mercoledì 28 ottobre 2015

Pietro Parolin: Il dovere della pace



Quando un cittadino è indifeso davanti allo Stato quella tensione interna è già una situazione di guerra. La pace è un dovere
L'Osservatore Romano

Cinquant’anni dopoNel cinquantesimo anniversario della dichiarazione conciliare Nostra aetate, il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e la Pontificia università Gregoriana hanno organizzato, dal 26 al 28 ottobre, un convegno internazionale per commemorare l’evento e analizzarne le ripercussioni nell’ultimo mezzo secolo. Anticipiamo l’intervento conclusivo tenuto alla Gregoriana, nel pomeriggio di mercoledì 28, dal cardinale segretario di Stato.
(Pietro Parolin) La Chiesa ha sempre insegnato, insegna ancor oggi e non si stanca di ripetere: la pace è possibile, la pace è doverosa! Un dovere, quindi, s’impone a tutti gli amanti della pace, ed è quello di educare le nuove generazioni a questi ideali, per preparare un’era migliore per l’intera umanità. L’educazione alla pace è oggi più urgente che mai, perché gli uomini, di fronte alle tragedie che continuano ad affliggere l’umanità, sono tentati di cedere al fatalismo, quasi che la pace sia un ideale irraggiungibile (cfr. Giovanni Paolo ii,Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004, n. 4).
Nel mio intervento, vorrei toccare i seguenti punti: 1) l’orizzonte della pace; 2) le sue radici bibliche; 3) l’educazione alla pace nel Magistero pontificio recente; 4) l’educazione alla pace oggi.
L’orizzonte della pace
«Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». Senza dubbio queste parole di Papa Pio xii, pronunciate il 24 agosto 1939, conservano tuttora una stringente attualità. Ad esse hanno fatto eco quelle degli altri Pontefici che si sono succeduti, nel corso del xxsecolo e nel nuovo millennio, sul soglio petrino, fino al recente tweetdi Papa Francesco: «La guerra è madre di tutte le povertà, una grande predatrice di vite e di anime» (4 settembre 2015).
In un momento di forte preoccupazione per il moltiplicarsi di tensioni e conflitti in diverse aree del mondo, è urgente promuovere una riflessione profonda e articolata sul tema dell’educazione alla pace. L’affermazione di un’autentica cultura di pace non può prescindere dalle radici etiche volte all’edificazione di una comunità internazionale attenta alla convivenza tra i popoli e allo sviluppo integrale dell’essere umano. Come affermava Maritain, «la pace non sarà possibile senza il rispetto delle basi della vita comune, della dignità umana e dei diritti della persona» (cfr. J. Maritain,Cristianesimo e democrazia, 1943, Vita e Pensiero, Milano 1977)«Se un giorno si stabilirà uno stato di pace tra i popoli (...) non dipenderà unicamente da accordi politici, economici e finanziari stabiliti tra diplomatici e uomini di Stato; né solo dalla costruzione giuridica di un organismo coordinatore realmente sovranazionale provvisto di mezzi di azione efficaci: dipenderà anche dall’adesione profonda della coscienza degli uomini» (cfr. J. Maritain, La voie de la paix, 1947, Librairie française, Mexico, 1947, Oc ix, pagine 143-164).
La costruzione della pace è come un orizzonte sull’oceano che si staglia davanti a noi, ma si ha la sensazione che si allontani sempre. Questo ci chiama a lavorare instancabilmente per raggiungerlo.
«Non di rado, nel mondo moderno, ci sentiamo perdenti. Ma l’avventura della speranza ci porta oltre. Un giorno ho trovato scritto su un calendario queste parole: “Il mondo è di chi lo ama e sa meglio dargliene la prova”. Quanto sono vere queste parole! Nel cuore di ogni persona c’è un’infinita sete d’amore e noi, con quell’amore che Dio ha effuso nei nostri cuori, possiamo saziarla!”».
