sabato 31 ottobre 2015

La Fatica e la gioia. Storie di famiglie cristiane

Wedding

Verrà presentato a Roma, il prossimo 20 novembre, alle 20,30, nella sala ICEF in Viale delle Belle Arti, il libro “La fatica e la gioia. Voci di famiglie cristiane” (edizioni. Cantagalli), curato da don Arturo Cattaneo, Alessandro Cristofari e Gioia Palmieri. Alla presentazione interverrà anche mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia sul tema “Le proposte dei due Sinodi per superare le crisi della famiglia”.  Il libro raccoglie la testimonianza di 47 coniugi che raccontano la storia del loro matrimonio: dagli innamoramenti e le delusioni, alla sfida dell’accoglienza dei figli o del trascorrere degli anni.
Dalle diverse testimonianze emerge un dato comune: il matrimonio non si regge sulle capacità e sugli sforzi dei singoli sposi, ma nel riconoscere che c'è un Altro che li precede, che ha già preparato loro - nella fatica e nella gioia - una strada per diventare veri uomini e vere donne capaci di cambiare il mondo con il loro quotidiano sì' alle piccole e grandi sfide della vita. Sono quindi storie di famiglie semplici che vivono intensamente i piccoli e grandi rapporti che si generano dentro e fuori le mura di casa. Storie di famiglie numerose e missionarie. Testimonianze di famiglie che dopo precedenti unioni hanno scommesso sul matrimonio. Coniugi segnati dall'abbandono. Sposi che hanno accolto figli di altri come se fossero propri. Coppie che hanno alle spalle decine di anni di matrimonio e altre più giovani che iniziano ora questo cammino. Coniugi che si spendono per le altre famiglie e famiglie che hanno capito.
Raccontano i loro matrimoni anche alcune celebrità come Luca Barilla, Debora Caprioglio, Max Giusti e Pupi Avati. Curatori del libro sono: don Arturo Cattaneo, sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei, dottore in Diritto canonico e in Teologia, già autore di numerosi libri di successo; Gioia Palmieri, giornalista, moglie e madre di tre figli, impegnata con l’associazione Arca di Noè a un progetto educativo di accoglienza di giovani madri e donne immigrate con figli; e Alessandro Cristofari, consulente nel settore della comunicazione soprattutto nel campo web, attivo progetti di formazione per giovani nelle scuole insieme all’associazione Cogitoetvolo.
Proprio Cristofari, intervistato da ZENIT, ci racconta origine, ragioni e finalità di questo libro.
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Perché questo libro?
Nella vita della Chiesa, questi ultimi mesi sono stati un tempo davvero fecondo e provvidenziale per le attese delle famiglie. Lo svolgimento di due Sinodi, le catechesi del mercoledì di Papa Francesco e infine, il recente incontro mondiale che si è tenuto a Philadelphia. Ritengo siano tutti momenti importanti per via di tempi di complicate culture legate alla famiglia. Ecco il motivo del libro “La fatica e la gioia. Voci di famiglie cristiane”. Credo che una delle cose nella vita a cui non si debba mai rinunciare è la testimonianza viva di una voce che racconta. C’è bisogno di testimoni, non basta più neanche dare il buon esempio, tanto meno l’obbligo: quello non è mai bastato, né servito. Così noi abbiamo voluto raccogliere storie e testimonianze di coppie e coniugi, raccontate direttamente da loro. Coppie che hanno un comune denominatore: sono tutte credenti e cercano di rimanere fedeli alla promessa, che davanti a Dio e alla Chiesa, si sono scambiata vicendevolmente.
Quali sono queste fatiche e queste gioie nella vita di famiglia di cui parla il libro?
Quelle raccontate nel libro sono tante storie che non ricevono l’attenzione dei media e rimangono nascoste ai più; eppure sono storie che offrono spunti di riflessione, incoraggiamenti, suggerimenti. Sono storie molto diverse, come diverse sono le circostanze che accompagnano e configurano la vita matrimoniale.

Tante storie: alcune, si legge, sono straordinarie, altre normali. Cominciamo nel raccontarne qualcuna di quelle eccezionali...
Sono eccezionali, si, ma tutte accomunate dal fatto che c’è una grande fede dietro ad ogni storia: fede che è fondata sull’incarnazione del Verbo. La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio di ogni esperienza umana: il fallimento, la paura, il lavoro, il sudore, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, la fatica, l’amicizia… e ha reso quindi ogni vissuto umano un luogo di incontro con Dio e la sua trascendenza, che salva. Questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire di ogni ora, ed è in dialogo con Dio, altrimenti impossibile per chi ha una famiglia. Ognuna di queste storie quindi è straordinaria (anche quelle ordinarie) perché unica nella sua interezza.

Alcuni esempi…dunque la storia commovente è quella della grande fede di Alberto che nel febbraio del 1974 si sposa con Maria nemmeno trentenne e hanno quattro figli. Il 14 agosto del 1983, tornando con tutta la famiglia dalle ferie trascorse in Calabria, sua moglie muore sull’Autosole investita da una macchina, mentre erano in sosta per un’avaria, sulla corsia d’emergenza. La figlia più piccola ha solo cinque mesi. Nel 1985 Alberto sposa Giuseppina con la quale avrà 8 figli. In mezzo succedono varie cose che troverete nel libro. Ad oggi si sono sposati cinque loro figli, che hanno regalato ad Alberto e Giuseppina 16 nipoti.

Un’altra storia è quell di Roberto (64 anni) e Angela (62 anni) che vivono a Rho, vicino a Milano. Sono sposati da 39 anni e hanno avuto tre figli adottivi: Alexandra, Alfonso e Marco. Negli ultimi vent’anni hanno ospitato molte persone, in prevalenza adulte, che avevano bisogno di vivere in famiglia, per pochi mesi o per alcuni anni. I loro figli sono sposati e li hanno fatti diventare nonni di tre nipotini. In casa con loro oggi vivono, da tre anni: Debora, 43 anni, i suoi figli di 17, 5 e 3 mesi e Adel, di 23 anni. Roberto insegna all’Università Bocconi e dirige una società di consulenza, Angela, dopo aver gestito per molti anni una libreria, fa la nonna, la mamma, la moglie e la figlia (con una mamma di 99 anni).
Una di quelle normali?
La normalissima storia di Anna di che  nel dicembre del 1995 si è sposata con Angelo. Dopo un anno hanno il primo figlio, Matteo, e poi a seguire altri 3. I primi tre sono in piena età adolescenziale: Matteo, Marco, Michele e poi c’è il piccolo Davide di 5 anni. Anna, descrive le sue giornate di quando aveva tre bimbi e di come conciliasse famiglia e lavoro. È una storia dove lei e il marito si sforzano di vivere – spesso con non poca fatica, ma assaporando anche molta gioia – il matrimonio e i valori della famiglia, sorretti dalla forza della fede. Testimonianze quindi della bellezza di uno stile di vita non ripiegato su sé stesso, in cui si esercita la pazienza, la fiducia, la fedeltà e si mostra come, seguendo l’insegnamento del Vangelo, sia possibile vivere l’ordinario in modo straordinario.
Ci sono anche le storie di quattro personaggi noti: Pupi Avati, Debora Caprioglio, Luca Barilla, Max Giusti. Quali di questi l’ha più colpita?
Un po’ tutte a dire il vero; tuttavia posso dire che di Max Giusti mi è rimasta impressa la sua semplicità. Ho ancora fresco il ricordo di quando sono andato a trovarlo in radio a Roma. Lui mi ha detto: “Voglio essere sincero: mi sono sposato quando sapevo di aver trovato la persona giusta che condivideva i miei ideali, i miei valori, il mio modo di vivere e anche quella con cui amavo condividere la quotidianità. […] Spesso si parla di voli pindarici quando si tratta di temi come il matrimonio, ma la quotidianità è la vera forza del matrimonio. […] per me è il vero zucchero della vita perché io sono molto contento: ho due figli e nella mia famiglia, nella mia casa – che è il covo in cui vive la mia famiglia – ritrovo la serenità, la carica per affrontare la vita esterna. […] Il matrimonio era qualcosa che io e mia moglie volevamo in più, la condivisione, i valori cristiani, i valori della fede e dire pubblicamente «Ecco, questa donna è mia moglie» e nel caso di mia moglie «Questo uomo è mio marito»”.
Che c’entra la fede con il rapporto di coppia e con la vita familiare?
Uso parole di Papa Francesco nel discorso alla Rota Romana del 2014: "Il Signore, nella sua bontà, concede alla Chiesa di gioire per le tante e tante famiglie che, sostenute e alimentate da una fede sincera, realizzano nella fatica e nella gioia del quotidiano i beni del matrimonio, assunti con sincerità al momento delle nozze e perseguiti con fedeltà e tenacia". Senza la testimonianza di queste famiglie l’annunzio cristiano sembrerebbe un’utopia e poco credibile. Per rispondere alle diverse minacce a cui è sottoposta oggi la famiglia non servono perciò grandi teorie o bei discorsi, ma sono necessari esempi gioiosi di coppie che sanno fare famiglia, anche se quotidianamente si imbattono in problemi o difficoltà. Questo è il cristianesimo. Questa è la fede.
Come e perchè la fede dovrebbe rafforzare e mantenere uniti i matrimoni? 
Il matrimonio è un sacramento, e “il risveglio della fede passa attraverso il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno”. Sono parole sempre di Papa Francesco nella Lumen Fidei (n.40). Quel tocco divino che rivela nell’operare quotidiano, che non è da mettere nelle cose, ma nelle nelle persone e nelle cose insieme, perché ce l’ha già messa Dio. Ognuno di noi, rispondendo a questa chiamata, può essere contemplativo nella vita ordinaria: in macchina, in cucina, a tavola, in ufficio. È reale, e ce lo testimoniano queste famiglie.
Ne abbiamo raccontate 47 per motivi di spazio, ma, vi assicuro che ce ne sono a centinaia che conosco io personalmente! Solo nel sacramento i cinque sensi si aprono alla bellezza, che ogni giorno fa nuove tutte le cose. E non si trova solamente nel silenzio che può esserci in una chiesa, ma anche nel caricare una lavatrice, nel prendere l’autobus (e a Roma, vi assicuro, è un’impresa), in una passeggiata con un figlio, in un messaggio su WhatsApp, nell’ascoltare musica, in una chiacchierata con qualcuno… In tutto. Ed ecco che il mondo diventa tempio, e infatti nel matrimonio gli sposi sono tempio dello Spirito Santo.
Il cristiano contemplativo è immerso nel mondo senza rimanere sommerso. Queste testimonianze sono così. Dio è un padre che, come dice Santa Teresa, prende il mondo che gli regala un bambino perché possa giocare con lui. Dio non è teoria, ce lo fanno capire i testimoni di questo libro. Dio non è per pochi o una serie di doveri difficilissimi da eseguire. Dio è un rapporto padre-figlio, un bel gioco. Come facevo io quando da bambino giocavo con le mie sorelle a fare il figlio, con Dio è più impegnativo, come tutti i giochi divertenti però. Infatti con le mie sorelle non mi divertivo.

