domenica 22 novembre 2015

La loro forza è nella morte per Allah. E la nostra?

Il locale a Parigi assaltato dai terroristi, i fiori dopo la strage, l'esercito nelle strade
La loro forza è nella morte per Allah. E la nostra?
di Massimo Introvigne


Siamo in guerra: lo ha detto anche un pacifista socialista come il presidente francese Hollande, un classico esempio di utopista aggredito all'improvviso dalla realtà. In questa guerra l'Occidente ha le migliori armi e la migliore tecnologia. Ma può perdere, perché gli manca l'essenziale: una spiritualità della guerra. L'Isis non ama Osama bin Laden, ma le sue pubblicazioni ne ripetono il teorema, espresso in una sfida all'Occidente: vinceremo noi, perché voi amate la vita e noi amiamo la morte. 
Per al-Qa'ida o per l'Isis morire in battaglia, farsi esplodere cometerroristi suicidi o cadere in uno scontro con la polizia è una forma di martirio, che assicura la gloria in Terra e il paradiso in Cielo. L'Occidente moderno considera la morte in battaglia inaccettabile. Tutti i governi democratici cercano di fare la guerra con la sola aviazione, o meglio ancora con i droni senza piloti, perché sanno che un intervento militare di terra comporterebbe dei caduti. E soldati che tornassero in patria in una bara avvolta da una bandiera nazionale farebbero perdere le elezioni al governo che li avesse mandati a combattere in terre lontane.
A una giornalista, peraltro brava e preparata, ho spiegato giorni fa in un'intervista che la scelta perl'Occidente non è più fra l'avere o non avere morti ammazzati. È la scelta su chi dovrà morire: i soldati sul campo o i civili che vanno a cena in un ristorante, a una partita di calcio o ad ascoltare musica in un teatro. Qualcuno morirà comunque, è qualche mamma piangerà. La reazione della giornalista è stata tipica: «Ma anche i soldati hanno una mamma». Sì, anche i soldati hanno una mamma, ma hanno scelto una professione nobilissima, la cui grandezza sta precisamente nella disponibilità a sacrificare la propria vita per proteggere le vite degli altri. Questa caratteristica essenziale dello spirito militare rischia oggi di andare perduta. La stessa propaganda televisiva che incita ad arruolarsi negli eserciti mostra i militari che costruiscono scuole, portano medicinali negli ospedali del Terzo Mondo e cibo ai bambini poveri. Tutte cose bellissime e utilissime, ci mancherebbe altro. Ma stiamo scambiando i militari per il dottor Schweitzer o per i missionari. I militari non sono questo, o per lo meno non sono solo questo. La loro missione comporta affrontare la morte, e anche dare la morte in battaglia, con lealtà e senza odio.
No, non ci mancano le armi, la tecnologia, gli analisti, gli strateghi. E non è neppure l'amore per la vita a ostacolarci: anzi, quella è la nostra forza, e l'amore per la morte di cui parlava bin Laden è soltanto una caricatura del vero spirito militare. Ma lo spirito militare è diventato merce rara. Non da ieri: nella sua classica opera «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione» il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira vedeva nel venir meno di questo spirito una caratteristica saliente del processo di abbandono del cristianesimo che chiamava Rivoluzione. La divisa militare, scriveva, «con la sua semplice presenza, afferma implicitamente alcune verità, a quanto generiche, ma per certo di natura contro-rivoluzionaria. L'esistenza di valori superiori alla vita e per i quali si deve morire», il che è contrario alla mentalità moderna, «tutta fatta di orrore per il rischio e per il dolore, d'adorazione della sicurezza e di grandissimo attaccamento alla vita terrena. L'esistenza d'una morale, perché la condizione militare è totalmente fondata su ideali d'onore, di forza posta al servizio del bene e rivolta contro il male e così via».