Così scriveva il Servo di Dio cardinale François Xavier Nguyen van Thuân, vietnamita, presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace dal 1998 al 2002. E aveva proprio ragione. Infatti, l’educazione alla pace costituisce un aspetto fondamentale del messaggio biblico e del magistero recente della Chiesa, come vedremo subito.
Le radici bibliche della pace
Ben sapendo quanto il tema della pace sia presente in tutte le tradizioni religiose, mi limiterò, tuttavia, a considerare le sue radici nella tradizione ebraico-cristiana.
Nelle Scritture ebraiche la parola shalom abbraccia i significati di “star bene”, di benessere nel senso più ampio, fortuna, prosperità, salute fisica, contentezza, soddisfazione; evoca fecondità delle greggi e fertilità dei campi; è augurio di un rapporto pacifico e d’intesa fra popoli e persone, di salvezza.
Lo shalom va oltre la sfera puramente personale ed è orientato in senso sociale. Non è solo l’assenza della guerra, ma affermazione della signoria di Dio e dell’urgenza di accoglierla con fedeltà.
In modo particolare, i Salmi cantano la pace come dono di Dio: «Egli annuncia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con fiducia» (Salmi, 84, 9); «Il Signore benedirà il suo popolo con la pace» (Salmi, 29, 11); «Chiedete pace per Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano; sia pace nelle tue mura, sicurezza nei tuoi palazzi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: Su te sia pace!»(Salmi, 122, 6-8).
Su questa base teologica s’innesta la tradizione neotestamentaria che riconosce in Gesù di Nazareth il Messia unto dallo Spirito del Signore per portare il Vangelo di pace soprattutto ai poveri (cfr. Isaia 61, 1;Luca, 4, 19).
Nel Nuovo Testamento la pace è la persona di Gesù Cristo. Le sue azioni e il suo insegnamento sono annunci ed eventi di pace, segni che anticipano il Regno di Dio e lo lasciano intravedere: «Il Regno di Dio infatti è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole» (Romani, 14, 17-19).
I discepoli del Signore sono, pertanto, operatori di pace. E così la pace è, nello stesso tempo, dono di Dio e impegno di fede per i cristiani: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Matteo, 5, 9). Vivere secondo il Vangelo comporta l’abolizione di ogni forma di separazione e discriminazione tra gli uomini, per edificare nella concordia la comunità.
L’educazione alla pace nel magistero pontificio recente
La Pacem in terris
Sia Benedetto xvi, sia Papa Francesco in occasione del cinquantenario della Pacem in terris, pubblicata l’11 aprile 1963, hanno invitato i cattolici, a leggere o rileggere quest’enciclica, il cui messaggio non è espressione di un pacifismo o di un ottimismo ingenuo, ma costruisce la nozione dell’ordine sociale sul diritto naturale.
La pace, afferma San Giovanni xxiii in questo piccolo trattato pedagogico sulla pace, «può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio».
Per farlo comprendere, Papa Roncalli, partendo dal magistero di Leone xiii e Pio xii, prende in esame quattro ambiti dell’ordine sociale: le relazioni a) tra i cittadini; b) tra i cittadini e l’autorità pubblica; c) tra le comunità politiche; d) tra le comunità politiche da una parte, e la comunità mondiale nel suo insieme, dall’altra.
a) Gli uomini riuniti in società sono anzitutto persone, e quindi soggetti di diritti e doveri che «scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla stessa natura umana», e sono pertanto «universali», «inviolabili, inalienabili». Accanto ai diritti di natura economica e politica, il Pontefice cita quelli attinenti alla libertà di coscienza e alla libertà religiosa.
I doveri naturali si riassumono nel dovere di rispettare i diritti altrui, e nel dovere di solidarietà, che chiede a ognuno di contribuire all’ordine sociale. In sintesi ne deriva che, «l’ordine fra gli esseri umani nella convivenza è di natura morale», e «l’ordine morale — universale, assoluto e immutabile nei suoi principi — trova il suo oggettivo fondamento nel vero Dio».
b) Circa l’ordine nei rapporti fra i cittadini e le autorità, il Pontefice spiega che non c’è società senza autorità, perché l’autorità non è una creazione o un’invenzione degli uomini, ma «deriva da Dio», che ha creato gli uomini «sociali». L’autorità, del resto, «trae la virtù di obbligare dall’ordine morale, il quale si fonda in Dio», e non solo dalla minaccia delle sanzioni, che «non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune».