Udienza all’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID). Discorso di Papa Francesco




Il  tweet di Papa Francesco: "La vanità non solo ci porta lontano da Dio: ci rende ridicoli." (31 ottobre 2015)

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Udienza all’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID). Discorso di Papa Francesco: "È decisivo avere una speciale attenzione per la qualità della vita lavorativa dei dipendenti, che sono la risorsa più preziosa di un’impresa; in particolare per favorire l’armonizzazione tra lavoro e famiglia"
Sala stampa della Santa Sede
Alle ore 12 di questa mattina il Santo Padre Francesco riceve in Udienza l’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti (UCID).Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha rivolgtoai presenti all’Udienza:
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Rivolgo il mio cordiale benvenuto a tutti voi, e ringrazio il Cardinale De Giorgi e il Presidente nazionale per aver introdotto questo incontro.
L’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti riunisce gli imprenditori cattolici che si pongono l’obiettivo di essere artefici dello sviluppo per il bene comune. Per fare questo, voi date grande importanza alla formazione cristiana, attuata soprattutto mediante l’approfondimento del Magistero sociale della Chiesa. Tale impegno formativo è il fondamento dell’azione, sia quella personale, nel modo di vivere la professione, sia quella associata, nell’apostolato d’ambiente. Vi esorto pertanto a proseguire con entusiasmo nelle vostre attività formative, per essere di fermento e di stimolo, con la parola e l’esempio, nel mondo dell’impresa.
In quanto associazione ecclesiale, riconosciuta dai Vescovi, voi siete chiamati a vivere la fedeltà alle istanze evangeliche e alla Dottrina sociale della Chiesa in famiglia, al lavoro e nella società. È molto importante questa testimonianza. Per questo vi incoraggio a vivere la vostra vocazione imprenditoriale nello spirito proprio della missionarietà laicale. Quello dell’imprenditore, infatti, «è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 203).
L’impresa e l’ufficio dirigenziale delle aziende possono diventare luoghi di santificazione, mediante l’impegno di ciascuno a costruire rapporti fraterni tra imprenditori, dirigenti e lavoratori, favorendo la corresponsabilità e la collaborazione nell’interesse comune. È decisivo avere una speciale attenzione per la qualità della vita lavorativa dei dipendenti, che sono la risorsa più preziosa di un’impresa; in particolare per favorire l’armonizzazione tra lavoro e famiglia. Penso in modo particolare alle lavoratrici: la sfida è tutelare al tempo stesso sia il loro diritto ad un lavoro pienamente riconosciuto sia la loro vocazione alla maternità e alla presenza in famiglia. Quante volte, quante volte abbiamo sentito che una donna va dal capo e dice: “Devo dirle che sono incinta” - “Dalla fine del mese non lavori più”. La donna dev’essere custodita, aiutata in questo doppio lavoro: il diritto di lavorare e il diritto della maternità. Qualificante è anche la responsabilità delle imprese per la difesa e la cura del creato e per realizzare un «progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale» (Lett. enc. Laudato si’, 112).
Questa chiamata ad essere missionari della dimensione sociale del Vangelo nel mondo difficile e complesso del lavoro, dell’economia e dell’impresa, comporta anche un’apertura e una vicinanza evangelica alle diverse situazioni di povertà e di fragilità. Si tratta, anche qui, di un atteggiamento, di uno stile con cui portare avanti i programmi di promozione e assistenza, incrementando le numerose e benemerite opere concrete di condivisione e di solidarietà che sostenete in varie parti d’Italia. Questo sarà anche un modo a voi proprio per mettere in pratica la grazia del Giubileo della Misericordia. Qualcuno di voi potrà dirmi: “Ah, padre, praticare la misericordia… facciamo un po’ di beneficienza…”. Non basta fare assistenza, non basta fare un po’ di beneficenza, questo non basta, questo forse è il primo passo. È necessario orientare l’attività economica in senso evangelico, cioè al servizio della persona e del bene comune. In questa prospettiva siete chiamati a cooperare per far crescere uno spirito imprenditoriale di sussidiarietà, per affrontare insieme le sfide etiche e di mercato, prima fra tutte la sfida di creare buone opportunità di lavoro. Pensate ai giovani, credo che il 40% dei giovani qui oggi sono senza lavoro. In un altro Paese vicino, il 47; in un altro Paese vicino, più del 50. Pensate ai giovani, ma siate creativi nel creare opportunità di lavoro che vadano avanti e diano lavoro, perché chi non ha lavoro non solo non porta il pane a casa ma perde la dignità! E a tracciare questa strada contribuiscono anche le iniziative di confronto e di studio, che realizzate sul territorio.
L’impresa è un bene di interesse comune. Per quanto essa sia un bene di proprietà e a gestione privata, per il semplice fatto che persegue obiettivi di interesse e di rilievo generale, quali ad esempio lo sviluppo economico, l’innovazione e l’occupazione, andrebbe tutelata in quanto bene in sé. A questa opera di tutela sono chiamate in primo luogo le istituzioni, ma anche gli imprenditori, gli economisti, le agenzie finanziarie e bancarie e tutti i soggetti coinvolti non devono mancare di agire con competenza, onestà e senso di responsabilità. L’economia e l’impresa hanno bisogno dell’etica per il loro corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica che ponga al centro la persona e la comunità. Oggi rinnovo a voi il mandato di impegnarvi insieme per questa finalità; e porterete frutti nella misura in cui il Vangelo sarà vivo e presente nei vostri cuori, nella vostra mente e nelle vostre azioni.
Affido voi, il vostro lavoro, le vostre famiglie e i vostri dipendenti alla protezione di san Giuseppe lavoratore, il grande san Giuseppe. Invoco su ciascuno la benedizione del Signore. E vi chiedo per favore di pregare per me: vi do anche questo lavoro!

31. Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) / Solennità di Tutti i Santi -- 1 novembre 2015

Sculture di santi, cattedrale di Notre-Dame di Reims, Francia


In questa Domenica, solennità di tutti i Santi, la liturgia ci presenta il Vangelo delle Beatitudini. Gesù sale sul monte e così dice ai discepoli:
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati”.
La Chiesa celebra questa domenica, primo di novembre, la solennità di tutti i Santi, la giornata della santificazione universale. Il grido appassionato di Dio – che risuona già come un ordine dato agli Israeliti: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lev 19,1-2) – attraversa tutta la Scrittura e tutta la storia. La santità di Dio – nella perfetta comunione del Padre, Figlio e Spirito Santo – è racchiusa tutta intera in Gesù di Nazaret. Nel Mistero della sua Pasqua, passione, morte, risurrezione ed ascensione al Cielo, Egli fa dono all’uomo del suo Spirito di Santità che, dalla Pentecoste, rifluisce sulla Chiesa, sull’intero popolo di Dio. Ed in questi venti secoli di storia, la gloria di questa santità costituisce la testimonianza più preziosa, la garanzia più certa della presenza e dell’azione di questo Spirito tra i suoi figli. Se pure tante pagine della sua storia sono state macchiate dalla debolezza, quando non dalla malvagità di figli della Chiesa, a mostrare che il Battesimo non ci strappa magicamente dalla nostra natura umana decaduta, i santi accompagnano ogni giorno di questa storia con la fede, cioè con la fedeltà di Dio, e con la sua carità divina, con la sua “speranza contro ogni speranza”. Ed i poveri in spirito, i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace… – delle beatitudini che oggi risuonano nelle parole del Vangelo – sono davvero coloro che, con il loro sangue e spesso nel silenzio più totale, hanno fatto la storia dell’umanità. (Pasotti)
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Commento al Vangelo della 31. Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) / Solennità di Tutti i Santi -- 1 novembre 2015


