domenica 22 novembre 2015

La Santa Sede e le nuove vie alla pace



La Santa Sede e le nuove vie alla pace: il modello di Helsinki quarant’anni dopo. Intervento del cardinale Pietro Parolin al convegno "Il governo di un mondo multipolare" organizzato dalla Fondazione Comunità Domenico Tardini 

Eminenza,
Eccellenze,
Signori Ambasciatori,
Chiarissimi Professori,
Cari amici di Villa Nazareth,
Signore e Signori,
1. Desidero anzitutto ringraziare la grande famiglia di Villa Nazareth per l’invito a concludere questo convegno che ha voluto individuare, a quarant’anni dall’Atto finale di Helsinki, i nuovi assetti geopolitici, giuridici e culturali della realtà  internazionale, per valutarne i riflessi sulla vita di popoli e persone. Un invito che ho accolto con gioia nel ricordo degli anni di ministero sacerdotale svolto in questa Casa, un “cenacolo” in cui si intrecciano scienza e fede e che vede l’avvicendarsi di generazioni che trascorrono gli anni della formazione per prepararsi a dare uno solido e specifico contributo alla Società e alla Chiesa.
Il richiamo ad Helsinki, poi, ci domanda di riflettere non su un semplice avvenimento, ma su un processo di grande impatto per le contemporanee relazioni internazionali. E ci impone di farlo insieme ad uno dei suoi protagonisti, il Card. Achille Silvestrini di cui abbiamo da poco celebrato il novantaduesimo compleanno. Il Cardinale – “Don Achille” per noi di Villa Nazareth – è stato infatti uno degli operai della prima ora di quella svolta epocale e ha così sintetizzato quegli anni di lavorio, di incontri, di negoziato e di risultati diplomatici rilevanti: «Helsinki è stata un’intuizione di grande significato» (Libertà di coscienza: una vera bomba, inL’Osservatore Romano, 24 luglio 2010). Ed è proprio questa intuizione che spiega perché, nonostante gli anni trascorsi, sia ancora vivo nella memoria e nelle vicende diplomatiche quel 1° agosto 1975, quando nella capitale finlandese veniva firmato l’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE), a conclusione della terza fase di un laborioso negoziato. Quell’avvenimento, che chiudeva un cantiere aperto il 22 novembre 1972, non è solo “una pagina di storia”, ma un momento che ha “cambiato la storia” in nome di una solida volontà di pace manifestata dai popoli di un’Europa dilatata da Vancouver a Vladivostok. Volontà destinata a durare, come testimonia ancora oggi la vivace e molteplice attività dell’Organizzazione sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa(OSCE).
In quel contesto, fatto di persone e di istituzioni che si erano confrontate attraverso lo strumento diplomatico, era presente anche la Santa Sede che, pur avendo già ufficialmente instauratorapporti con le diverse Organizzazioni intergovernative europee, colse sin dall’inizio la novità che la CSCE poteva rappresentare per dare all’antico Continente un futuro di stabilità, ma non di immobilismo. Di qui il sostegno della Sede Apostolicaall’iniziativa, evidente anche nei momenti di maggiore difficoltà, e la partecipazione assidua a quel particolare sistema di contatti e di cooperazione tra i Paesi definitosi nel processo negoziale. La Santa Sede operò con un atteggiamento dettato non solo da motivi formali, ma dalla piena coscienza di poter concorrere a un futuro di pace del Continente con la sua storia e le identità dei suoi popoli. Una storia che a seguito delle drammatiche e sanguinose sofferenze del secondo conflitto mondiale e la successiva divisione della “cortina di ferro” non lasciava nemmeno immaginare gli sbocchi e le ragioni che dopo “il crollo dei muri” hanno ridisegnato non solo i confini, ma l’esprit dell’Europa.