Il punto di riferimento specifico dell’ordine nel rapporto tra i cittadini e l’autorità è costituito dalla nozione di bene comune, «ragion d’essere dei poteri pubblici», cui anche «tutti gli esseri umani e i corpi intermedi sono tenuti a portare il loro specifico contributo».
Nei suoi aspetti «essenziali e più profondi» il bene comune dev’essere determinato con riferimento alla stessa natura umana: è il bene di persone umane che hanno sia «bisogni del corpo» sia «esigenze dello spirito», oggi spesso ingiustamente trascurate, mentre «il bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del fine ultraterreno ed eterno».
c) «La stessa legge morale che regola i rapporti fra i singoli esseri umani regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche».
Infatti, i rapporti fra le comunità politiche devono essere regolati secondo giustizia, nel riconoscimento dei rispettivi diritti — fra cui spiccano il diritto all’esistenza, allo sviluppo, alla buona reputazione e all’onore — e dei rispettivi doveri.
Un particolare dovere di giustizia delle comunità politiche è l’equo trattamento delle minoranze e il rispetto «della loro lingua, della loro cultura, del loro costume». Dal canto loro i membri delle minoranze dovrebbero sforzarsi di non «accentuare l’importanza degli elementi etnici», e di «apprezzare gli aspetti positivi di una condizione che consente loro l’arricchimento di sé stessi con l’assimilazione graduale e continuata di valori propri di tradizioni o civiltà differenti». Le minoranze dovrebbero essere «un ponte» fra due civiltà piuttosto che una pericolosa «zona di attrito».
Se questa lezione fosse stata ben assimilata, avremmo evitato vari conflitti, come il genocidio africano in Rwanda, la guerra nei Balcani, la guerra in Iraq e in Siria, non saremmo arrivati alla «terza guerra mondiale a pezzi».
Poiché «vi sono sulla terra Paesi che abbondano di terreni coltivabili e scarseggiano di uomini; in altri Paesi invece non vi è proporzione tra le ricchezze naturali e i capitali a disposizione», i rapporti tra le comunità politiche devono essere impostati nella solidarietà, favorendo gli scambi tra i rispettivi cittadini e collaborando per il bene comune dell’intera famiglia umana.
«Ogniqualvolta è possibile» sia «il capitale a cercare il lavoro» con investimenti e insediamenti produttivi nei Paesi dove abbonda la manodopera «e non viceversa», in modo da ridurre il fenomeno dell’emigrazione.
Anche questa indicazione conserva oggi tutta la sua attualità, e se ne dovrebbe tenere conto per migliorare le condizioni di vita soprattutto nei Paesi emergenti in riferimento alla questione delle migrazioni per ragioni economiche verso l’Europa.
Nessuna comunità politica ha il diritto di esercitare un’azione oppressiva o d’indebita ingerenza sulle altre. Accanto alla verità, alla giustizia, alla solidarietà, i rapporti internazionali esigono quindi, secondo la Pacem in terris, anche la libertà. Nel momento in cui molti Stati, soprattutto africani, si avviavano all’indipendenza, il Papa denunciava il rischio del neo-colonialismo. Gli aiuti più appropriati ai Paesi in via di sviluppo sono quelli che consentono agli abitanti di tali Paesi di divenire essi stessi «i principali artefici nell’attuazione del loro sviluppo economico e del loro progresso sociale», al di là di ogni assistenzialismo, mentre questi stessi aiuti possono violare il principio di libertà quando non rispettano «i valori morali e le peculiarità etniche proprie delle comunità in fase di sviluppo economico» o agiscono con «propositi di predominio politico». Su questo punto è tornato Benedetto xvi nella Caritas in veritate e nei discorsi tenuti nei viaggi apostolici in Africa.
d) Ed infine, va considerato l’ordine nei rapporti fra le comunità politiche e la comunità mondiale, cioè l’ordine globale sovranazionale.