Una speranza invincibile e la forza infinita d'una chiamata: la santità è un'elezione, un esser messi a parte per qualcosa di speciale, per abitare la Terra. I santi sono gli eredi della Terra dove scorre latte e miele. Il Cielo. Tra le pieghe della festa di oggi, dietro la santità si scorge la storia di un Popolo. Ad ogni beatitudine si odono le eco dei passi degli umili, dei piccoli, di un resto. I riscattati che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno rese candide nel sangue dell'Agnello.
E' Lui che, vittorioso sul peccato e sulla morte, precede i suoi nella Galilea che è il mondo in attesa del Regno. E' Lui il Santo che ci fa santi. Oggi siamo tutti dinanzi alla Terra, come Giosuè. Le parole del Signore ci invitano a non aver paura, ad essere coraggiosi e forti, a non scoraggiarci dinanzi alle difficoltà, ai popoli che abitano la nostra eredità.
A non aver paura di noi stessi, dei nostri peccati, dei nostri limiti, delle nostre debolezze, dei nostri difetti. Sono tanti e numerosi come i Popoli che abitavano la Terra che si dischiudeva dinanzi agli occhi di Giosuè. "Forza e coraggio" gli ripeteva il Signore sull'erta di quel monte, "perché il Signore è con te ovunque tu vada". Forza e coraggio sono l'altra metà della povertà. 
Come Giacobbe dinanzi al guado dello Jabbok, solo e in trappola, e quel fiume oscuro che lo aspettava, come un presagio di morte. Giacobbe era un peccatore, ha mormorato e giudicato, ha ingannato e rubato, ma portava sigillata nel fuoco la sua primogenitura; ha lottato con Dio, non ci stava a «perdere la vita». Poi un colpo secco all’anca e non era più quello di prima. Umiliandolo a zoppicare Dio ne aveva fatto un santo. Ora Giacobbe conosceva la propria debolezza benedetta con un nome nuovo, «Israele», che significa «Forte con Dio». Ecco dunque un santo, il più debole con il Più forte
Tu ed io che trasciniamo i piedi, incapaci di tutto ma aggrappati alla sua misericordia. Lo abbiamo visto anche un istante fa, quando per nulla abbiamo sbranato il fratello, per poi chiedergli balbettanti perdono. Ma solo chi ha conosciuto davvero, come Giacobbe, la propria debolezza, può abbandonarsi con una sconfinata fiducia in Colui che lo chiama.
E' la fede che coniuga nei santi la forza e il coraggio. Essi vivono aggrappati a Colui che ha legato il demonio, ha sconfitto uno ad uno i Popoli che usurpavano l'eredità, e con Lui entrano a prenderne possesso. Un Popolo santo, separato, consacrato in Colui che lo ha amato di un amore unico, gratuito, infinito. 
Il Signore ci annuncia oggi la beatitudine di chi abita, felice, nella sua Terra. Che ci è data, come primizia, nella Chiesa, il mistero d'amore e comunione che supera ogni nostro limite carnale. Anche oggi, come ad ogni mattino che si apre dinanzi a noi, ci troviamo sul monte con il Signore. E su quel monte ammantato dalla rugiada d'ogni alba della nostra vita, Lui ci chiama ad entrare nella Sua eredità. Ogni aurora che ci accoglie ci dona il Suo Spirito Santo che ci fa figli, coeredi di un Destino meraviglioso.
Lo Spirito di fortezza perché non cediamo al timore dinanzi alla Croce che ci attende. Ecco la nostra vita santa che ci fa santi. Ogni evento in cui ci imbattiamo, ogni persona che incontriamo è la Terra preparata per noi, la nostra eredità. Nostra moglie oggi, così come si sveglierà; nostro marito è la terra che ci farà sante quando tornerà nervoso e intrattabile dal lavoro; nostro figlio che si è appena messo un orecchino; nostra figlia che ha sbattuto la porta e se ne è andata in discoteca; nostra suocera che non ce ne fa passare una, con quel sorrisetto ironico che dice tutto; il collega che ci ha infilzato calunniandoci con il capo reparto. E il cancro che ci ha visitato, la cassa integrazione, lo sfratto.
Ogni fatto della nostra vita ci fa santi, perché in ciascuna ora che segna le nostre esistenze Lui ci precede, combatte per noi come già ha fatto innumerevoli volte nel passato; anche quando eravamo schiavi del peccato in Egitto dove ci ha salvati, redenti, amati d'un amore eterno. Lui ci precede nella camera operatoria e nel dialogo serrato con i figli; allora, perché temiamo di vivere e chiamare gli altri a vivere una vita santa, piena, compiuta nell’amore? Perché ci accontentiamo di galleggiare mentre possiamo essere santi?
La sola possibilità per essere felici, noi e la nostra famiglia, i fratelli, gli amici è lasciare che Dio ci faccia santi, conducendoci nella Terra dove consegnarci per amore, nel compimento della promessa che ci ha chiamati alla vita. Desideri la santità per tuo figlio? O piuttosto un lavoro, la salute e altre cosette così? Non desideri che conosca l’amore che lo perdona e lo trasforma in figlio di Dio, in un santo offerto al mondo?
Chi di noi, oggi, non sta vivendo almeno una delle situazioni descritte dalle “beatitudini”? Ma forse non pensiamo d’essere “beati”. Sfortunati, vittime di un’ingiustizia, ma “beati” perché “piangiamo, abbiamo fame, siamo perseguitati, ci insultano e calunniano”? Per favore, chi pensa che tutto questo sia la felicità è da rinchiudere in un manicomio criminale.
Ma Gesù ci annuncia proprio questo. Non solo, ma ci svela che siamo “noi” questi “beati”. Sei beato e non te ne stai rendendo conto. Guarda bene tuo marito, tua moglie; fissa tuo figlio. Guarda te stesso, ma guardati bene.  E lascia che le parole di Gesù illuminino i volti, e raggiungano le storie di ciascuno, scovando anche nella tua i momenti in cui hai visto Lui operare in te. L’hai sperimentata la beatitudine, ma forse non ci hai fatto caso o il demonio te l’ha cancellata dalla memoria. La stai sperimentando, ma forse ti sembra la cosa più naturale del mondo.
Quando? Ora, che sei ancora sposato, ed è in virtù della sola Grazia di Dio che ha reso “vita” possibile, e anche felice, quello che il mondo, la carne e il demonio dicono essere un assurdo. Hai gustato la beatitudine quando hai perdonato chi ti aveva tolto l’onore. Di certo la tua beatitudine si specchia nel sorriso di tuo figlio, che è la vittoria di Cristo sui tuoi peccati, sull’egoismo, l’avarizia e la concupiscenza.
Ciò significa che la “beatitudine” per la quale siamo nati sgorga dalla gratitudine. Chi oggi non è grato a Dio, sta perdendo la propria felicità, quella che gli spetta. E’ frustrato, vive contro se stesso. Ma la gratitudine non si compra al mercato. E’ il frutto di un lungo cammino di “purificazione” dello sguardo “del cuore”; è la meta di un serio percorso di conversione alla verità per diventare “poveri in spirito”.
E’ il figlio di Dio gestato nel seno della Madre Chiesa, che, illuminato dalla Parola spalmata sui fatti della propria storia, ha sperimentato l’amore di Dio e per questo lo vede in tutto. E per tutto è grato, rende grazie, vive in pienezza l’eucarestia, che non a caso era l’ultimo evento vissuto da un catecumeno la notte di Pasqua, dopo aver ricevuto il battesimo e la cresima.
Era entrato nella terra della gratitudine, immagine del Paradiso. Gustava le delizie dello Shabbat, del riposo che è la contemplazione dell’opera di Dio nella propria vita. Poteva cantare e far festa, “rallegrarsi ed esultare” perché sapeva che proprio la persecuzione certificava la sua appartenenza a Cristo, che stava vivendo la sua morte e la sua resurrezione.
Come non essere grati, ed esplodere in una liturgia di ringraziamento per essere stati “separati” dal mondo per vivere la vita di Cristo! Come non essere felici per essere stati strappati dal peccato e dall’infelicità per gustare il perdono che ricrea! Come non desiderare questa “beatitudine” per chi ci è accanto, per il mondo intero? Come non perdere la vita per annunciarla sino agli estremi confini della terra perché nessun uomo ne resti escluso?
Il Signore ha pensato a te e a me, ai nostri figli per condurci per mano al possesso della nostra eredità, la sua stessa santità. Lui, il Santo, ci ha scelti. Lui nella Chiesa illumina gli occhi della nostra mente per comprendere a quale speranza siamo chiamati, "quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi" . La speranza di esserne partecipi purifica i nostri cuori e le nostre menti e ci fa ogni giorno santi come Lui: poveri con Lui, afflitti con Lui, miti con Lui, affamati e assetati con Lui, puri, operatori di pace, perseguitati con Lui. Piccoli, deboli, pieni di difetti e di contraddizioni. Eppure santi.
Sino al giorno in cui saremo “eletti” a far parte del “Paradiso”. Nel tempo e nello spazio, sulla terra, ci prepariamo a vederetrasformata la chiamata in elezione attraverso il cammino che ci offre la Chiesa. Perché è pur vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti. La santità è una cosa seria, è soprattutto una missione per salvare i peccatori.
Per passare all’altra riva, alla “terra celeste”, abbiamo bisogno di fratelli maggiori che ci confortino, ci mostrino le tracce disseminate sulla strada della santità. Di testimoni della fedeltà di Dio, come lo fu Elisabetta per la Vergine Maria. Per questo celebriamo oggi la santità di tutti coloro che ci hanno preceduto in questo cammino, che hanno gustato le primizie della Terra promessa nelle pieghe dell'esistenza quotidiana. Celebriamo la comunione con i santi, nella quale possiamo, in un certo senso, “approfittare” della loro santità per imparare a viverla nella nostra storia. 
Come accade in una famiglia dove i genitori e i fratelli maggiori mettono a disposizione i loro beni per i fratelli più piccoli, che non possono sostenersi da soli. Così “funziona” anche la comunione nella Chiesa terrestre, nelle nostre comunità concrete: nessuno dice “sua” la Grazia che riceve, ma la mette a disposizione per il bene di tutti. Così siamo uniti ai santi che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato la veste con il sangue dell’Agnello, e vivono nel Cielo. Ci donano le primizie, per darci forza e coraggio nel viaggio e nella battaglia per raggiungerli.
Affrettiamoci dunque ad entrare oggi nella Terra santa che ha allargato i confini sino ad includere anche la città della nostra vita. L’ha conquistata Cristo con la sua Croce e la sua risurrezione! La nostra vita, il nostro corpo, tutto di noi è preparato per divenire il tempio santo per la sua santità. Consegniamoci oggi e ogni giorno a Cristo, così come siamo, perché faccia di noi un’immagine fedele del Santo che ci ha chiamato.