Un esprit che appare in questi giorni lacerato, direi quasi inerme di fronte a  un’azione terroristica condotta sul suolo europeo e rivolta contro la popolazione civile. Un atto di estrema barbarie di cui sono stati protagonisti gruppi armati appartenenti ad una realtà descritta come “sedicente Stato islamico”. Realtà che al di là delle sigle o della denominazioni, si è imposta come un attore dell’attuale contesto internazionale e in particolare della Regione mediorientale. All’attacco portato nel cuore di Parigi – purtroppo non diverso da quelli analoghi registrati in altre aree come di recente il Libano, e con il medesimo obiettivo di colpire persone dedite alla loro quotidianità – sembra prevalere come sola risposta la volontà di contrapporsi alla forza delle armi con gli stessi mezzi. Certo ogni Stato ha diritto alla sicurezza, anzi è sua finalità essenziale garantirla a quanti soggiornano sul suo territorio. Non possiamo però dimenticare che le azioni finalizzate a perseguire la sicurezza fuori dallo spazio sovrano di un Paeseimplicano il ricorso alle sedi decisionali presenti nella Comunità internazionale e soprattutto richiamano la diplomazia alle sue responsabilità. 
L’Europa non può dimenticare che se ancora oggi, dopo quattro lustri, rimangono vivi il ricordo e la spinta ideale della storica firma di Helsinki, non è solo per l’effetto prodotto sulla geografia della regione europea, ma più realisticamente perché l’Atto Finaleha evitato al mondo intero lo spettro di un confronto  militare, ideologico, religioso dall’esito incerto, sostituendo al conflitto un “modello” per la vita internazionale ancora oggi proponibile e – lo dico con convinzione – valido.
2. L’attuale contesto internazionale sperimenta quotidianamente contrapposizioni, conflitti e guerre di ogni tipo, assiste inerme – magari compiaciuto o indignato – a tentativi di rialzare barriere per difendere frontiere ormai  inservibili a fronte di una forzata mobilità umana, o pensa di risolvere con atti di forza ogni situazione che pone problemi all’ordinata convivenza. Un quadro di fronte al quale la diplomazia, chiamata per antonomasia a realizzare la pace, si confronta con due principali interrogativi. Il primo si può riassumere in una semplice formulazione, ma pesante nel significato: “cosa sta realmente accadendo? Il secondo, già proiettato alla ricerca di soluzioni, è invece rivolto ad una verifica: rispetto a quanto sta accadendo possono ancora operare i tradizionali strumenti offerti dal diritto internazionale?
Sul cosa succede – e ce ne siamo resi conto in questi ultimi giorni – gli analisti hanno risposte molteplici, ma in tutte è possibile rilevare un unico denominatore: viviamo cambiamenti epocali, e cioè nei rapporti internazionali si è imposto un nuovo paradigma che vede l’obiettivo della pace sottratto all’azione comune e affidato piuttosto all’imporsi di una forza diffusa, direi quasi parcellizzata. Lo storico della diplomazia direbbe che siamo di fronte ad un ritorno a quell’idea che dopo la Decretale Per Venerabilem di Innocenzo III, del 1202, sviluppò la moderna concezione della forza come risorsa di ogni Potenza per difendere la propria sovranità ed esclusiva autonomia. Il diplomatico, invece, si accorge che deve  confrontarsi con una concezione che ha assimilato la pace alla capacità di controllare territori e persone ivi residenti mediante la forza delle armi e non quella del diritto e delle istituzioni. In ambedue i casi si tratta di visioni che ritenevamo superate dalla Carta delle Nazioni Unite e ancora di più dall’Atto Finale di Helsinki, con l’affermazione del principio che la forza non è posta a servizio delle armi, ma della sicurezza, della cooperazione e della giustizia considerate altrettanti strumenti per realizzare condizioni di pace.
Oggi, dunque, sembra ritornare a prevalere l’idea che la pace, lungi dall’essere «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (San Giovanni XXIII, Pacem in Terris, 1), sia da ricondurre ad un esercizio individuale della forza, capace di  sostituire all’azione comune la volontà dei singoli. Questo però in un “mondo multipolare” come lo chiama il nostro convegno, significa che la forza è prerogativa di una molteplicità di attori che la attuano con mezzi e modi sempre più diversi. Ed ecco che insieme agli attori tradizionali operano anche soggetti che controllano  territori sottratti a preesistenti sovranità, fanno uso dell’azione militare per espanderli e a questo affiancano un’attività terroristica che realizzano in altre aree. E qui emerge la novità: non si tratta più di attività sporadiche o di organizzazioni delocalizzate, sparse su territori diversi, ma di entità assimilate alla struttura statale che fanno del terrorismo un ulteriore strumento per combattere, espandersi e generare morte o incutere timore.