«Nessuna comunità politica oggi è in grado di perseguire i suoi interessi e di svilupparsi chiudendosi in se stessa», ma deve stabilire rapporti con la comunità mondiale nel suo complesso.
L’unità del genere umano postula da sempre l’esistenza di un bene comune universale, anch’esso fondato sulla tutela dei diritti e dei doveri della persona umana in tutto il mondo. Il timore della «forza terribilmente distruttiva delle armi moderne»l’accentuata circolazione «delle idee, degli uomini, delle cose» e l’interdipendenza tra le economie nazionali, portano alla conclusione che il bene comune universale non si può più raggiungere attraverso i normali rapporti diplomatici intrattenuti fra le singole comunità nazionali.
Nasce l’esigenza di una «comunità mondiale» che si doti di proprie istituzioni, con una nuova sfera dell’ordine sociale, relativa ai rapporti fra le singole comunità politiche nazionali e le istituzioni della comunità mondiale.
Per il Pontefice, la pace consiste quindi nel rispetto dell’ordine morale nelle quattro sfere indicate, «perché le istituzioni a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, siano tali da non creare ostacoli, ma piuttosto facilitare o rendere meno arduo alle persone il loro perfezionamento: tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale». Di qui il forte bisogno di educazione, affinché i cattolici acquisiscano le necessarie capacità scientifiche, tecniche e professionali, le quali tuttavia non bastano da sole senza un’integrazione con i valori spirituali.
La Pacem in terris denuncia già quella grave frattura tra fede e impegno temporale, che pure la Gaudium et spes invita a superare, e ne addita la causa nella lacunosa formazione cristiana, particolarmente carente per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa.
Cinquant’anni dopo, la lacuna formativa permane o cresce in molte regioni di antica tradizione cristiana. Di qui l’urgenza di attuare un’ampia proposta educativa, radicalmente innovativa, che sappia rispondere al diffuso bisogno di pace, coniugandolo con l’annuncio del Vangelo.
Papa Giovanni si è fatto pure pioniere del dialogo interreligioso, invitando i cattolici a collaborare, sulla base del diritto naturale, con i cristiani non-cattolici, con gli appartenenti ad altre religioni e con tutti gli esseri umani nei quali è presente la luce della ragione e operante l’onestà naturale.
La Giornata mondiale per la pace
Dopo Papa Giovanni, nessun altro Papa ha scritto una nuova Enciclica sulla pace, ma tutti i suoi successori ci hanno offerto quasi una summa di come la Chiesa guarda ai problemi della pace sulla terra. Ciò è avvenuto soprattutto attraverso i messaggi per la Giornata Mondiale della Pace.
Fu Papa Paolo vi a ideare questo appuntamento annuale, a cominciare dal 1° gennaio 1968. Lo fece fin dall’inizio in chiave interreligiosa: «La proposta di dedicare alla Pace il primo giorno dell’anno nuovo non intende perciò qualificarsi come esclusivamente nostra, religiosa cioè cattolica; essa vorrebbe incontrare l’adesione di tutti i veri amici della pace, come fosse iniziativa loro propria, ed esprimersi in libere forme, congeniali all’indole particolare di quanti avvertono quanto bella e quanto importante sia la consonanza d’ogni voce nel mondo per l’esaltazione di questo bene primario, che è la pace, nel vario concerto della moderna umanità».
Da allora il vescovo di Roma ha tenuto sempre fede a questo appuntamento, conferendo alla Giornata un orientamento specifico, con un argomento preciso, coinvolgendo credenti e non credenti, intellettuali, uomini di cultura e scienziati, nel grande tema della costruzione della pace.
In particolare, il tema dell’educare alla pace ne è stato oggetto specifico, con Paolo vi, nel 1970: “Educarsi alla pace attraverso la riconciliazione”; con Giovanni Paolo ii, nel 1979: “Per giungere alla pace, educare alla pace”, nel 1995: “La donna educatrice di pace”, nel 2004: “Un impegno sempre attuale: educare alla pace”; e con Benedetto xvi, nel 2012: “Educare i giovani alla giustizia e alla pace”.