La carne delle donne non è mercanzia



Abbiamo sempre scritto che l’utero in affitto è un abominio. Per capirlo non serve essere né di destra né di sinistra, né occorre essere credenti o meno. Basta informarsi, capire di che cosa si tratta, non farsi ingannare dalla pubblicistica che cerca di far passare la maternità surrogata come un atto d’amore e fratellanza. Tutte balle.
È notizia di questi giorni che, dopo la Thailandia e il Nepal – casi di cui vi avevamo già parlato –, ora anche l’India, uno dei paesi in cui la pratica è tollerata, fa marcia indietro. La Corte Suprema, infatti, aveva spinto il governo ad approvare una legge che la rendesse illegale. Tutto era nato dalla causa di un avvocato, Jayashree Wad, che si era rivolto alla Corte per denunciare il dilagare di un business che ha ridotto il paese a una “fabbrica di bambini” alimentando il “turismo procreativo”. E la Corte, il 15 ottobre, ha emesso una sentenza in cui dice che «la surrogazione commerciale non dovrebbe essere ammessa, ma nel Paese va avanti. Il governo (centrale) sta permettendo il traffico di embrioni umani. Sta diventando un business che si è evoluto in turismo procreativo». Ora il governo di Narendra Modi ha chiesto alla stessa Corte di bandire la maternità surrogata, limitandola alle sole coppie indiane.
PUNIRE CHI CREA IL MERCATO. Oggi su Avvenire appare un’intervista a Sylviane Agacinski. I lettori di Tempi conoscono questa intellettuale francese, femminista, di sinistra, moglie dell’ex premier socialista Lionel Jospin. Da anni, Agacinski non smette di denunciare all’opinione pubblica cosa sia veramente la maternità surrogata e ora ad Avvenire rivela essere sua intenzione indire per il 2 febbraio un convegno a Parigi per l’abolizione universale dell’”utero in affitto”. Il motivo è semplice: «Vogliamo che la legge protegga tutte le donne dicendo che la loro carne non è una mercanzia» e «occorre punire. Innanzitutto i professionisti che creano il mercato: avvocati, medici, agenti e intermediari. Poi, i clienti».
IL BAMBINO NON È UN PRODOTTO. «Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo – dice Agacinski –, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa».
LE DONNE SONO VITTIME. Le donne che accettano di portare in grembo figli che poi vendono ad altri, dice Agacinski, non sono «da biasimare», la colpa è degli «Stati che non mettono nessun limite ai mercati». Queste madri, aggiunge l’intellettuale francese, accettano «un mercato crudelissimo, spinte dal bisogno, oppure dal marito, come avviene in India. Devono così sacrificare la loro intimità e la loro libertà. Non dimentichiamo che la vita personale di una madre surrogata è strettamente regolata e controllata: la sua vita sessuale, il suo regime dietetico, le sue attività… Durante nove mesi, vivono al servizio di altri, giorno e notte. Queste donne sono vittime di sistemi che non hanno contribuito a creare. Se il mercato della procreazione non fosse costruito da tutti quelli che vi traggono un lucro enorme, ovvero le cliniche, i medici, gli avvocati e le agenzie di reclutamento, a nessuna donna verrebbe mai in mente di guadagnarsi da vivere facendo bambini».

Tempi

Parto Anonimo e Diritto alle origine biologiche





diritti-cedu.unipg.it PARTO ANONIMO E DIRITTO A ...

www.comitatodirittooriginibiologiche.com/parto%20anonimo.pdf
La legislazione sul parto segreto e sul diritto a conoscere le proprie origini negli Stati europei – 3. Il parto anonimo in Italia – 4. Il diritto a conoscere le proprie ...

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Parto anonimo e diritto alle origini - Stefania Stefanelli

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Stefania Stefanelli. Università degli Studi di Perugia. Diritto di famiglia. Stefania StefanelliParto anonimo e diritto alle origini. Stefania Stefanelli. Università degli .

Gli errori di Michela Marzano sull’uomo, su Dio e....



di Emiliano Fumaneri

Molti l’avranno certamente vista in televisione a Open Space, impegnata a polemizzare con Filippo Savarese (al quale ha dato apertamente del bugiardo per poi scrivere sprezzante su twitter, poco prima di bloccarlo, che «”bugiardo” non è un giudizio di valore, è la descrizione di chi mente, ossia falsifica la realtà; basta non mentire!»), Maria Rachele Ruiu e Roberto Formigoni. Parlo di Michela Marzano, classe 1970, romana trapiantata a Parigi, dove insegna filosofia all’Università “René Descartes”, dopo studi prestigiosi presso la Scuola Normale di Pisa e La Sapienza di Roma. Nel 2011 diventa direttrice del Dipartimento di scienze sociali della Sorbona. All’attività accademica affianca quella giornalistica come editorialista di “Repubblica”.
E non solo: Michela Marzano, in omaggio alla tradizione platonica del “philosophe roi” (per Platone ci sarà un buon governo solo quando i filosofi diventeranno re o i re diventeranno filosofi), è riuscita anche a ritagliarsi uno spazio in politica facendosi eleggere deputata del Partito Democratico nella Circoscrizione I Lombardia. In Parlamento tra le altre cose si è segnalata per l’attivismo nel campo dei “nuovi diritti” e per il contrasto a omofobia e transfobia, a cominciare dal ddl Scalfarotto che l’ha vista tra le promotrici.