Per la Santa Sede, la cui diplomazia sia a livello bilaterale che multilaterale opera avendo a cuore le sorti dell’intera famiglia umana, il quadro attuale è frutto di tendenze che hanno messo da parte la prevalenza di principi e regole comuni per far spazio ad un ritornante unilateralismo, anche se espresso attraverso decisioni collettive o strumenti dell’integrazione. Un tale orientamento, avendo come riferimento il modello di Helsinki, appare una strada senza uscita e forse anche difficile da percorrere perché potrà portare ad una stabilità circoscritta, ad una “pace a pezzi”, che non basta. La pace è un bene superiore, necessariamente frutto di quella unità tra le Nazioni capace di andare oltre i singoli spazi sovrani e la forza che da questi può provenire. Questa linea trova oggi il suo instancabile ispiratore in Papa Francesco quando dice che «l’unità prevale sul conflitto» (Evangelii Gaudium, Cap. IV, III) e di conseguenza un’azione diplomatica coerente non può limitarsi a prendere atto delle minacce alla pace provenienti da attori tradizionali e non, o a fare di un processo di pace un metodo per garantire l’immobilismo o per giustificare l’esistenza di organismi e strutture. Anche la diplomazia quindi deve accettare la sfida «di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Ibid., 227).Permettetemi di dire che per la diplomazia pontificia questa indicazione non è solo una linea di condotta, ma una strada per raggiungere i risultati attesi dalle nostre società, opposta a quella percorsa da chi predica l’odio e da chi non vuole impegnarsi, inbuona fede, per realizzare condizioni di pace.
Quanto all’interrogativo sul ruolo del diritto internazionale, le riflessioni che ascoltiamo appaiono orientate a valutare gli effetti dei principi e delle regole per «la composizione o la soluzione della controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace», fermandosi a quanto indica l’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite. Si evita, cioè, di considerare che in questo momento il diritto internazionale non solo deve confrontarsi con una frequente volontà degli Stati a perseguire intessi particolari – le ormai molteplici teorie delNational interest sembrano diffidare delle “azioni concertate” nella Comunità internazionale – ma deve anche fronteggiare una sua evidente frammentazione che ne compromette gli effetti. È paradossale, ad esempio, assistere ad un allargamento delle attività terroristiche nonostante l’esistenza di una regolazione internazionale di contrasto, volontariamente decisa dagli Stati, ben strutturata e pensata anzitutto in funzione preventiva. Cosa non funziona, allora: le regole o la volontà di applicarle? 
Per la Santa Sede l’immagine più realistica che emerge è quella di un diritto internazionale non inefficace – come da più parti ci si affanna a ripetere senza proporre alternative che non siano la “forza del più forte” di turno – ma di un ordinamento che sembra preoccupato di dar spazio a norme di dettaglio, tralasciando i suoi  fondamenti. Mi riferisco a quei principi che, anche in situazioni drammatiche, vengono spesso derisi da condotte unilaterali e da soluzioni poco efficaci rispetto al grande obiettivo della pace. Quest’ultima infatti reclama anzitutto l’«esecuzione in buona fede degli obblighi di diritto internazionale» richiamata dal Principio Xdell’Atto Finale di Helsinki che ne declina i diversi contenuti non come semplici obiettivi, ma come criteri operativi per le Cancellerie e per le Istituzioni intergovernative. E così mentre si continua a ripetere che la prevalenza di interessi egoistici è tra le cause della povertà, del mancato sviluppo, dello sconvolgimento dei diversi ecosistemi, della corsa al controllo di territori e risorse, non si usa lo stesso criterio per sanzionare comportamenti che delle regole ignorano la funzione fondamentale: garantire l’ordine tra le Nazioni e quindi la coesistenza pacifica della famiglia umana. E così l’azione della diplomazia volendo cogliere, tra i tanti possibili, il “perché” della violazione o della minaccia alla pace, spesso si ferma a riconoscere la mancanza di etica di quei comportamenti o a valutarli come privi di senso d’umanità. Ma questo approccio può ancora bastare o è necessario un diverso orientamento?L’evoluzione del diritto internazionale registrata nei quarant’anni di vigenza del modello di Helsinki quanto alla soluzione, regolazione e prevenzione dei conflitti, sottolinea come alla violazione non può supplire solo una riparazione morale o un’adesione teorica alla regole; come pure ci mette in guardia sul fatto che tra la mancata sanzione di una violazione e la convinzione di poter godere di impunità il passo è breve.