Le giornate di Assisi
Se Paolo vi ebbe la grande intuizione della Giornata Mondiale per la Pace, a Giovanni Paolo ii si deve l’idea della Giornata di Assisi, convocata per la prima volta il 26 ottobre 1986.
Ma ascoltiamo il racconto di un testimone oculare, il cardinale Roger Etchegaray: «È bastato un breve incontro su una collina, qualche parola, qualche gesto, perché l’umanità straziata riscoprisse nella gioia l’unità delle sue origini. Quando, alla fine di una grigia mattinata, l’arcobaleno è apparso nel cielo di Assisi, i capi religiosi riuniti dall’audacia profetica di uno di essi, Giovanni Paolo ii, vi hanno scorto un richiamo pressante alla vita fraterna: nessuno poteva più dubitare che la preghiera avesse provocato quel segno manifesto dell’intesa tra Dio e i discendenti di Noè. Nella cattedrale di San Rufino, quando i responsabili delle Chiese cristiane si sono scambiati la pace, ho visto le lacrime su certi volti e non dei meno importanti. Davanti alla Basilica di San Francesco, dove, intirizzito dal freddo, ognuno alla fine sembrava serrarsi strettamente all’altro, quando giovani ebrei si sono precipitati sulla tribuna per offrire rami di ulivo, in primo luogo ai musulmani, mi sono sorpreso ad asciugarmi le lacrime sul viso.
L’angoscia della pace tra gli uomini e tra i popoli ci spingeva “ad essere insieme per pregare ma non a pregare insieme”, secondo l’espressione del Papa, la cui iniziativa, malgrado la sua preoccupazione di evitare ogni parvenza di sincretismo, non fu allora compresa da taluni che temevano di vedere diluirsi la loro specificità cristiana.
Assisi ha fatto fare alla Chiesa un balzo in avanti verso le religioni non cristiane che ci apparivano vivere fino a quel momento in un altro pianeta nonostante l’insegnamento di Papa Paolo vi (nella sua prima enciclica Ecclesiam suam) e del concilio Vaticano ii (la dichiarazioneNostra aetate).
Assisi è il simbolo del compito della Chiesa in un mondo contraddistinto dal pluralismo religioso: professare l’unità del mistero della salvezza in Gesù Cristo. Più tardi, soffermandosi sul mistero di unità della famiglia umana fondato al tempo stesso sulla creazione e sulla redenzione in Gesù Cristo, Giovanni Paolo ii ha affermato: “Le differenze sono un elemento meno importante rispetto all’unità che, al contrario, è radicale, fondamentale e determinante” (Discorso alla Curia, 22 dicembre 1986).
Assisi ha permesso così a uomini e a donne di testimoniare un’esperienza autentica di Dio nel cuore delle loro religioni. “Ogni preghiera autentica — aggiungeva il Papa — è ispirata dallo Spirito Santo, che è misteriosamente presente nel cuore di ogni uomo”» (cfr. R. Etchegaray, Tertium Millennium, n.2/Giugno-Settembre 1996).
La prima volta di Assisi fu ventinove anni fa. Due giorni dopo, Giovanni Paolo ii, ricevendo in Vaticano i rappresentanti delle religioni non cristiane che vi avevano partecipato, quasi come una consegna, disse loro: «Continuiamo a vivere lo spirito di Assisi» (29 ottobre 1986), coniando l’espressione che è diventata come un’icona della pace.
Un analogo incontro di preghiera per la pace ad Assisi fu voluto da lui il 9-10 gennaio 1993, in occasione della crisi dei Balcani, e poi il 24 gennaio 2002 e, infine, venticinque anni dopo, da Benedetto xvi (27 ottobre 2011). Ma anche oggi lo spirito di Assisi crea meraviglie di dialogo fraterno. Lo si è visto stamattina, qui a Roma, nell’incontro interreligioso celebrato in Piazza San Pietro con Papa Francesco.
