarsi poi nella noosfera / […] / ti dirò che la pelle mi si aggriccia / quando ti ascolto».
Le sue opere principali, tra cui Il fenomeno umano (1955) e L’avvenire dell’uomo (1959) saranno pubblicate postume. Una Cassandra dei tempi moderni, una voce finalmente ascoltata e riabilitata solo dal Concilio Vaticano II. Risulta ancora una volta evidente come il tempo della storia umana sia inesorabilmente più lento di quello dell’universo, che viaggia – come d’altronde viaggiava Teilhard de Chardin – alla velocità della luce.