3. L’ampio spettro di situazioni offerto dai fatti internazionali, anche recenti, forse non consente più all’azione diplomatica di considerare solo la visione tradizionale della guerra e dell’uso della forza, magari adoperandosi per richiamare normative e istituti giuridici applicabili, o per porre a confronto opinioni differenti. Basta l’esempio del moltiplicarsi di conflitti interni che, pur diversi da quelli internazionali, non sfuggono ormai alle medesime classificazioni in termini di strategia bellica, di tipologie di combattenti o di armamenti. Tutti elementi a cui è legato l’equilibrio tra la necessità militare e la protezione della popolazione civile. Nei conflitti interni, infatti, la dimensione internazionale pur mancando negli aspetti formali è presente attraverso le cause scatenanti, il flusso di armamenti, l’impiego di novelli “soldati di ventura”, e addirittura, nel consentire il trasferimento di risorse dalle zone di guerra, con un corrispondente flusso economico da cui traggono vantaggio le forze in campo, anche quelle che si vorrebbero eliminare. Si tratta di un quadro che rende ormai insufficiente un’azione della diplomazia limitata a ricercare la cause del fatto bellico nella mancata volontà delle Parti o a rispondere solo in termini di emergenza umanitaria.
La Santa Sede è consapevole che un siffatto approccio, paradossalmente, riesce solo a rendere meno impellente l’impegno di fronteggiare le molteplici situazioni che persone, comunità, istituzioni, quotidianamente subiscono, limitandosi a fornire dichiarazioni di sdegno o di condanna. Come ha sottolineato Papa Francesco all’ONU questi ultimi sono atti che producono «un effetto tranquillizzante sulle coscienze» (Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2015), mentre « [i]l mondo chiede con forza a tutti i governanti una volontà effettiva, pratica, costante, fatta di passi concreti e di misure immediate»(Ibid.). Penso  all’imminente incontro delle Parti contraenti le Convenzioni di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, chiamato a dare una risposta precisa per garantire l’efficacia del diritto internazionale umanitario durante i conflitti armati., dando cioè una risposta alle gravi brecce che gli attuali conflitti hanno arrecato al cosiddetto diritto di Ginevra. Si propone di istituire un meccanismo permanente per controllare se e come le Parti umanizzano la guerra: un’iniziativa meritoria e che va sostenuta, proprio alla luce del modello di Helsinki. Ma forse bisognerebbe anche interrogarsi sui modi per imporre anche ai combattenti che non sono parte del diritto di Ginevra il rispetto di quei principi del “diritto delle genti e di umanità”, quei “precetti della pubblica coscienza” (per citare la Clausola Martens che è alla base del diritto internazionale umanitario) che possono umanizzare i conflitti: lo fece la diplomazia in passato, perché non riproporlo? Questo significa che nessun attore di un conflitto può essere escluso dalla sua soluzione, come ha imposto in modo significativo il processo di Helsinki. L’esperienza più recente ci suggerisce che tale esclusione non è possibile anche dal processo di riconciliazione post-conflitto e dall’applicazione degli strumenti previsti dal diritto internazionale penale e dalla giustizia di transizione.
4. In relazione ai mezzi concreti suggeriti ad Helsinki, una prima considerazione va al «riconoscimento dello stretto legame fra lapace e la sicurezza» (Atto finale, Questioni relative alla sicurezza in Europa, Preambolo). Nel contesto normativo ed istituzionale internazionale i due poli della relazione – sicurezza e pace, appunto – appaiono simmetrici a fattori come la buona fede e lareciproca fiducia individuale o collettiva. Sono fattori che, declinati in modi e tempi diversi, trovano adeguata sintesi nelPrincipio X dell’Atto finale che orienta i rapporti fra Stati allo sviluppo della cooperazione su base reciproca e in condizioni di piena eguaglianza. Trasferito sul piano pratico questo significa collegare l’obiettivo della pace e della sicurezza alla giustizia, e cioè al “dare a ciascuno il suo”, come recita l’antico adagio. Un traguardo che richiede non solo prevenzione dei confitti, comprensione e fiducia vicendevole, relazioni amichevoli e di buon vicinato, maggiore conoscenza reciproca, ma anche circolazione delle acquisizioni e delle realizzazioni in campo economico, scientifico, tecnico, sociale, culturale e umanitario. Il tutto sapendo che beneficiari ultimi della pace non sono gli apparati, ma i popoli e le loro legittime aspirazioni.