Non bisogna confondere forza e violenza. La violenza è intrinsecamente sovversiva e immorale,perché non opera al servizio dell'ordine ma per sovvertirlo. La forza, dopo il peccato originale, è necessaria e legittima. Difende il debole mettendo l'aggressore in condizione di non nuocere, se necessario dando la morte e affrontando la morte. Salvarsi la vita non è il valore supremo, altrimenti le migliaia di martiri che la Chiesa ha canonizzato avrebbero semplicemente sbagliato. E la Chiesa non ha canonizzato solo i martiri. Nel 2012 la casa editrice della Santa Sede, la Libreria Editrice Vaticana, ha pubblicato un bello studio della storica Geraldina Boni, «La canonizzazione dei santi combattenti nella storia della Chiesa». Il libro mostra come la Chiesa ha canonizzato qualche centinaio di militari, che hanno combattuto, hanno dato la morte e qualche volta sono morti in battaglia. 
È avvenuto anche di recente. Il 26 aprile 2009 Benedetto XVI ha canonizzato San Nuno AlvaresPereira, morto nel 1431 e figura decisiva per l'indipendenza del Portogallo dalla Spagna. San Nuno era un generale, combatté contro gli spagnoli e contro i mori, sempre in prima linea. Anche se la cifra tradizionale di cinquemila persone che San Nuno avrebbe personalmente ucciso in battaglia è probabilmente esagerata, certamente il santo diede la morte a molti nemici. Passò gli ultimi anni di vita in un convento, ma di lì continuò a far giungere consigli ai portoghesi su come fare la guerra.  Nel l'omelia della canonizzazione, Benedetto XVI chiarì che San Nuno non era stato canonizzato «nonostante» fosse stato un militare, avesse combattuto e avesse ucciso nemici, ma perché era stato un buon militare, e un militare santo.
Eppure già allora qualcuno si scandalizzò, anche nella Chiesa, per questa canonizzazione. Perché a molti sembra che chi uccide nemici in battaglia non possa essere un santo ma solo un assassino. Non è così, e le canonizzazioni dei santi combattenti lo confermano. C'è una vera spiritualità della vita militare e della guerra. Una spiritualità che non ama la guerra, non la cerca, preferisce la pace. Una spiritualità che non odia i nemici, sa che sono anche loro figli di Dio e fratelli in Cristo, eppure assume la necessità di combatterli lealmente come una croce e una dolorosa missione. È la stessa spiritualità dei poliziotti e dei carabinieri, che portano le armi e qualche volta devono usarle per proteggere gli onesti contro i malviventi, dei giudici che devono pronunciare severe condanne e qualche volta - lo sappiamo bene in Italia - rischiano anche loro di pagare con la vita. 
È la spiritualità dell'eroismo, e l'eroismo consiste precisamente nel sapere che ci sono valori per cui vale la pena di combattere e di morire. Se l'Occidente, e anche tanti cristiani, hanno perso questa spiritualità, e neppure sono più in grado di capirla, allora bin Laden aveva ragione, e anche l'Isis ha già vinto.

