mercoledì 23 dicembre 2015

Chiamati a diventare monaci



I cinquant’anni della comunità di Bose. 

(Enzo Bianchi) L’8 dicembre di cinquant’anni fa, all’indomani della levata delle reciproche scomuniche tra Roma e Costantinopoli, si chiudeva il concilio Vaticano ii. In quell’ora benedetta per la Chiesa e per il mondo prendeva sommessamente avvio la vicenda monastica di Bose. 
Come figli della Chiesa, verso il concilio abbiamo solo sentimenti di ringraziamento al Signore per un dono il cui protagonista è stato lo Spirito Santo. Grazie a quell’evento sono emerse come urgenti due indicazioni del Vangelo: la comunione visibile tra tutti i cristiani battezzati nel nome del Signore Gesù e l’ascolto dell’umanità tutta, anche quella non cristiana, impegnata in altre vie di spiritualità o in un cammino di umanizzazione ispirato dalla coscienza. Questo è stato il cambiamento autentico e concreto nello stare della Chiesa nella storia del mondo, declinato secondo le modalità più appropriate nei diversi documenti conciliari.
Se anche il cammino monastico ecumenico a Bose è stato possibile, un cammino allora inimmaginabile, lo dobbiamo all’evento conciliare. Riguardo a Bose, l’unica certezza che continuo a nutrire è che la nostra vicenda abbisogna anch’essa della misericordia del Signore. Per questo non facciamo nessuna commemorazione e nessuna festa in occasione dell’anniversario: non perché vogliamo essere diversi dagli altri, ma perché mettiamo nelle mani del Signore il cammino percorso e gli diciamo e gli ripetiamo ogni giorno Kyrieeleison. Non abbiamo mai voluto “dare testimonianza” circa la nostra vita, né a Bose né altrove. Vorremmo saper dare testimonianza a Cristo, l’unico Signore che riconosciamo, mentre su di noi chiediamo ai fratelli e alle sorelle nella fede la preghiera e al Signore la sua misericordia.
Onestamente, non sappiamo dire se questa vicenda sia stata voluta dal Signore, lo speriamo con tutto il cuore. Non sappiamo se facciamo il bene o se siamo di ostacolo al Signore: ce lo dirà il Signore stesso nel giorno del giudizio. Non sappiamo se a ciascuno di noi sarà dato di sentirsi chiamare beato o benedetto, ma abbiamo cercato di compiere semplicemente ciò che ci sembrava umano e cristiano e non era in contraddizione con quella Parola di Dio che cercavamo e che ci sembrava di trovare nell’ascolto quotidiano delle Scritture, soprattutto nel Vangelo.
Al centro di tutto il nostro vivere c’è il Signore Gesù, quest’uomo che ci ha insegnato a vivere in questo mondo, che è passato facendo solo il bene, che era straordinario perché “umanissimo”, che raccontava Dio con la sua carne, la sua vita, la sua parola. Egli era e è veramente Dio, parola che per noi significa vita e verità, colui che ci precede, ci accompagna, ci segue, qui e al di là della nostra morte. Sì, noi lo amiamo senza averlo visto e senza vederlo crediamo in lui che dà senso alle nostre vite, sempre inadeguate in ogni relazione vissuta: con gli uomini e le donne che incontriamo e con lui, Gesù il Signore, nel quale c’è tutta l’umanità e tutta la divinità.
La vita monastica, come ogni vita cristiana, è questione di vocazione prima ancora e più che di identità. Non solo nei suoi inizi, quando si ritiene di percepire la “chiamata” a seguire il Signore nella radicalità del celibato e della vita comune, ma anche nel suo cammino quotidiano, quando il Vangelo ogni giorno ci chiama a divenire ciò che siamo o, come chiede san Paolo, a «considerare la nostra vocazione» (1 Corinzi, 1, 26). Non si tratta di accedere a una “identità” astratta né di conformarsi a un habitus prestabilito che definirebbe una volta per tutte chi lo fa suo, ma di rispondere affermativamente alla voce del Signore, il quale ogni giorno chiama a ricominciare la sequela. Parafrasando i padri del deserto, ogni monaco dovrebbe ripetere giorno dopo giorno, fino all’incontro faccia a faccia con il Signore: «Non sono monaco, ma sono chiamato a diventare monaco». È l’esempio lasciatoci del vescovo Ignazio di Antiochia che, ormai anziano, nell’imminenza del martirio esclamava: «Ora comincio a essere discepolo» (Ai Romani, v, 2).
Gli anni che passano non fanno che accentuare la consapevolezza della propria miseria e la necessità dell’infinita misericordia del Signore. Per questo, quando facciamo memoria di Lui, quando lo invochiamo, quando a tratti sentiamo di dire con audacia che viviamo con Lui, sgorga spontanea sulle nostre labbra la semplicità del «Kyrie,eleison! Signore, abbi misericordia di noi!». E vogliamo pronunciare questa parola facendoci voce di quanti non riescono a esprimerla, schiacciati dalla sofferenza e dal male e dal peccato, uomini e donne che faticano a vivere e a sperare, poveri perché bisognosi, ultimi, anonimi, non riconosciuti: «Signore, abbi misericordia di noi!». Ma vorremmo essere voce anche degli alberi che ci stanno accanto sussurrando al soffio del vento, degli animali che piangono e cantano, delle pietre immobili che hanno la sola vocazione di restare dove sono.
A distanza di cinquant’anni non possiamo che ripetere quanto affermavamo nella notte di Pasqua del 1973, quando i primi sette fratelli si impegnavano definitivamente di fronte al Signore e alla Chiesa alla vita comune e al celibato: «Vogliamo essere servi del Signore, dei figli della Chiesa che amano il Signore nello spazio della Chiesa, ma come tutti i cristiani. Nessun privilegio, nessuna lettera di raccomandazione, solo la comunione. Siamo nella Chiesa, al cuore della Chiesa, desideriamo che essa ci guardi con la tenerezza di madre come guarda ogni suo figlio». Sempre abbiamo cercato di far nostre le parole di san Pacomio al patriarca di Alessandria: «Noi non siamo che semplici laici». Questa è ancora la vocazione che speriamo di portare a compimento quando chiederemo di essere stesi sulla nuda terra per fare l’esodo da questo mondo alla vita per sempre, per essere ancora insieme come lo siamo stati di qui, nell’amore, nell’amicizia, nella gratitudine, nella sorprendente avventura dell’incontro: come la nostra regola ammonisce ciascuno di noi: «Fratello, sorella, una sola cosa sia la tua preoccupazione, cercare il regno di Dio vivendo il Vangelo. Vivi l’oggi di Dio».
L'Osservatore Romano