La cooperazione allora si presenta come una sfida determinante per il futuro della famiglia umana. Essa infatti, se ha per obiettivo lo sviluppo dei Paesi, ad iniziare da quelli più svantaggiati in cui il rapporto giustizia-ingiustizia è all’origine dei conflitti,, non può essere mai separata  dalla pace. Ma oggi, considerando i timori determinati dall’uso della forza – o più ampiamente di fronte a scontri di vario tipo – prevale un orientamento che destina maggiori fondi alle spese militari o per rafforzare la sicurezza, dimenticando il ruolo strategico della crescita economica in realtà nelle quali il fenomeno terroristico mette le sue radici. Quando Papa Francesco parla delle “periferie” come sede dell’emarginazione e dello scarto non dà forse l’immagine di una minaccia alla sicurezza? Sono emblematiche in proposito le parole del Papa: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice» (Evangelii Gaudium, 59).
Alla diplomazia, allora, spetta di tradurre questi indicatori in un processo negoziale duraturo, rivolto al beneficio dei popoli, delle comunità e delle persone, iniziando, ad esempio, da non vanificare gli sforzi che hanno condotto alla recente approvazione in sede ONU dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Quell’impegnopensato rispetto a situazioni come la fame, la salute, il clima, la protezione sociale, l’istruzione non solo sfida la barriera dell’egoismo di ogni singolo Stato, ma richiama la capacità di reazione delle Istituzioni internazionali  quanto alla consistenza degli interventi dettati da esigenze cosiddette umanitarie, poiché come indica Papa Francesco in relazione agli obiettivi di sviluppo post-2015: «Non sono sufficienti […] gli impegni assunti solennemente, benché costituiscano certamente un passo necessario verso la soluzione dei problemi» per cui è necessario «aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli»  (Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2015).
Privilegiare la dimensione della cooperazione in ragione dell’esperienza realizzata con il modello di Helsinki può significare il superamento della previsione che «la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell’interesse comune» inserito nel Preambolo della Carta dell’ONU in un contesto valido settant’anni or sono e che continuiamo a considerare tuttora valido. Le nuove vie alla pace domandano alla diplomazia pontificia però di rileggere questo indicatore in base al capovolgimento di prospettiva proposto da Papa Francesco, facendo uscire dall’obiettivo della pace l’idea della forza organizzata come sinonimo di interesse comune: «Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli» (Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2015), poiché «come cristiani, restiamo profondamente convinti che lo scopo ultimo, il più degno della persona e della comunità umana, è l’abolizione della guerra» (Discorso ai partecipanti al IV Corso di formazione dei Cappellani Militari al Diritto Internazionale Umanitario, 26 ottobre 2015).
5. Certo guardando ai contenuti della cronaca di queste ore non si può ignorare che la guerra, l’appello alla guerra, rimane purtroppo un fatto concretamente presente nella convivenza mondiale. L’unico modo di renderla meno inumana è la sua regolamentazione, legata anzitutto al funzionamento delle regole e delle Istituzioni di cui dispone la Comunità internazionale. Sul versante delle regole, infatti, il ricorso alla guerra da sempre evidenzia l’oggettiva indisponibilità delle parti in conflitto a rispettare i principi della convivenza internazionale o più ampiamente ad applicare il diritto vigente: l’integrità territorialedi uno Stato, il non intervento negli affari interni, il rispetto deldominio riservato, l’autodeterminazione dei popoli, il non uso della forza, la sicurezza e quindi l’autotutela, intesa nella genuina idea della legittima difesa individuale e collettiva, la tutela dei diritti umani. E questo a garanzia non solo delle singole autonomie e degli spazi di sovranità, ma anzitutto della relativa sicurezza per le popolazioni.