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Se i musulmani scoprono che l'islam è violento
di Matteo Matzuzzi

Mentre in Italia, a Roma e Milano, si sfila sotto gli hashtag #notinmyname, mescolando il no all’assimilazione tra musulmano moderato e musulmano terrorista (un’ovvietà, visto che nessuno dotato di senno può ritenere che sul pianeta ci sia più di un miliardo di individui pronti a farsi saltare in aria al grido di Allahu Akbar) e il no all’islamofobia (quindi con tutti i consueti distinguo del caso), in Francia è la Conferenza degli imam – organismo che conta assai nel Paese transalpino, considerato anche il numero di milioni di fedeli praticanti sul territorio – a prendere una posizione netta e inequivocabile dinanzi alla mattanza andata in scena il 13 novembre a Parigi. «Ci siamo serviti di imam importati dall’estero che non parlano neanche una parola di francese e che non conoscono i veri problemi che questi giovani musulmani francesi ed europei affrontano nella società occidentale», è messo nero su bianco nel comunicato fatto leggere ieri, venerdì di preghiera, nelle moschee francesi.
C’è un problema enorme, affermano senza trincerarsi dietro il lessico politicamente corretto i religiosi islamici d'oltralpe: «Secondo l’ideologia di questi islamisti ignoranti, apertura tolleranza umanesimo e dialogo interreligioso rappresentano un tradimento e una collaborazione con l’Occidente, al punto che gli imam tolleranti sono minacciati nelle loro stesse moschee da parte di estremismi che hanno scelto la durezza e l’odio verso tutti coloro che non sono musulmani». Il risultato di questa operazione è che queste “autorità religiose” hanno «reso il nostro islam universale una religione settaria e odiosa che non accetta l’apertura e l’adattamento ai valori europei. Questi incompetenti e responsabili del fallimento devono lasciare il loro posto».
Ma non è tutto, perché si arriva al punto dolente, a quello che più viene tirato in ballo anche da molti “moderati” quando interrogati su qualche strage compiuta qua e là nel mondo e in particolare in Europa: «Fate attenzione», scrive la Conferenza degli imam francesi, «a quanti cercano di giustificare l’ingiustificabile in nome del razzismo, della emarginazione e della colonizzazione. Sono pretesti per dissimulare il loro odio e il fanatismo religioso nel nome del Dio che ci ha creati per l’amore e la fratellanza, e non per la guerra e la ferocia. Non è più sufficiente condannare gli attacchi. Non possiamo più continuare a fare come gli struzzi, nascondendo la testa sotto la sabbia ripetendo che “non siamo stati noi, sono stati loro”. Ogni imam, ogni leader religioso musulmano deve prendersi la propria parte di responsabilità per questi attacchi criminali che sono stati commessi nel nome della nostra religione». 
Va sempre infatti ricordato che «cristiani, ebrei ed atei vivono in condizioni difficili nel dominomusulmano. Costruire una chiesa o una sinagoga è un sogno impossibile in questi Paesi se non interviene il presidente della Repubblica». É questo, ad esempio, il caso dell’Egitto. Se questa è la situazione nella realtà musulmana, si legge ancora nel comunicato, «viceversa i musulmani vivono in libertà e con dignità in Francia e in Europa. Costruiscono moschee, centri islamici e scuole religiose senza alcuna difficoltà o esclusione». 
Da qui la necessità di «mettere in pratica i metodi migliori per combattere le idee di odio (che covano, ndr) nella nostra religione e la fragilità della nostra gioventù musulmana di fronte a un pseudo islam siro-hollywoodiano che si serve dell’immagine e della propaganda per manipolare e radicalizzare più giovani possibili, che possono diventare bombe dei terroristi». Bombe che «vogliono distruggere i valori dei Paesi occidentali, ma che in realtà distruggono l’immagine dell’islam e il futuro dell’islam in Francia e in Europa».

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Armi, droga, petrolio: ecco chi e come finanzia l'Isis
di Gianandrea Gaiani

