domenica 25 ottobre 2015

Il Sinodo. NON aver paura del mondo..



Sbagliato aver paura del mondo
La Stampa
(Enzo Bianchi) Con questo sinodo il Papa ha saputo chiedere e iniziare a imprimere alla Chiesa cattolica un volto  sinodale, una modalità di essere comunità dei discepoli del Signore che si è rivelata capace di creare concordia e unità. Questo dato è ancor più importante rispetto alle stesse conclusioni sul tema della  «famiglia oggi» cui i vescovi sono giunti con un consenso di ampiezza forse da molti inattesa.  

Dobbiamo riconoscere l’esattezza dell’immagine usata da Francesco nel discorso per i  cinquant’anni dell’istituzione del sinodo dei vescovi: la piramide ecclesiale va capovolta perché in  alto sta la base, il popolo di Dio, e sotto sta il vertice, Papa e vescovi, servitori della comunione.  Questa è la visione dell’ordinamento della Chiesa secondo il Vangelo: chi è primo si faccia ultimo,  chi è grande si faccia piccolo, chi presiede si metta al servizio di tutti. Questo non può essere solo  un augurio e papa Francesco ha iniziato a metterlo in pratica facendo partecipare al sinodo,  attraverso un ascolto attento e puntuale - almeno là dove le chiese locali hanno accolto l’invito - dei  cristiani quotidiani, quelli che vivono la sequela di Gesù nella compagnia degli uomini e senza  esenzioni. Anche la «collegialità» - questa «categoria» che a volte rischia di essere ridotta a  inquilini di piano di una piramide a ziggurat, a una corporazione - è stata messa nella sinodalità al  riparo da derive autarchiche e autosufficienti. Popolo di Dio, pastori, vescovi e Papa «camminano  insieme», attingendo a una profonda comunione donata dal Signore stesso ma esercitata dalla  responsabilità delle diverse componenti ecclesiali. 
Il ricordato discorso di papa Francesco all’assemblea sinodale costituisce una precisazione  dottrinale puntuale, che non permetterà più letture minimaliste e riduttive, soltanto «collegiali» del  sinodo. Non solo il sinodo è valorizzato da Francesco, ma è indicato come luogo di ascolto, di  confronto reciproco e di formazione di un consenso, secondo il principio caro alla Chiesa del primo  millennio (ma da secoli mai più ascoltato dalla bocca di un Papa): «Ciò che riguarda tutti, da tutti  deve essere discusso». Però, si noti bene, non secondo principi mutuati dall’assetto politico  democratico, ma secondo un’economia cristiana per la quale la comunione si costruisce non con  criteri di maggioranza, ma in un ordine che prevede il peso dei diversi carismi e delle diverse  funzioni all’interno della Chiesa. La sinodalità non è opzionale, ha ricordato Francesco, ma è  «costituzione» della Chiesa, secondo l’intenzione dei padri, come Giovanni Crisostomo: «Chiesa e  sinodo sono sinonimi».  
È chiaro che in questa visione, oltre al popolo di Dio, sono rafforzati nella loro missione e nella loro autorità i vescovi e quelli che potrebbero essere in futuro i loro organismi di comunione. A questi  Francesco, come vescovo di Roma, intende restituire alcune facoltà finora di competenza papale e  far valere il principio della sussidiarietà che abbisogna di una certa decentralizzazione quando non  si pregiudica l’unità della fede cattolica di cui il Papa è garante. Così Francesco ribadisce la sua  volontà di riformare l’esercizio del papato, mantenendo integro il carisma petrino di «garante  dell’obbedienza e della conformità della Chiesa... al Vangelo Gesù Cristo». Il sinodo che ha  terminato ieri i suoi lavori rappresenta un «balzo in avanti» soprattutto nel ridare la sinodalità alla  Chiesa. Certo, ora si aprono i cantieri per definire le procedure e le forme giuridiche di questa  sinodalità, ma il cammino è aperto.  
Nel proseguirlo, tuttavia, non possiamo dimenticare come permanga molta paura nella Chiesa e in  alcuni vescovi e padri sinodali che, incontrati uno per uno, sono più audaci e più pronti all’ascolto,  ma quando si trovano insieme danno talora l’impressione di aver paura l’uno dell’altro. Perché tanta paura? Non c’è forse la promessa di Cristo riguardo allo Spirito santo che accompagna la Chiesa e  non la abbandona? Perché aver paura del mondo che, secondo le parole di Gesù, da lui è stato  vinto? Perché aver paura dell’ascolto pubblico e libero di pensieri che non sono condivisi e, a volte,  profondamente diversi e in opposizione? E se il Papa ha richiesto libertà e parresia perché esser  timidi e a volte nascondersi in interventi fumosi o non usare nel parlare un «sì» se è sì, e un «no» se  è no, come ha raccomandato Gesù? Sono probabilmente queste paure che portano finanche qualche  porporato a dichiarazioni che difettano di buon senso, equilibrio e stile, oltre che di «sensus  ecclesiae»? Ma ha detto bene il segretario di Stato cardinal Parolin: «Il sinodo è rimasto al riparo  dai veleni e dalle menzogne... e in esso è progressivamente maturata una sensibilità pastorale  condivisa». 