La situazione di guerra parallelamente impone al comportamento delle parti in armi il rinvio alle norme dello jus in bello le cui disposizioni classiche, come pure quelle elaborate mediante le più recenti codificazioni, hanno mostrato nella fase più recente un minore livello di condivisione, gradualmente trasformatosi in disapplicazione o in aperta violazione. Un atteggiamento che giunge al mancato rispetto del fondamentale principio di buona fede posto dal modello di Helsinki come circostanza di grande rilevanza riguardo sia ai conflitti in atto sia per la cosiddetta “politica della pace”. Quest’ultima ci riporta alla questione del controllo dei conflitti da parte delle Istituzioni internazionali, poiché l’espressione “politica della pace” presentata come maturazione di indirizzi in sede multilaterale sembra voler ormai sostituire gli impegni e gli obblighi previsti dal diritto internazionale per la soluzione pacifica dei conflitti, lasciando ampi margini a posizioni e decisioni di apparente consenso che risultano soprattutto omissive.
La Santa Sede in questo momento si dichiara pronta ad assicurare ogni possibile contributo perché sia effettivo – riprendo le parole di Papa Francesco – «il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato» (Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2015), per evitare che l’immobilismo resti l’unica strategia e le armi la sola risposta. Si tratta di una posizione costante della Sede Apostolica nell’età moderna e contemporanea, come mostra già l’indicazione di Papa Leone XIII che il 29 maggio 1899, durante la Prima Conferenza della Pace dell’Aia, in una lettera alla Regina Guglielmina d’Olanda auspicava che «fosse trovato modo di ottenere che al sorgere di un conflitto tra le Nazioni, non si giungesse mai a far appello alla forza, prima che qualche voce autorevole ed amica si facesse mediatrice di pace alle Parti in contesa e le portasse a dirimere i loro litigi innanzi al tribunale della ragione». Una posizione che si rannoda direttamente al Principio V dell’Atto Finale di Helsinki, che è stato in grado di produrre nuovi effetti positivi per la pace e la sicurezza. Quel Principio, infatti, va già oltre le previsioni dellaCarta delle Nazioni Unite poiché tra gli obblighi degli Stati ad affrontare e risolvere secondo gli strumenti del diritto ogni minaccia alla pace, considera anche il dovere di astenersi «daqualsiasi azione che potrebbe aggravare la situazione in modo tale da mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e cosi rendere più difficile una soluzione pacifica della controversia»Credo sia sufficiente una lettura delle situazioni in aree definite “a crisi prolungata” – penso alla martoriata Regione mediorientale e alle aree destabilizzate dell’Africa – per costatare gli atteggiamenti degli attori coinvolti che contando solo sulla forza delle armi disconoscono gli obblighi assunti, privilegiano le situazioni di fatto e rendono così impossibile ogni iniziativa di pace. Occorre, cito ancora il Papa, «passare attraverso la “porta stretta” del dialogo, della trattativa, del negoziato o dell’obbligo di risolvere pacificamente le controversie, prevenirle o regolarle e così garantire sicurezza»(Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 25 settembre 2015). Solo il coinvolgimento e l’apporto di tutti: attori in campo, Stati limitrofi, Organizzazioni intergovernative regionali o di gruppo e Paesi realmente interessati a fornire un contributo di pace e non di potenza, può essere garanzia di successo.
6. Il modello di Helsinki resta, dunque, ancora valido, anche in momenti di grande tensione per lo scenario internazionale? Risponderei in modo affermativo e non per la circostanza celebrativa in cui ci troviamo. È valido anzitutto perché esso tende a lasciare ai singoli Stati un margine di autonomia ristretto, se non addirittura residuale, nel perseguire interessi individuali e ancor più esclusivi ed escludenti. Un pericolo da cui Papa Francesco nella Laudato si’ ci mette in guardia quando indica che la «distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi» (Laudato sì, 229).
A tutto questo c’è una sola alternativa che l’azione diplomatica deve saper tradurre in metodo e coniugare con le regole internazionali. Mi riferisco a quell’idea di fraternità che lungi dall’essere un richiamo teorico e forse anche una grande utopia, è la forza viva che ci impegna singolarmente e collettivamente per non restare impreparati di fronte al richiamo che tutti – credenti o non credenti – potremo in ogni momento udire: «Dov’è tuo fratello? … Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Gn 4, 9-11).
Grazie! 


Convegno "il governo di un mondo multipolare" organizzato dalla Fondazione Comunità Domenico Tardini, Roma, 20- 21 novembre 2015