Ci auguriamo che altre iniziative prese insieme dai responsabili delle differenti tradizioni religiose mondiali portino nuovi frutti di pace durante l’imminente Anno giubilare della Misericordia.
L’educazione alla pace oggi
Il linguaggio
Nel Messaggio per la Giornata della Pace del 1979, San Giovanni Paolo ii toccava un punto centrale per noi oggi, quello del linguaggio. Per costruire la pace, il linguaggio, fatto per esprimere i pensieri del cuore e per unire, deve abbandonare gli schemi precostituiti. Occorre agire sul linguaggio per agire sul cuore e sventare le insidie del linguaggio stesso.
A furia di esprimere tutto in termini di rapporti di forza, di lotte di gruppi e di classi, di amici e nemici, si crea il terreno propizio alle barriere sociali, al disprezzo, persino all’odio e al terrorismo e alla loro apologia velata o aperta. Al contrario, da un cuore dedito al valore della pace derivano la preoccupazione di ascoltare e di capire, il rispetto dell’altro, la dolcezza che è forza vera, la fiducia. Un tale linguaggio conduce sulla via dell’obiettività, della verità e della pace.
Il Papa sottolineava il compito educativo dei mezzi di comunicazione sociale e il tono espressivo usato negli scambi e nei dibattiti politici, nazionali e internazionali, concludendo con un appello ai responsabili delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali: «Sappiate trovare un linguaggio nuovo, un linguaggio di pace: esso aprirà da solo un nuovo spazio alla pace» (n. 10).
Tra i banchi di scuola
Trovandomi in un contesto accademico, vorrei tornare sulla questione del linguaggio. La nozione di pace viene generalmente definita in negativo, come assenza di conflitto, come non-guerra. Come siamo lontani dalla bellezza dello shalom biblico, che — come si è visto — è costituito solo da valori positivi!
Dobbiamo avere il coraggio profetico di andare finalmente oltre il Si vis pacem, para bellum. Non è più sufficiente che le Nazioni non si aggrediscano le une con le altre, ma è urgente comprendere che la pace riguarda la condizione in cui vive ogni individuo all’interno del proprio Stato.
Quando un cittadino è indifeso davanti allo Stato, quella tensione interna è già una situazione di guerra. Non a caso, la Pacem in terrisparte dall’affermazione delle libertà individuali.
Garantire queste libertà è indispensabile, ma è assurdo pensare di farlo con la guerra. La via maestra è l’educazione alla pace, cominciando dal promuovere nei testi scolastici ed accademici la conoscenza e il valore del rispetto dei diritti umani, della cooperazione internazionale e dell’educazione alla pace.
Investire nell’educazione
La scuola e l’università sono chiamate a ricostruire uno spirito di fraternità tra le persone e le Nazioni, ad integrare la dimensione individuale con la dimensione relazionale e comunitaria nella ricerca delle soluzioni ai problemi (cfr. Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014, nn. 3 e 4).
Investire nell’educazione, in particolare per le giovani generazioni, è una condizione «per lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane» (cfr. Paolo viPopulorum progressio, 26 marzo 1967, numero 1).
La Chiesa condivide gli sforzi per un maggiore accesso all’alfabetizzazione, all’educazione per tutti e alla formazione permanente, senza trascurare l’impegno costante per la promozione della donna e a favore delle minoranze etniche e religiose.
Senza dubbio, una rinnovata attenzione va posta agli studi umanistici, grazie ai quali si strutturano quella capacità logica e quella facoltà di giudizio, che permettono al discente di conoscere razionalmente e approfondire scientificamente concetti, dati e formulazioni.
Poesia, arte, musica, estetica, che occupano da sempre un posto insostituibile nella formazione dei giovani, come occasione di esperienze emotive e intuitive, che conducono alla scoperta del trascendente e del meta-empirico, devono ritrovare la loro centralità nell’educazione (cfr. Papa Francesco, Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).
L’uomo al centro
La prima sfida dell’educazione alla pace è, dunque, il recupero della centralità dell’umano di fronte a una tendenza prevalentemente tecnica, che afferma il primato dell’efficienza produttiva, svincolando la technê da ogni giudizio morale.