Da poco è uscito in libreria anche un suo saggio intitolato «Papà, mamma e gender». Il libro, scrive la Marzano nelle prime pagine, nasce per rispondere all’allarmismo sociale diffuso a piene mani da una truppa di scaltri manipolatori delle menti che ha infestato il dibattito pubblico mettendo in circolazione rappresentazioni caricaturali e propagandistiche degli studi sul gender che, in verità, non si prefiggono altro che il nobile scopo di combattere la discriminazione perpetrata ai danni di chi «viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».
Così da un lato si è creata nel paese una profonda frattura. Una guerra ideologica che vede schierate due fazioni contrapposte. Da una parte della barricata abbiamo un Fodria sgangherato: l’Armata Brancaleone degli «essenzialisti», convinti che esista una definizione unica e assoluta del Bene. Il Family Day del 20 giugno non è stato altro che la manifestazione più eclatante della chiamata a raccolta di questa specie di orda fanatica (una mobilitazione «disperata e disorganizzata» l’ha definita il sociologo Giuseppe De Rita interpellato dall’Huffington Post) impegnati a combattere con cieca dedizione un progetto di indottrinamento dei bambini volto a scardinare i valori famigliari e a banalizzare ogni comportamento sessuale.
L’essenzialismo, dice la Marzano, è quella corrente che assolutizza il dato biologico e «considera le differenze esistenti tra l’uomo e la donna come naturali e immutabili». Partendo dal presupposto che la differenza sessuale sia inscritta nel corpo, l’essenzialista ne deduce che essere uomo o donna coincide con l’essere maschio o femmina, cancellando così ogni influenza culturale nella determinazione dei ruoli maschili e femminili.
Dall’altro lato della barricata abbiamo invece coloro che vengono falsamente etichettati dalla barbarie familista come sostenitori del «relativismo etico», ma che in realtà sono solo padri e madri, sorelle e fratelli di persone omosessuali che si confrontano direttamente col dramma di una persona emarginata per il suo orientamento sessuale differente.
Dunque il quadro a tinte manichee è questo: il conflitto tra una canea berciante di oppressori ideologizzati e una comunità sofferente di dannati della terra. Carnefici e vittime, ruoli già assegnati in partenza. Fin dalle prime pagine del libro emerge la spiccata inclinazione della filosofa a fare uso della suggestione sentimentalistica.
Michela Marzano non critica soltanto il popolo del Family Day e le varie realtà pro-family (reti come la Manif pour tous e le Sentinelle in piedi, associazioni come i Giuristi per la Vita e Notizie ProVita, giornalisti come Costanza Miriano e Mario Adinolfi, ecc.) ma anche Judith Butler, la teorica del genderismo radicale. Alla Butler rimprovera di aver fatto coincidere l’orientamento sessuale con l’identità di genere. La Butler voleva rifiutare la prospettiva in virtù della quale se una donna è attratta da un’altra donna (orientamento sessuale), allora sarebbe “meno donna” (identità di genere) delle donne attratte dagli uomini. Di conseguenza le donne con orientamento omosessuale sarebbero non-donne o non-persone destinate ad essere oggetto di discriminazione e di emarginazione sociale. Per questo la Butler afferma che «il desiderio omosessuale terrorizza il genere». Ed ecco spiegato perché una femminista come Monique Wittig avesse ipotizzato una società senza sessi: la donna è tale, secondo questo punto di vista, solo se stabilisce un legame affettivo-sessuale con un uomo. Questa relazione però è asimmetrica, è un rapporto di sudditanza nei confronti della dominazione maschile. La liberazione della donna allora passa attraverso il lesbismo. Ecco perché, conclude la Wittig, «le lesbiche non sono donne».
Detto in altri termini, l’errore delle due pensatrici è il «riduttivismo», che designa l’atteggiamento incline a semplificare, depauperare, impoverire arbitrariamente la realtà umana, dichiarando la superfluità o l’insignificanza di cose e valori che invece esistono e hanno significato. Quello del riduttivista è uno sguardo mutilatorio che riduce la persona ad alcuni elementi accessori della personalità.
Questa posizione si può riassumere con una frase, dice Michela Marzano: “sono lesbica, quindi non posso essere una donna”. Ma la filosofa trapiantata a Parigi non si ferma qui. Secondo lei la tesi del genderismo radicale non è altro che la versione speculare di alcune posizioni cattoliche, che invece possono essere compendiate dalla frase: “sono una donna, quindi non posso essere lesbica”. Non si capisce peraltro quali siano queste fantomatiche “posizioni cattoliche” visto che la Marzano non indica un qualche riferimento utile a identificarle.
Alquanto sofistico appare il suo tentativo di negare che esista una teoria o una ideologia del gender: esistono solo i “gender studies”, afferma la studiosa. L’espressione “ideologia del gender” non corrisponde a un concetto univoco e definito. Esistono tante varianti della teoria del gender, dunque la reductio ad unum è arbitraria. Non si può parlare di un’unica ideologia gender, ma di un insieme eterogeneo di posizioni. L’obiezione in sé è banale: gioca sulla confusione tra essenza e esistenza. Accoglierla sarebbe come negare l’esistenza di una dottrina comunista per via della presenza al suo interno di dottrine discrepanti (come ad esempio capitava in Francia con la dottrina di Althusser e quella di Garaudy), dimenticando però che l’esistenza di queste varianti non comprometteva l’essenza dell’ideologia comunista. Semplicemente le varianti fanno parte della varietà nascente da ogni elaborazione che poggi su un’idea di base, così come anche nel pensiero cristiano esiste una varietà di scuole filosofiche o teologiche che condividono alcuni princìpi basilari e disputano sul non essenziale. Lo stesso vale per il femminismo (che si suddivide nelle due correnti del femminismo dell’«uguaglianza» e della «differenza») e per gli “studi di genere”. Senza contare che un conto sono gli studi accademici, un altro il loro uso politico.
La tesi della Marzano è questa: il sesso non coincide con i ruoli di genere né con l’identità di genere. E questo non crea alcun problema particolare, purché la distinzione tra sesso e genere non si tramuti in separazione. Se i ruoli di genere non sono una derivazione strettamente necessaria del sesso biologico (come vorrebbe un certo determinismo biologistico), per cui possono assumere forme e realizzazioni storiche differenti a seconda delle circostanze, allo stesso modo non sono nemmeno indipendenti dalle inclinazioni sessuali.
Per rendersene conto basterebbe prendere in mano il libro scritto a quattro mani da Tonino Cantelmi e Marco Scicchitano («Educare al femminile e al maschile»), che riporta una serie di studi scientifici attestanti una serie di differenze innate e sostanziali tra maschile e femminile a livello psicologico e neurobiologico. Oltre al punto di vista anatomico, dove la differenza è chiaramente evidente negli attributi sessuali più espliciti, esiste una differenza anche nell’anatomia cerebrale e a livello del sistema endocrino. Questo fa sì, ad esempio, che in generale le bambine vengano al mondo con una più spiccata predisposizione alla relazione.
Come si può negare che questa differenza innata tra maschile e femminile nel corso della storia abbia avuto una forte influenza – anche se non deterministica, cioè univoca e necessaria – sullo sviluppo dei ruoli di genere?
Gli autori, si badi bene, non sostengono affatto che sesso e genere coincidano. Ma la non coincidenza non equivale affatto a una separazione. Piuttosto si tratta di ordini di realtà distinti eppure comunicanti. Così a una condizione innata e naturalmente data come il sesso (declinabile al maschile o al femminile) si aggiunge la dimensione culturale, psichica e relazionale: il genere. Si nasce biologicamente maschio o femmina. Si diventa uomo o donna nel corso dello sviluppo, confrontandosi con l’esperienza, l’educazione, l’interazione sociale.
Tra genere e sesso sussiste una profonda relazione organica, analoga a quella che lega il corpo allo scheletro. Sull’humus biologico, sul substrato del sesso si sedimentano i ruoli di genere, che perciò hanno indubbiamente un margine di variabilità legato alle circostanze storiche e culturali. Esiste inoltre una variabilità individuale elevatissima per cui, lungi dall’accreditare qualunque “essenzialismo”, non fa alcun problema che ad alcuni bambini possa piacere giocare con le bambole e ad alcune bambine piaccia giocare a calcio. Purché si ricordi che si tratta pur sempre di variazioni contingenti e particolari su un tema predefinito, e dunque essenziale.
Il punto di non ritorno pedagogico si oltrepassa quando la flessibilità diventa intercambiabilità, quando l’eccezione diventa la norma, quando il particolare diventa universale. In breve, quando le costanti documentate e riconoscibili che caratterizzano il maschile e il femminile non vengono valorizzate, cioè quando la loro dimensione viene disconosciuta.
Contrariamente a quanto sostiene Michela Marzano, affermare che le differenze dei ruoli di genere hanno «anche» un fondamento biologico non equivale a dire che hanno «solo» un fondamento biologico (come vorrebbe un certo determinismo biologico). Così come nessuno nega i soprusi, le ingiustizie e le discriminazioni perpetrate nel corso della storia dal determinismo biologico. Ben vengano dunque le distinzioni che smantellano ruoli troppo rigidi e gabbie sociali quali erano diventati i ruoli del maschile e del femminile negli anni ‘70.
Ma il guadagno in flessibilità rischia di essere perso dal rischio di sprofondare nella confusione identitaria più totale. Non tenere conto delle differenze biologiche tra maschi e femmine e ritenere il genere come una realtà culturale completamente slegata dal sesso, intercambiabile e totalmente arbitraria rischia di generare non persone accoglienti e rispettose della diversità, bensì individui privi di un centro psichico, cioè di una forma definitiva e armonica che li rende capaci di accogliere l’altro e la diversità senza paura.