Comunque il cammino sinodale sul tema della famiglia è stato fecondo e fruttuoso, anche se vi sarà  chi riterrà carenti alcune risposte che il popolo di Dio attendeva e che potevano essere significative  anche per i non cristiani. Siamo però convinti, con Rilke, che «le domande sono più decisive delle  risposte» e che queste ultime non devono mai dimenticare che il luogo ultimo e decisivo per il  discernimento è la coscienza del credente: una coscienza non autarchica e solipsistica, ma una  coscienza illuminata e liberata dal soggettivismo grazie alla presenza della Chiesa e dei suoi pastori  muniti di capacità di discernimento. Non a caso - come aveva chiesto il circolo di lingua tedesca  dove erano concentrati teologi di grande spessore - la relazione finale ha fatto appello anche alla  presa in considerazione della coscienza dei divorziati risposati per ogni cammino di manifestazione  della comunione ecclesiale: le situazioni dei cammini matrimoniali contraddetti sono diversissime e  non esistono soluzioni semplici e generalizzabili. Anche per l’ammissione alla comunione  sacramentale dopo un cammino penitenziale serio, provato ed ecclesialmente visibile, non si  possono fare leggi generali e, io credo, neppure lasciarle alle conferenze episcopali nazionali, non  poche delle quali appaiono oggi incapaci di una vera collegialità nel loro seno e di un’autentica  sinodalità con tutto il popolo di Dio. Inoltre la pastorale e la disciplina devono tener conto delle  differenze delle culture delle chiese che compongono la «catholica». Queste macro-regioni  continentali sono diversissime, soprattutto nel loro rapporto con la contemporaneità, sicché la  famiglia ha problemi molto diversi in base al contesto socio-culturale in cui si trova. Perciò,  affinché la parola del Papa sia accolta ovunque in modo efficace, occorre che i pastori sappiano  tradurla per la loro gente e trovare, con creatività e in modo comunionale con la chiesa universale,  vie nuove per la loro specifica situazione.  
Non illudiamoci, il cammino intrapreso dalla Chiesa guidata da papa Francesco è lungo e faticoso e  sarà anche contraddetto: l’esercizio della sinodalità, infatti, non è facile, non solo a causa  dell’autorità che a volte non la vuole, ma anche a causa di una larga parte della stessa comunità dei  fedeli che preferisce non intervenire, non far ascoltare con responsabilità la propria voce,  crogiolandosi nell’inerzia. L’esercizio della libertà e quello della responsabilità restano gravosi: lo  sperimentiamo bene noi monaci, nonostante le nostre millenarie strutture di governo sinodale. Ora il sinodo ha consegnato al Papa una relazione permeata di misericordia, approvata in tutte le  sue parti - anche quelle riguardanti le situazioni matrimoniali più complesse - con la maggioranza  qualificata dei due terzi. Questo, come ha affermato papa Francesco nel discorso conclusivo,  «certamente non significa aver concluso tutti i temi inerenti la famiglia, ma aver cercato di  illuminarli con la luce del Vangelo, della tradizione e della storia bimillenaria della Chiesa,  infondendo in essi la gioia della speranza senza cadere nella facile ripetizione di ciò che è  indiscutibile o già detto». Competerà al successore di Pietro operare un discernimento e poi  rivolgersi alla Chiesa con un rinnovato sguardo sulla famiglia oggi. Noi sappiamo che questo  sguardo sarà innanzitutto carico di misericordia, di questo sentimento di amore, di tenerezza, di  perdono, di compassione al quale tutta la Chiesa è chiamata nell’anno giubilare che sta per aprirsi. E questo perché lo sguardo di misericordia è quello che Gesù stesso ha avuto. E il Papa saprà  esprimere la sua parola parlando solo ai cattolici o riuscirà a raggiungere tutti, uomini e donne,  cristiani e non cristiani? Anche questa è una sfida: ma questa necessità può mutare molto lo stile  della futura esortazione postsinodale. In ogni caso da questo dipende l’immagine di Dio: se giudice  inflessibile di fronte al quale nessuno è giusto o se volto misericordioso che l’uomo cerca nella  propria miseria.