Se non ci si lascia «interrogare da un significato più ampio della vita» (cfr. Evangelii gaudium, n. 203), si resta prigionieri della «cultura dello scarto», che non ha remore neppure di fronte alla famiglia, alla cura dell’affettività e alla scelta religiosa, rimuovendo ogni sentimento di pietà e di compassione (cfr. Papa Francesco, Discorso ai delegati dell’Istituto Dignitatis Humanae, 7 dicembre 2013).
Valorizzare le attitudini personali
Una seconda sfida di ampia portata nell’educazione alla pace è l’attenzione a una formazione su misura: ogni persona — bambino, giovane, adulto, anziano — impegnata in un processo educativo, possiede attitudini, conoscenze, competenze, al cui sviluppo deve prestare molta attenzione l’educatore che si avvicina dall’esterno. La prima competenza dalla quale partire è quella che possiede già la persona del discente. Se gli interventi dell’educatore si sostituiscono in modo radicale all’inclinazione personale, il processo pedagogico s’inceppa e si deteriora. Nella relazione educativa, ciascuno studente «deve sentirsi accolto e amato per quello che è, con tutti i suoi limiti e le sue potenzialità» (cfr. Papa Francesco, Discorso ai membri dell’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi, Uciim, 14 marzo 2015).
L’educazione in rete
Un’ulteriore sfida, legata alle precedenti, è il recupero della responsabilità comunitaria dell’educazione. Nella società, come nelle scuole e nelle Università, una feconda rete di cooperazione farà sì che gli insegnanti possano lavorare bene e insieme tra loro, con gli allievi e le loro famiglie.
Educare all’accoglienza della diversità
L’accettazione della diversità è fondamentale nell’educazione al rispetto reciproco e nella libertà di esprimere le proprie idee e le proprie convinzioni religiose. Questo atteggiamento costruttivo trova il suo humus naturale nel dialogo disinteressato (cfr. Evangelii gaudium, n. 142), che nella ricerca comune della pace e della giustizia diviene «un impegno etico che crea nuove condizioni sociali» (ibidem, n. 250).
«La causa ontologica del contesto attuale di odio e di disprezzo all’interno della famiglia umana è costituita da un radicale rifiuto dell’umanità nell’altro», scrive Papa Francesco nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2015 (cfr. n. 4).
È ovvio che accettare le differenze proprie di ogni cultura non significa negare l’esistenza di valori obiettivi e di principi comuni alla natura umana stessa, senza i quali si apre la porta al relativismo culturale, all’oblio della memoria, al nichilismo e al radicalismo (cfr. Papa Francesco, Lumen fidei, n. 25). «Una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte» (12 gennaio 2015).
Per evitare queste conseguenze nefaste, il Papa stesso indica l’orizzonte della fraternità che «rimanda alla crescita in pienezza di ogni uomo e donna [dove] le giuste ambizioni di una persona, soprattutto se giovane, non vanno frustrate e offese, non [gli] va rubata la speranza di poterle realizzare» (Papa Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2014, n. 8).
L’impegno educativo delle scuole e dell’università cattolica per la pace è esemplare, soprattutto nei Paesi emergenti. Mi auguro che la stessa via e gli stessi criteri educativi ispirino l’azione dei responsabili delle altre comunità religiose nel mondo per un’educazione umanistica, rispettosa delle libertà fondamentali della persona. Se ciò avverrà, il sogno di una nuova umanità capace di dialogare nell’armonia e nella pace, secondo il disegno dello shalom biblico, non sarà più un’utopia.
Conclusione
Vorrei concludere questa riflessione con le parole di un profeta del nostro tempo, il compianto don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta:
«La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia.
Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.
Rifiuta la tentazione del godimento.
Non tollera atteggiamenti sedentari.
Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.
Sì, la pace prima che traguardo è cammino.
E per giunta cammino in salita.
E sarà beato, perché operatore di pace,
non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito,

ma chi parte».