In maniera analoga, non si capisce quale necessità imponga di contrastare il riduttivismo sovvertendo gli orientamenti sessuali. Sì, perché in questo programma di sovversione consiste la proposta di Michela Marzano: «lottare contro le discriminazioni significa innanzitutto smetterla di pensare che esista un orientamento sessuale “buono” e un orientamento sessuale “cattivo”». Bisogna quindi equiparare effettivamente eterosessualità e omosessualità, perché non esiste un orientamento sessuale normale: «l’omosessualità, esattamente come l’eterosessualità, è solo un orientamento sessuale (...) e quindi un modo di essere e di amare». È «qualcosa che non si sceglie, non si cambia, non si cura» perché «fa parte della propria identità».
Qui si capisce che il vero obiettivo è ideologico: scardinare quello che alcuni ideologi denominano “eterosessismo”, quel sistema che prescrive la “norma eterosessuale” attraverso il linguaggio e il senso comune.
La docente di filosofia insiste e si chiede: «Come si fa a educare all’uguaglianza e a lottare contro le discriminazioni – cosa su cui tutti sembrano d’accordo se non si promuove anche l’equiparazione di ogni orientamento sessuale smettendola di dire e insegnare che l’omosessualità è una deviazione rispetto all’eterosessualità? Come si possono combattere i cattivi stereotipi se non si fa lo sforzo di analizzare le modalità attraverso cui certi ruoli di genere stereotipati sono stati storicamente e culturalmente costruiti?».
Affermazioni che mirano ad accreditare la falsa tesi secondo la quale per combattere le discriminazioni e il bullismo occorre «decostruire gli stereotipi di genere, spiegare che l’orientamento sessuale non dipende dal sesso e insegnare che ci sono tanti modi diversi per diventare uomini e donne». Perseguire un simile scopo è come voler combattere la rigidità immettendo dosi massicce di confusione. Simili affermazioni appaiono anche di una superficialità unica, perché prendono sul serio quel simulacro di risolutezza che nel classico “bullo” nasconde profonda insicurezza e disistima di sé. Aggressività e violenza nel “bulletto” diventano maschera e scudo con le quali si difende dal mondo prima che il mondo possa deludere e fare del male. Il bullo è un insicuro, nient’affatto un “integrato”. È un orfano del nomos, della legge. Ha un bisogno disperato di qualcuno che metta dei limiti a un mondo che gli appare caotico, oscuro e pericoloso. L’unico modo che ha per dare coerenza a una personalità sconnessa è convogliare l’aggressività contro un bersaglio facile. Perciò è vile e aggredisce i più deboli appoggiandosi al gruppetto. Ignora il vero coraggio, quello della forza che sa sacrificarsi per proteggere l’inerme e che Simone Weil chiamava «attenzione creatrice».
In breve, questo piccolo prevaricatore ha bisogno di un’autorità paterna che, liberandolo dalla paura e dalla schiavitù delle pulsioni aggressive, gli permetta di differenziarsi dalla massa indistinta della gang, consentendogli di acquisire spessore e individualità. Solo così l’autorità, che non a caso viene da augere, crescere, assolve una funzione liberatoria e benefica. La gang in cui il bulletto tiranneggia evoca la fratellanza dei pari uniti dalla legge orizzontale in contrapposizione a quella verticale del padre. Sintetizzando, è un brulicare di pulsioni antipaterne.
Una pedagogia decostruzionista, volta a disfare anziché edificare, quali disastri potrebbe causare in un’età di per sé connotata da fragilità psichica, che avrebbe piuttosto bisogno di riferimenti stabili? Nell’età della vita in cui occorre cominciare a consolidare le fondamenta si tempestano invece gli allievi di dubbi sulla propria identità. Moltiplicando le zone d’ombra in chi comincia appena ad affacciarsi ai lumi della ragione non si rischia di precipitarlo ancora di più nel caos?
Si potrebbe anche smetterla col riduttivismo. Invece che decostruire ruoli e stereotipi si potrebbe evitare di ridurre la persona umana al suo orientamento sessuale, quale che sia, e impostare un’educazione basata sulla dignità di ogni singolo individuo.
Allo stesso modo, si potrebbe pure ricordare che lo stereotipo deve essere preso cum grano salis, e che più si scende nel particolare e nel concreto, più le cornici generali devono farsi flessibili per accogliere l’individualità unica e irripetibile di ciascuno. Se il riduttivismo criticato dalla Marzano consiste nello schiacciare l’identità della persona sul suo orientamento sessuale, allora non sarebbe più opportuno insistere sul fatto che la persona non può coincidere con le sue inclinazioni sessuali, per cui chi ha un orientamento omosessuale non è meno uomo o meno donna di altri? No, per la Marzano la lotta contro la discriminazione e il bullismo omofobico passa attraverso il livellamento degli orientamenti sessuali, oltre che per la decostruzione dei ruoli di genere. Ciò, evidentemente, comporta di ricadere di nuovo nel riduttivismo. Non a caso l’autrice di «Sii bella e stai zitta» non nasconde la sua predilezione per il comunitarismo, quella filosofia che Pierre-André Taguieff ha accusato di coltivare un nuovo dogmatismo: l’utopia dell’abolizione totale e definitiva di ogni differenza tra i gruppi umani dalla quale, magicamente, dovrebbe sorgere la fratellanza universale.
Per la filosofa-parlamentare avere una inclinazione omosessuale o eterosessuale è perfettamente indifferente: «non è colpa di nessuno», sentenzia la deputata del PD che conclude all’insegna del più classico fatalismo: «È la vita. E, in fondo, va bene così». Anche diventare o non diventare madre è semplicemente «qualcosa che accade, oppure no». Ci si incontra tra persone, ci si ama. Ci sono le «opportunità» e il «caso». Avere figli o non avere figli è solo «uno dei tanti elementi della vita». Niente vergogna né orgoglio. Una vena qualunquistica che rasenta la banalità e affiora sovente nel libro: non ci sono scelte migliori o peggiori, buone o cattive. Tutto capita un po’ così, per qualche strano gioco del destino. Insomma, una vera apologia del caso, per dirla con Odo Marquard.
Inutile dire che la Marzano, anche se afferma di non pensare che «tutto si equivalga», plaude al relativismo familiare affermando la necessità di «trovare una soluzione alle molteplicità di famiglie esistenti». Ma non si comprende in base a quale parametro si possa sostenere che “non tutto si equivale”, visto che la sua unica preoccupazione appare quella di insistere sull’impossibilità di stabilire una gerarchia tra “famiglie”. Non è nemmeno possibile compararle, afferma lei stessa.
In realtà il criterio c’è e si chiama differenza sessuale, ma la Marzano lo ignora perché accogliere un simile principio contrasterebbe col presupposto implicito di tutto il suo discorso, cioè che essere famiglia è sinonimo di sentirsi famiglia. Non è più la differenza sessuale la condizione della famiglia, bensì l’orientamento sessuale. Di conseguenza la base della famiglia non è più una logica binaria, dicotomica o qualitativa (maschile-femminile), ma una logica plurale, quantitativa e numerica. Gli orientamenti sessuali infatti sono molteplici: eterosessuale, omosessuale, bisessuale, a-sessuale, per non parlare delle inclinazioni più oscure e abnormi (sadismo, feticismo, masochismo, anche la pedofilia). L’inclinazione sessuale è tendenzialmente cieca e perciò plurale: designa in sostanza l’oggetto verso il quale il soggetto si sente sessualmente attratto. Ma senza una natura delle cose, senza un ordine in base al quale gerarchizzare le inclinazioni, gli orientamenti sessuali diventano equivalenti. Si capisce subito perché sia impossibile fondare la famiglia sul solo orientamento sessuale. Senza una “forma” propria anche la sessualità non resta che materia indeterminata, pura potenza che può essere plasmata assoggettandola alle forme che intendiamo darle, come se fosse «materiale» inanimato.
Assieme al fatalismo e alle dubbie speculazioni sulla differenza sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale, la Marzano mostra anche di condividere un innatismo totalmente postulatorio, cioè senza prove. Come quando, nell’accennare al transessualismo, parla di un «brutto scherzo della natura» per cui i transessuali «sentono fin dall’inizio di essere prigionieri di un corpo sbagliato» e sono condannati a «ritrovarsi fin dalla nascita all’interno di un corpo che non corrisponde a quello che provano dentro».
Non si capisce su che basi scientifiche poggino affermazioni come queste. L’American Psychological Association, che Michela Marzano cita spesso e volentieri ma non sempre a proposito, ha pubblicato sul suo sito un documento intitolato «Answers to Your Questions About Transgender People, Gender, Identity, and Gender Expression»Il documento, quando passa alle possibile cause del transgenderismo, attesta quanto segue: «Non c’è un’unica spiegazione del motivo per cui alcune persone sono transgender. La diversità delle espressioni e delle esperienze transgender contrasta con qualunque spiegazione semplicistica e unitaria. Molti esperti credono che fattori biologici come le influenze genetiche e i livelli degli ormoni prenatali, le prime esperienze, e le successive esperienze nell’adolescenza o nell’età adulta possano tutti contribuire allo sviluppo di identità transgender». Come si vede l’APA non parla affatto di una origine innata, bensì di una interazione più complessa di diversi fattori (ambientali, cognitivi e biologici). Quindi allo stato attuale delle conoscenze non si può affermare che “trans si nasce”.
Stupisce riscontrare un atteggiamento così anti-scientifico in un libro che si prefigge, non senza una nota di pedanteria, di apportare il lume della ragione in un mondo dove proliferano l’oscurantismo (cattolico, il va de soi) e la barbarie argomentativa (degli anti-gender, che poi sono sempre i soliti oscurantisti cattolici). Come vedremo più avanti, questa mistura di fatalismo e di atteggiamento anti-scientifico ha una sua spiegazione.