A guerre diverse corrispondono diverse fonti di approvvigionamento di armi. Lo Stato Islamico combatte una guerra convenzionale contro la Coalizione e gli eserciti di Iraq, Kurdistan e Siria, ma al tempo stesso combatte anche una guerra basata su azioni terroristiche come quella che ha colpito Parigi la sera del 13 novembre. Per alimentare le sue forze da combattimento, stimate tra i 50mila e 80 mila uomini, lo Stato Islamico utilizza canali diversi da quelli necessari a far affluire armi alle sue cellule in Europa anche se la tipologia di armi leggere è la stessa in modo che i foreign fighters addestrati a combattere e a uccidere in Siria impugnando per lo più kalashnikov possano trovare le stesse armi quando compiono stragi nelle città europee.
Le forze armate di Abu Bakr al-Baghdadi hanno acquisito i loro equipaggiamenti pesanti, come carri armati, artiglieria e cingolati, saccheggiando le basi strappate alle truppe siriane e irachene. Sono, infatti, di preda bellica migliaia di veicoli Hummer, i carri armati Abrams e T.-55, i cingolati BMP-1 e gran parte dei cannoni e dei lanciarazzi campali del tipo BM-21 (le famigerate “katyusha”) in parte distrutti dai raid aerei della Coalizione e russi. Nella caserme strappate agli eserciti di Baghdad e Damasco sono state rinvenute migliaia di tonnellate di munizioni e armi portatili incluse mitragliatrici russe e fucili M-16 statunitensi, ma anche missili antiaerei portatili Sa-14 e anticarro Konkurs e Kornet. A questi imponenti arsenali si aggiungono le armi fatte affluire ai ribelli siriani (ufficialmente solo a quelli “moderati”) da Turchia, Stati Uniti, Qatar, Emirati e Arabia Saudita che in realtà hanno armato i gruppi jihadisti come lo Stato Islamico e i qaedisti del Fronte al-Nusra, fornendo loro armi antiaeree come i missili cinesi HQ-5, fucili e lanciagranate croati,  imbracciando i quali le truppe del Califfo hanno espugnato l’anno scorso Mosul.
Anche la Turchia non sarebbe estranea a questi traffici e non solo perché ha favorito il transito sul suo territorio delle armi provenienti dalle monarchie del Golfo, ma perché Ankara stessa avrebbe girato all’Isis carichi di armi e munizioni, come hanno denunciato alcuni video diffusi dall’opposizione. Pare che anche oggi una parte dei carichi di petrolio esportati clandestinamente dallo Stato Islamico in Turchia vengano barattati con armi e munizioni, anche per questo i jet di Mosca hanno accelerato le operazioni per trovare e distruggere le autocisterne che garantiscono al Califfo incassi valutati 1,5 milioni di euro al giorno. L’ultimo anno e mezzo di guerra ha dimostrato che riserve di armi e munizioni non sono certo venute meno ai reparti dell’Isis, nonostante le battaglie sostenute e i bombardamenti effettuati sui depositi individuati dalla Coalizione.
Rifornire di armi le cellule terroristiche in Europa significa invece dover puntare decisamente suitrafficanti balcanici che alimentano a Parigi e Bruxelles i più ampi mercati di armi clandestine dell’Europa occidentale. Le due capitali sono, infatti, al centro di un traffico che sembra ammontare in tutta la Ue a mezzo milione di armi non denunciate di cui solo una minima parte sono da guerra. Appena il 5% secondo la Gendarmerie francese: un mercato di nicchia cui è interessata l’élite della criminalità e i terroristi che, impugnando armi da guerra, godono di un vantaggio tattico nei confronti delle forze di polizia solitamente dotate di armi meno potenti. Non è un caso che il volume di fuoco e il potere d’arresto del Kalashnikov lo abbiano reso l’arma preferita dai rapinatori di furgoni postali la cui blindatura leggera non resiste al fuoco diretto e ravvicinato di un AK-47.
Un kalashnikov che in Kosovo si può acquistare con 450 euro circa, a Bruxelles o Parigi è quotatotra i 2mila  e i 2500. Meno nel caso dei fucili albanesi copie dei kalashnikov cinesi, di più se si cercano armi come gli AK-103 utilizzati dai fratelli Kouachì nell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo. La rotta balcanica è ancora oggi quella che fornisce il maggior numero di armi da guerra al mercato francese e le organizzazioni sono in molti casi le stesse che gestiscono il mercato della droga e dell’immigrazione illegale. Secondo i rapporti francesi le armi vengono contrabbandate in piccoli numeri, tre o quattro per volta, spesso smontate e solitamente a bordo dei camion che dai Balcani attraversano l’Europa via Austria, Germania o Nord Italia. 
Non è chiaro se si tratti solo di affari o se i trafficanti balcanici che riforniscono di armi i jihadisti lofacciano anche per condivisione ideologica. Non ci sarebbe da stupirsi considerando la capillare penetrazione dell’Islam in Bosnia, Albania e Kosovo grazie agli investimenti negli affari sociali e religiosi da parte delle monarchie del Golfo.