mercoledì 25 novembre 2015

Obiettivi di "sviluppo di gender sostenibile"

L'Onu impone l'indice di sviluppo gender sostenibileL’Onu impone lo "sviluppo di gender sostenibile"
di Tommaso Scandroglio

Si chiamano Obiettivi di sviluppo sostenibile. Tra il 2000 e il 2015 l’Onu ne aveva indicati otto, priorità che i governi soprattutto dei Paesi in via di sviluppo dovevano mettere in agenda, quali la lotta alla povertà, l’accesso a cibo, cure, istruzione per tutti, l’ambiente, l’innovazione industriale ed altri.  Ad agosto l’Organizzazione per le Nazioni Unite ha stilato una nuova serie di obiettivi – ben 17 con 169 sotto-obiettivi - per il periodo 2015-2030. E questa volta i goals voluti dall’Onu, approvati dall’Assemblea generale a settembre, dovranno essere soddisfatti da tutte le Nazioni.
A metà settembre a New York si è svolto un vertice tra i responsabili del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) e l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (Ohchr). In questa occasione si è discusso della creazione di un indice di inclusione delle persone Lgbt. Di cosa si tratta? L’intento è quello di mettere a punto dei parametri per capire se una tale nazione è “inclusiva” verso le persone omosessuali e transessuali (ed altre bizzarre varianti sessuali). In buona sostanza, l’Onu potrebbe bacchettare uno Stato non solo se il suo indice di povertà e scolarizzazione è molto basso, ma anche nel caso in cui si scopra che una certa quota di persone omosessuali non è presente in Parlamento, oppure se non è contemplata nei programmi scolastici una formazione filo gender o che non vi siano strumenti sanzionatori di carattere penale per impedire il dissenso su tematiche legate alla teoria del gender. 
Ad onor del vero i criteri per soddisfare i requisiti di inclusività gender non sono stati ancora resi noti, ma crediamo di essere facili profeti nel predire che gli indici da noi appena accennati non saranno molto dissimili da quelli che potrebbe approvare l’Onu. La riunione di New York ha dato il via poi ad una consultazione tra organismi internazionali, multinazionali e docenti universitari al fine di precisare meglio quali e quanti dovranno essere i criteri affinché uno Stato possa ricevere il bollino blu-Onu, cioè per essere considerata una nazione amica dei gay. La consultazione si è conclusa lo scorso 23 novembre e i risultati verranno discussi tra esperti, attivisti gay e studi legali internazionali a metà dicembre. 
Nel frattempo, tanto per soffiare sul fuoco, due tra le più influenti organizzazioni gay al mondo,l’International Lesbian and Gay Association (Ilga) e l’Outright Action International (Oai), sono scese in campo per far pressione sulle alte sfere dell’Onu affinché si approvino quanto prima questi indici inclusivi. L’Ilga e l’Oai, infatti, sono due Ong accreditate presso l’Onu con finalità consultive e sono state fatte partecipi della consultazione a cui facevamo cenno prima. In una nota dello scorso ottobre dal titolo “Consultation on the Development of Global Lgbti Inclusion Index in the context of the Sustainable Development Goals” queste due organizzazioni danno il proprio contributo alla consultazione. Nella nota si può leggere che negli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile 2015-2030 devono essere inclusi «l’orientamento sessuale, l’identità di genere, l’intersessualità o le persone Lgbti» dato «che la popolazione omosessuale fa parte della popolazione generale e per questo motivo meritevole delle protezioni previste secondo gli accordi internazionali vincolanti per i diritti umani».
Ilga e Oai, quindi, non si sono accontentate che all’obiettivo numero 5 impegna l’Onu a lottare per«l’uguaglianza di genere», ma vuole che un target specifico sia dedicato proprio alla valorizzazione dell’omosessualità e transessualità, tramite appunto la definizione di indici di inclusività specifica a cui dovranno attenersi tutte le nazioni del mondo. Si tratta in definitiva di fissare gli Obiettivi di sviluppo gender sostenibili.  
La volontà che il gender finisca nelle agende di tutti i governi del mondo mette in luce chel’omosessualità e i principi soggiacenti alle teorie sull’identità di genere non possono essere più semplicemente considerate come espressioni di mere libertà sessuali del singolo o di desideri presenti solo nelle sfera privatissima della persona, ma, avendole accostate a bisogni primari come acqua, cibo, energia, salute, pace, etc., assurgono a diritti fondamentali (ed infatti è di questo che si occupa l’Onu), a status antropologici, ad esigenze di base dell’uomo in quanto uomo. In questa prospettiva l’omosessualità e l’identità di genere declinata nell’acronimo Lgbt non devono essere più considerate mere varianti dell’inclinazione erotica o della percezione di sé nella sfera sessuale, bensì categorie antropologiche dell’umanità da sempre esistite e che chiedono di essere finalmente riconosciute. Quasi che il genere umano sia composto da uomo, donna, transgender, bisessuale, etc. La sigla Lgbt, allora, rimanda ad un concetto valoriale e pregno di propria dignità culturale come l’etnia o la razza, dimensioni naturali dell’homo. L’umanità è prima di tutto gender.
L’iniziativa delle lobby omosessualiste non è dunque di piccolo cabotaggio perché in fin dei contichiede soltanto che i gay non vengano insultati per strada o licenziati dal posto di lavoro, ma ha ben altra levatura dato che rivendica il riconoscimento e la tutela di un uomo nuovo, che può essere etero, omo, lesbo, etc. Non più quindi due categorie concettuali accostate tra loro – l’eterosessuale e l’omosessuale – ma un'unica realtà umana, un unico genere di persone al cui interno vi sono specie sessuali differenti. È questo l’ennesimo “uomo nuovo” dopo quello della rivoluzione francese – l’uomo illuminato e laico – quello della rivoluzione comunista – l’uomo proletario –  e quello nietzschiano – il Superuomo. Uomini appunto “nuovi”, perché di certo non inventati da Dio all’inizio della creazione.