Prima però conviene rivolgere l’attenzione al capitolo intitolato «In principio era il gender», che contiene una serie di considerazioni sui limiti della tolleranza e della libertà d’espressione. Speculazioni che lasciano una certa inquietudine, in considerazione della loro provenienza dalla stessa parte politica che ha appoggiato una proposta di legge liberticida come il ddl Scalfarotto. La filosofa si chiede perché mai una legge contro l’omofobia e la transfobia dovrebbe restringere la libertà d’opinione e d’espressione. In fondo lo scopo è solo estendere la legge Mancino di modo che punisca anche le discriminazioni e gli incitamenti alla violenza o all’odio contro omosessuali e transessuali. «Nessuno sarebbe punito nel momento in cui esprime liberamente le proprie opinioni», chiosa rassicurante, «ma solo quando, confondendo l’opinione con l’insulto, considererebbe legittimo trattare omosessuali e trans come “perversi”, “anormali”, “contro natura” ecc.».
Peccato che da qualche tempo sia invalsa la poco rassicurante abitudine di usare l’epiteto di “omofobi” per designare tutti coloro che esprimono liberamente - magari nelle piazze, come fanno le Sentinelle in Piedi - la loro opinione contraria al ddl Scalfarotto e al Cirinnà. È una tipica tattica per demonizzare il dissenso politico: evocare un concetto vago come quello di “omofobia” e usarlo come clava verbale per criminalizzare gli oppositori della propria agenda politica. Inutile ricordare poi come una delle critiche mosse al ddl Scalfarotto facesse leva proprio sulla vaghezza della definizione di “omofobia”, che di fatto viene demandata all’interpretazione giudiziale col forte rischio di esporsi a una giurisprudenza “creativa”. Per un giudice, perché no?, potrebbe essere “discriminatorio” anche solo affermare in pubblico che la famiglia nucleare (quella composta dall’unione stabile di un uomo e di una donna e dall’eventuale prole) non soltanto è una, sola e universale, ma che sia anche quella più conveniente alla natura dell’uomo in quanto uomo.
E a rassicurare gli animi non giova certo il discorso di Michela Marzano, che prosegue interrogandosi sui limiti della libertà d’espressione. Una delle caratteristiche del linguaggio, scrive, è la performatività: parlare non è solo esprimere un’idea, è anche dare avvio a un’azione che ha dei riflessi psicologici sull’interlocutore. La parola che uccide dell’hate speech(“discorso dell’odio”) può ferire intimamente l’altro. E allora, si domanda la filosofa-parlamentare, non è assurdo, in casi come questi, richiamarsi alla libertà d’espressione?
Verrebbe da chiedersi perché questo non possa valere anche per le Sentinelle in piedi, letteralmente tempestate da gragnuole di insulti durante le loro veglie e sui social network (per non parlare delle aggressioni fisiche). Ma evidentemente, in casi come questi, vale di più il motto orwelliano: “alcuni sono più uguali degli altri”.
Proseguendo nella lettura si arriva finalmente a capire che la libertà d’espressione per Michela Marzano ha un solo limite: l’intolleranza. «Tolleranza e intolleranza (...) si elidono reciprocamente». La tolleranza non può tollerare l’intolleranza, cioè il suo contraddittorio, la non-tolleranza, perché così facendo si voterebbe alla distruzione.
Il problema sorge nel momento in cui per la Marzano anche parlare a qualsiasi titolo di “natura” a riguardo dell’omosessualità può essere oltraggioso, dunque intollerante, dunque sanzionabile. E se qualcuno avesse dei dubbi residui sull’identità di questi “intolleranti” difensori dell’omofobia non deve fare altro che prendere visione dell’intervista rilasciata dalla filosofa al blog “La ventisettesima ora”. «Cosa c’è davvero dietro alle polemiche contro l’ideologia gender, allora?», le chiede la giornalista. La risposta è chiara: «Il rifiuto dell’omosessualità. L’omosessualità per queste persone resta comunque il grande tabù, la grande paura, la grande devianza». In altre parole, il vero motore del movimento anti-gender è l’omofobia.
Viene alla mente il commento ironico di Edmund Burke: «Non vorrei, per eccesso di tolleranza, ritrovarmi ad essere il più intollerante degli uomini». Giova ricordare che l’apologia dell’intolleranza in nome della tolleranza è un classico del giacobinismo e di ogni “partito di puri”. Non serve che richiamare il «dispotismo della libertà» invocato da Marat o l’aforisma del sanguinario giustizialista Saint-Just – conosciuto anche come l’«Arcangelo del Terrore» – che più di ogni altro simboleggia il terrore di marca giacobina: «pas de liberté pour les ennemis de la liberté» («nessuna libertà per i nemici della libertà»).
In questo caso come in altri l’influenza francese si fa sentire. «Il riconoscimento delle omosessualità deve necessariamente essere accompagnata dalla penalizzazione del discorso omofobo. Ora, la repressione non è efficace se non è accompagnata da misure pedagogiche che permettano di rovesciare l’attuale situazione di banalizzazione dell’omofobia o addirittura del suo incoraggiamento». È su questo edificante programma che si apre un opuscolo della rivista ProChoix consacrato all’omofobia («L’homophobie. Comment la définir, comment la combattre?»). Tra gli autori e i curatori spiccano il giurista Daniel Borrillo e il filosofo Didier Eribon, estensori e firmatari del Manifesto per l’eguaglianza dei diritti del 2004 che chiedeva l’introduzione del matrimonio omosessuale in Francia. Ci sono anche Pierre Lascoumes del CNRS e il sociologo Eric Fassin, attivi sostenitori del medesimo progetto.
Nonostante l’indole giacobina e la sua aspra critica alla Chiesa-istituzione, Michela Marzano non perde però occasione di esternare la propria cattolicità. A un certo punto nel libro confessa che Dio è il suo «orizzonte di speranza». Ma di che Dio si tratta? La filosofa dice che bisogna scegliere tra la «carità» e la «logica aristotelica» (che rappresentano la prima l’«inclusione», la seconda l’«esclusione»). Poco alla volta, il Dio di Michela Marzano comincia a svelarsi: è un Dio depauperato del Logos, che viene così assimilato al sacro precristiano, un sacro irrazionale che si manifesta in maniera radicalmente incomprensibile.
Contrapponendo Gerusalemme e Atene, in lei si palesa una fautrice della deellenizzazione del cristianesimo. Ma Benedetto XVI nella sua celebre lezione di Ratisbona aveva messo in guardia contro un simile dualismo: un Dio a-logico, un Dio senza logos è contrario alla natura del Dio cristiano. Il Dio-Logos è sempre lo stesso Dio-Agape: «il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore».
Dal rifiuto del Dio-Logos discende la dottrina del volontarismo o arbitrarismo divino. Secondo questa dottrina la volontà (dunque la carità) ha il primato sull’essere (dunque sul logos). Per Guglielmo di Ockham (1285-1347), forse il più noto volontarista del Medioevo, il valore delle cose in genere, e delle azioni umane in particolare, non dipende dalla loro “natura”. Non dipende da come esse sono, ma unicamente dall’arbitrio di Dio, il quale stabilisce che cosa vada considerato vero, giusto, buono, bello, ecc., e che cosa no. Sarebbe limitare la divina libertà credere che Dio debba riconoscere il valore intrinseco di una cosa. E perciò anche il premio o i castighi eterni non sono assegnati da Dio in considerazione della bontà intrinseca delle azioni, bensì secondo una regola da lui stesso stabilita, che l’uomo può conoscere solo per il tramite della rivelazione. Dio avrebbe potuto benissimo decidere di premiare le azioni che, secondo il decalogo, punisce, e viceversa. In tal caso i comandamenti sarebbero stati diversi. Tutte le leggi morali, secondo il volontarismo, sono sottomesse alla pura e semplice volontà divina: l’odio di Dio, l’omicidio, il furto, l’adulterio, sono cattivi solo in ragione del precetto divino che li proibisce. Ma sarebbero stati atti meritori se la legge di Dio li avesse comandati.
Non ci sono peccati da punire né meriti da ricompensare (come sostiene Michela Marzano, seppure in termini più “secolari”: non c’è nulla di cui vergognarsi ma neanche qualcosa di cui andare fieri). Se lo vuole, Dio può benissimo dannare gli innocenti e salvare i colpevoli: tutto questo dipende soltanto dalla sua volontà. Questa posizione sarà ripresa in epoca moderna da Cartesio, che giunge a dire che se Dio avesse voluto avrebbe potuto rendere meritorio perfino l’odio nei suoi confronti.
Per san Tommaso d’Aquino esiste al contrario un legame inscindibile tra l’essere e il bene. E questa posizione è quella accolta da Benedetto XVI, che sempre a Ratisbona rigetta l’«impostazione volontaristica» e l’immagine di «un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene».
Rifiutando come fa la Marzano il logos e ogni idea di natura umana, intesa come progetto dinamico e finalistico che presiede alla realizzazione della persona, l’unico significato che può assumere il termine “natura” è quello di “ciò che esiste”. A questa conclusione giunsero i commentatori islamici di Aristotele che per non conferire alla natura umana una qualche autonomia nei confronti dell’onnipotenza di Allah finirono per negare ogni causalità ed ogni capacità di agire agli enti creati: le cose accadono solo perché Dio ha voluto così (“Inshallah”). Allah, come il Dio-Arbitrio di Ockham, “ha fatto il fuoco caldo ma poteva farlo freddo”.
Questo atteggiamento filosofico ha almeno due pratiche conseguenze: il fatalismo (“se le cose vanno così, vuol dire che è giusto che vadano così”) e la negazione della scienza, vale a dire del tentativo di scoprire le leggi dell’universo, perché l’unica legge ammissibile è la volontà divina, che in un orizzonte secolarizzato come quello delle ideologie viene sostituita dalla volontà umana divinizzata. La volontà umana assume così l’essenza che il filosofo russo Vladimir Solov’ëv aveva identificato come la natura propria del Dio-Arbitrio della teologia islamica: una libertà infinita senza alcuna forma.
Queste conseguenze, risultanti dal rifiuto volontaristico del concetto di natura-progetto, ricorrono anche nel discorso di Michela Marzano: fatalismo e atteggiamento anti-scientifico. Due momenti che però, unendosi alla divinizzazione dell’arbitrio umano, assumono le vesti di una contraddizione irrisolta e insolubile nel suo pensiero, oscillante tra fatalismo e volontarismo prometeico.