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Mediazione non scontata
Corriere della Sera
(Massimo Franco) Il compromesso che chiude il Sinodo può essere valutato in modo diverso, a seconda dei punti di  vista. Come tutte le mediazioni, implica elementi di ambiguità, e comunque chiaroscuri necessari  per non esacerbare controversie potenzialmente laceranti. Ma si deve riconoscere a papa Francesco  e alla Chiesa cattolica il coraggio di mettersi in discussione; di misurarsi con la modernità a costo di esserne segnati e perfino sfigurati.  
Jorge Mario Bergoglio per primo ha accettato una sfida dalla quale poteva riemergere indebolito e  non rafforzato.
Le resistenze contro le sue aperture, anche caute, sono apparse proporzionali alla percezione del suo pontificato riformista, se non rivoluzionario. È possibile che un Pontefice meno estraneo alle  logiche «romane» avrebbe potuto ottenere risultati più incisivi. È certo che sarebbe stato circondato  da minori ostilità e riserve mentali.
Ma la sua forza e la sua determinazione sono figlie dell’identità inedita del Pontefice. Lo spettro di  una frattura, perfino di un simulacro di scisma, è stato evocato strumentalmente per illustrare i  pericoli di un cedimento sulla dottrina. 
L’ esito spazza via simili scenari. La relazione finale è stata votata dai due terzi e oltre dei 275  partecipanti al Sinodo sulla famiglia. La questione dirimente della Comunione ai divorziati è  passata per un solo voto, riflettendo fedelmente opinioni assai lontane tra loro; ma confermando  l’immagine di una «Chiesa viva», nelle parole di Francesco. 
D’altronde, i fattori esterni che si sono scaricati sulle tre settimane di dibattito l’hanno un po’  condizionato. Ma non sono riusciti a piegarlo e distorcerlo più di tanto, perché la manovra di  disturbo è stata così platealmente scoperta da indebolirne i registi, occulti o visibili. I temi più  ingombranti sono rimasti gli stessi del febbraio scorso e di un anno fa. E anche gli schieramenti  interni alla fine sono stati confermati. In sintesi: cosa può fare la Chiesa per dire qualcosa di nuovo  non più alla famiglia ma alle famiglie create dall’epoca contemporanea. 
La soluzione «caso per caso» della Comunione ai divorziati rappresenta la concessione massima  offerta al fronte progressista, forte in Nord Europa e negli Usa. Ma la maggioranza ha visto  confermato dallo stesso Papa l’impianto dottrinale che non voleva minimamente intaccare.  Francesco ha notato che in qualche discussione le obiezioni non sono state esposte con troppa  benevolenza. La misericordia dalla quale sarebbe pervasa la relazione finale sembra un obiettivo più che la realtà di oggi. 
Ma forse è meglio così: diplomatizzare troppo i contrasti avrebbe proiettato una fotografia di  maniera del cattolicesimo mondiale. Le sfaccettature, invece, sono il riflesso coerente di quella  società poliedrica individuata ed analizzata da Bergoglio da quando era arcivescovo di Buenos  Aires: una bussola magari imperfetta e imprecisa, eppure inevitabile per tenere insieme cose molto  diverse. L’esito del Sinodo porta a pensare che Francesco continui ad esercitare il proprio carisma  con maggiore facilità fuori dalle file ecclesiastiche. 
I suoi successi planetari e la sua popolarità non sembrano sufficienti a suscitare gli applausi unanimi degli episcopati. Anzi, a tratti si ha quasi l’impressione che causino malintesi e perplessità tra Papa  e nomenklatura religiosa. Il problema, ormai è evidente, non riguarda solo la convivenza tra  Bergoglio e la Curia. Tocca il raccordo con una parte di cardinali e vescovi nel mondo. Rimanda  agli equilibri del Conclave 2013, e induce a chiedersi se esistano ancora. 
Eppure, alla fine il Sinodo si è stretto intorno a Francesco: forse proprio per esorcizzare il «virus  della disarmonia», come è stato chiamato. In Vaticano abita e agisce da due anni e sette mesi un  Pontefice d’avanguardia, americano argentino, che si rende conto di quanto sia difficile fare  avanzare le cose al ritmo che pensava. Francesco può cambiare solo con prudenza, e accetta la  lentezza. Altrimenti, sa che potrebbe staccarsi dal suo esercito ecclesiastico, che si ritroverebbe  esposto alla tentazione di assecondare un tacito ordine di ritirata verso un passato che da tempo, in  realtà, non esiste più.