sabato 31 ottobre 2015

La verità scomoda del martirio nella Chiesa



Il Beato Romero e la «pietra più dura». 

(Stefania Falasca) «Il martirio di monsignor Romero non avvenne solo al momento della sua morte; fu un martirio-testimonianza, sofferenza anteriore, persecuzione anteriore, fino alla sua morte». Ai pellegrini salvadoregni arrivati in Vaticano per ringraziare per la beatificazione di Romero nel maggio scorso Papa Francesco ha rivolto ieri un discorso intenso, sincero e che colpisce per la serenità con la quale riferisce delle verità. Verità ormai assodate che hanno risuonato nei palazzi dove il vescovo salvadoregno non sempre fu ben accolto e dove non sempre trovò la consolazione e il sostegno per la sua missione nell’annunciare ai poveri la Buona Notizia. 
Francesco ha ricordato come il suo martirio è continuato anche dopo la sua morte: «Io ero un giovane sacerdote e ne sono stato testimone, fu diffamato, calunniato, infangato, il suo martirio continuò persino da parte dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per sentito dire, ho ascoltato queste cose. Dopo aver dato la sua vita, continuò a darla lasciandosi colpire da tutte quelle incomprensioni e calunnie». «Questo mi dà forza, solo Dio lo sa» ha detto ricordando il vitale consortium che si stabilisce con i santi. E ha aggiunto anche: «Solo Dio conosce le storie delle persone, e quante volte persone che hanno già dato la loro vita o che sono morte continuano a essere lapidate con la pietra più dura che esiste al mondo: la lingua». 
Oggi infatti il beato Romero non ha più bisogno di essere riscattato dalle incomprensioni e dalle false accuse dei suoi confratelli nell’episcopato, dalla diffamazione e dalle calunnie che lo hanno preparato e forse portato al martirio sull’altare. Dalla mole dei documenti non tutti riportati e contenuti nella Positio risulta provato come egli preferì seguire la verità evangelica e la responsabilità pastorale anche se in contrasto con i suggerimenti provenienti da alcuni rappresentanti diplomatici vaticani, da qualche suo confratello nell’episcopato salvadoregno e da alcuni responsabili di qualche Dicastero romano, divenendo un chiaro evangelico «segno di contraddizione». 
Papa Francesco ha voluto soprattutto richiamare al criterio di fede con cui guardare alla persecuzione, al martirio, che è il tratto proprio della vicenda cristiana nel mondo. Come già in altre occasioni, egli ha accennato all’aspetto più enigmatico e lacerante della persecuzione: fin dai tempi di san Pietro e di san Paolo, arrestati per delazione dei fratelli, le persecuzioni più insidiose per la fede sono quelle che nascono dall’invidia e dalla cattiveria dei cristiani. Il Papa ha conosciuto da vicino quelle persecuzioni che negli ultimi decenni del Novecento vescovi, sacerdoti e operatori pastorali latinoamericani subirono da parte di persone che si professavano cattoliche e che vedevano in loro dei sovversivi comunisti, nemici della “civiltà occidentale cristiana”. Nella Chiesa – ha ribadito più volte – ci sono «perseguitati da fuori e perseguitati da dentro». Quanti santi riconosciuti poi tali dalla Chiesa sono stati avversati e talora persino messi a morte dai propri fratelli? Senza scavare nella storia e senza scomodare Giovanna d’Arco basta ricordare il calvario di Antonio Rosmini, implicitamente citato dal Papa in una delle sue omelie mattutine: «Un uomo di buona volontà, un profeta davvero, che con i suoi libri rimproverava la Chiesa di allontanarsi dalla strada del Signore… È passato il tempo e oggi è beato». Nelle riflessioni di papa Francesco, la persecuzione e il martirio – come insegna da sempre la Chiesa – attingono e rimandano al mistero stesso della salvezza promessa da Cristo. «Il martire – ha ribadito ieri – è un fratello, una sorella, che continua ad accompagnarci nel mistero della comunione dei santi, e che, unito a Cristo, non trascura il nostro pellegrinare terreno, le nostre sofferenze, le nostre pene». Sono coloro che non temendo di perdere la propria vita, l’hanno guadagnata, e sono stati costituiti intercessori del loro popolo dinanzi al Dio Vivente. La storia delle missioni è perciò la storia del martirio di Cristo che sempre si rinnova secondo la «beatitudine delle persecuzioni», previste e garantite da Gesù ai suoi discepoli. Il martirio è vocazione, dono che rende conformi a Cristo. La testimonianza feconda dei martiri ha perciò la particolarità di rendere manifesto un messaggio: la salvezza di Cristo.
Per questo lo sguardo di Papa Francesco sui fatti di martirio non si confonde mai con le interpretazioni in chiave politica delle sofferenze dei cristiani. E se denuncia con forza ogni violazione della libertà religiosa e della dignità umana, al tempo stesso annuncia che Cristo ha fatto della persecuzione e della morte uno strumento di salvezza. Sempre richiama tutti a pregare per i fratelli che soffrono persecuzioni, a non dimenticare o occultare mai le loro sofferenze. Ma ripete – con san Giovanni Crisostomo – che la condizione propria dei cristiani nelle vicende del mondo rimane per sempre l’inermità di coloro che il Signore manda come “agnelli in mezzo ai lupi”. Ad imitazione dell’Agnello che ha vinto il peccato, il male del mondo per rigenerare l’umanità. Come ha detto nell’omelia di Santa Marta del 14 febbraio dello scorso anno: «Agnello. Non scemo, ma agnello. Con l’astuzia cristiana, ma agnello, sempre. Perché se tu sei agnello, Lui ti difende. Ma se tu ti senti forte come il lupo, Lui non ti difende, ti lascia solo, e i lupi ti mangeranno crudo».
Avvenire