Di marca volontaristica è anche il pensiero di Cartesio, che arriva a concepire un «homo duplex» nel quale «soma» (corpo, ridotto alla sua dimensione biologica) e «pneuma» (spirito, ridotto alla sua dimensione razionale-cognitiva) sono sostanze non soltanto distinte ma separate, del tutto eterogenee l’una dall’altra. Ciò pose un grave problema ai successori di Cartesio: come spiegare e giustificare il rapporto tra questi due mondi?
Una possibile soluzione al dilemma fu quella avanzata dagli occasionalisti, che cercarono di risolvere il dualismo tenendo ferma, anzi accentuando la distinzione cartesiana delle sostanze. Secondo l’occasionalismo soltanto Dio è la causa di tutte le cose e che le cause seconde o finite sono soltanto occasioni di cui Dio si avvale per realizzare la propria volontà. La dottrina dell’occasionalismo negava così all’uomo qualsiasi autonomia attribuendola a Dio.
L’occasionalismo si manifesta in maniera evidente quando la Marzano afferma che «in realtà non esiste alcun legame tra orientamento sessuale e sesso. E il fatto che si continui a credere che esista è la conseguenza della rigida codificazione dei ruoli di genere». O ancora quando scrive che «l’amore non ha né sesso né genere e che non si dovrebbe quindi gerarchizzarlo in base all’orientamento sessuale».
Marzano vede il corpo sessuato come semplice occasione di manifestazione dell’«amore», che appare più una specie di ibrido tra la Trinità cristiana e la Volontà Generale di Rousseau. Il corpo c’è, è un dato reale, dice la filosofa. Ma non si capisce come comunichino soma e psiche. Il corpo c’è, esiste, ma può assumere orientamenti sessuali e identità di genere variabili. E una tale variabilità dipende da fattori indeterminati: forse da fattori ambientali, culturali, da convenzioni sociali; o forse da fattori innati. Ma questo per Michela Marzano non sembra avere una importanza decisiva: per lei semplicemente “capita”, “accade” di ritrovarsi con una tendenza omosessuale o eterosessuale. Ed è indifferente avere l’una come l’altra tendenza. Non c’è nulla di cui vergognarsi ma neanche qualcosa di cui essere fieri. Di nuovo, siamo nel pieno dell’alternanza tra volontarismo e fatalismo.
Secondo l’antropologia cristiana, per contro, l’uomo è un’anima vivente, uno spirito incarnato («la carne è una fioritura dello spirito», scrive Jean Bastaire). E il corpo non è un accidente e nemmeno una sostanza separata dall’anima. L’uomo è creato corporeo, per natura, e il corpo è sessuato. Anima e corpo, seppure distinti, costituiscono una unità. Siamo agli antipodi di ogni ostilità contro il corporeo e il biologico (sarà la gnosi, in particolare quella catara, a considerare il corpo come una prigione dell’anima).
La Relatio finalis del Sinodo sulla famiglia, nell’affrontare il tema del gender, compendia in maniera mirabile la visione cristiana: «Secondo il principio cristiano, anima e corpo, come anche sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare» (n. 84).
All’opposto, il pensiero di Michela Marzano appare come una tipica espressione del dualismo post-cartesiano, nel quale il corporeo diventa una sorta di funzione in grado di assumere una serie di valori come nelle funzioni astratte della matematica. Ma cosa distingue il corpo così funzionalizzato da un mero contenitore se non c’è alcuna norma, se non c’è alcuna natura umana? Non siamo lontani da quanto teorizza Mario Perniola nel suo «Il sex appeal dell’inorganico», dove annuncia una sessualità «neutra» in cui il corpo è «veste, cosa» e l’essere umano diventa un «vestito senziente». Anche la parentela allora può diventare una funzione astratta (“genitorialità”) senza più alcun nesso con la biologia.
L’occasionalismo trionferà non a caso nell’epoca romantica, segnata dall’incapacità di stabilire un nesso efficace tra la realtà oggettiva e le proprie fantasie interiori. Senza logos, senza un ordine razionale della realtà il pensiero finisce per diventare suggestione sentimentale e mero emotivismo. E difatti in «Papà, mamma e gender» pullulano gli appelli al sentimento e alla commozione, si incorre spesso e volentieri in pensieri zuccherosi che fanno leva sulla stucchevole retorica del “caso pietoso”. Ogni vissuto, soprattutto se sofferto, è indubbiamente da rispettare e da accogliere senza giudizi, ma non può costituire la base di un discorso oggettivo-razionale, e tanto meno di un ordine giuridico-legislativo.
Occasionalista è stato anche il “decisionismo” di Carl Schmitt, per il quale parametro della vita politica è lo «stato d’eccezione». È l’eccezione l’unità di misura della realtà, non il caso normale, la media, la forma più tipica e regolare. Sovrana è dunque la decisione dei detentori del potere politico, una decisione arbitraria e puramente volontaristica che de-cide (cioè “taglia via”, secondo l’etimo). Non esiste un ordine delle cose in base al quale l’autorità decide per il bene o per il male: “auctoritas, non veritas facit legem”. L’origine di ciò che è “normale”, cioè della norma, è nell’eccezione.
La norma, cioè l’eccezione per Schmitt, proviene da una decisione – di per sé non ragionevole – di un’autorità sovrana concreta e personale. La decisione autoritaria non ha nulla del calcolo razionale: è un atto creativo che fa sorgere l’ordine dal nulla. Il mondo è caos, è irrazionalità intrinseca. La politica è una specie di confronto titanico con questo nichilismo essenziale. Schmitt lo ripete più volte: «sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione» e «la decisione è nata da un nulla». L’ordine sociale e politico, in assenza di ogni ordine dell’essere, nasce dunque da una decisione irrazionale. L’ordine è creato in maniera del tutto arbitraria dal disordine.
Non è molto diverso anche il pensiero di Michela Marzano: non esiste alcun ordine naturale (che non è sinonimo di naturalistico o biologistico), tanto meno nel campo della sessualità umana. Tutto è caos, anche in interiore homine: dentro di noi c’è un vuoto che talora si spalanca, una mancanza che può alimentare una sfrenata sete di assoluto, tale da «spingere a volere “tutto” e a possedere “tutto”». «C’è “qualcosa di assente” che ci perseguita», scrive citando Camille Claudel. Sovrana è solo la decisione irrazionale di chi ha il potere di farlo.
Michela Marzano si professa cattolica, ma il suo cattolicesimo non sembra andare al di là di un afflato poetico. C’è scissione tra la vita del pensiero e la vita emotiva. Il suo pensiero è venato di un nichilismo inconciliabile coi princìpi fondamentali della filosofia cristiana e con l’insegnamento della Chiesa. Che differenza abissale rispetto a Simone Weil, che non avendo accettato una simile scissione tra il suo pensiero e quello della Chiesa si fermò sulle soglie del battesimo pur aderendo col cuore a Cristo. Ma a Simone Weil non bastavano le ragioni del cuore. Rifiutò una conversione per la quale non si sentiva interiormente pronta perché le “raisons de sa raison” non coincidevano con le ragioni della fede cattolica. Di fronte all’onestà cristallina di Simone Weil (che comunque in punto di morte volle ricevere il battesimo) ci inchiniamo con devota commozione, come sempre si deve fare davanti al mistero sacro e insondabile della coscienza. Non possiamo fare altrettanto di fronte alle torbide ragioni di Michela Marzano, che ostenta una cattolicità del cuore che ignora però le ragioni della sua fede.
Su un punto concordiamo con lei: la fragilità delle persone deve essere sempre protetta, la sofferenza del corpo che svela la precarietà dell’esistenza necessita di cura e riparo, perché chinarsi con pietà sulla vulnerabilità è riconoscere l’umanità del nostro prossimo. Nessuno sofferenza umana pertanto va irrisa e dileggiata. Ma appellarsi alla fragilità non può diventare il pretesto per santificare l’arbitrio più o meno dolente, né la lotta alla discriminazione e alla violenza può costituire la base per creare altre ingiustizie, altre violenze, altre discriminazioni.
Istanze legittime ma risposte sbagliate. Questa ci sembra una buona sintesi del suo argomentare. Come quando nel contestare il cardinale Parolin, che aveva evocato lo spettro di una «sconfitta dell’umanità» al tempo del referendum irlandese sul matrimonio gay, la vediamo scrivere: «L’umanità la si sconfigge quando la si nega, quando si immagina di poter trattare un essere umano come una semplice cosa».
E su questo principio, sul rigetto della cosificazione dell’uomo siamo perfettamente d’accordo. Molto meno concordiamo sulle conseguenze pratiche. La filosofa-parlamentare infatti va oltre e scrive ancora: «Come si fa anche solo ad evocare la “sconfitta dell’umanità” quando in nome dell’uguaglianza di tutte e di tutti indipendentemente dalle differenze specifiche di ognuno, si prende sul serio la domanda di riconoscimento che ci viene rivolta ormai da troppo tempo da parte delle persone omosessuali? Comprenda chi può. E lo si spieghi poi anche a chi, nel Vangelo, legge solo messaggi d’amore». Ancora una volta si manifesta la cifra di un pensiero che contrappone amore e ordine, come se la caritascristiana negasse ogni cosmos.
Marzano, che non parla mai del diritto dei bambini ad avere un papà e una mamma, non sembra rendersi conto che riconoscere unioni basate sull’orientamento sessuale e non più sulla differenza sessuale equivale non solo a discriminare già in partenza i bambini privandoli di un padre o di una madre, ma vuol dire anche trasformare la procreazione inproduzione: gli esseri umani non saranno più generati secondo la carne, saranno prodotti secondo la ragione strumentale. Saranno progettati. Come cose, appunto. Non si accorge che questa dinamica “produttiva” è all’opera in pratiche come quelle dell’utero in affitto, che cosificano tanto la madre gestante, ridotta a mero contenitore biologico, quanto il bambino, che diventa una specie di individuo-patchwork, assemblato come in una catena di montaggio?
31/10/2015 La Croce quotidiano