sabato 26 dicembre 2015

"Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?"

Gerhard Richter, La famiglia Wende, Olio su tela, 1971. Un commento all'opera si trova alla fine della meditazione.

Gerhard Richter, La famiglia Wende, Olio su tela, 1971.

*

Santa famiglia 27 dicembre 2015Lc 2,41-52Commento al Vangelodi ENZO BIANCHI
41 I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Nella riforma liturgica avvenuta dopo il concilio Vaticano II questa domenica dopo Natale è stata voluta come domenica della santa famiglia di Gesù, con la conseguenza di creare delle difficoltà nella lettura cursiva degli eventi riguardanti la venuta al mondo di Gesù. Facciamo perciò obbedienza al lezionario, chiedendo ai lettori di pazientare di fronte a questo “disordine”, per cui nei prossimi giorni ascolteremo la narrazione di eventi anteriori a quelli del racconto odierno.
Giuseppe e Maria erano credenti fedeli e osservanti della Legge di Dio data a Mosè, dunque ogni anno facevano la salita, il pellegrinaggio alla città santa di Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, memoriale della liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto. Quando Gesù, il figlio nato a Betlemme e ormai cresciuto con loro a Nazaret, compì dodici anni, i suoi genitori lo portarono a Gerusalemme affinché diventasse, attraverso un rito che si svolgeva al tempio, bar mitzwà, “figlio del comandamento”, cioè un uomo credente responsabile della sua identità davanti al Signore e in mezzo al suo popolo. Il ragazzo allora – come avviene ancora oggi tra gli ebrei – saliva sull’ambone dove si leggevano le Scritture, mostrava di saperle leggerle in ebraico come stava scritto e poi, interrogato dagli scribi, gli esperti della Legge, rispondeva, dando prova della preparazione che aveva ricevuto e dello studio in cui si era impegnato, alle domande riguardanti la volontà del Signore inscritta nella Torà.
Così fece anche Gesù. Poi Giuseppe e Maria, parte della carovana partita dalla Galilea, intraprendono il cammino del ritorno, finché alla sera si accorgono che l’adolescente Gesù non è con loro. Un figlio che si è perduto, o che comunque non è accanto ai genitori in viaggio al calare della notte, significa ansia, paura, e dunque ricerca affannosa, innanzitutto all’interno della carovana. Ma Gesù risulta un figlio che non c’è, che desta la domanda: “Dov’è?”, domanda ben più profonda di quanto possa apparire in quella circostanza di sofferenza e di paura. Dov’è Gesù? Giuseppe e Maria decidono allora di ritornare a Gerusalemme e di cercarlo in città, come un figlio che si è perduto o che se n’è andato dalla famiglia. Per tre giorni quella ricerca continua, e tutti noi sappiamo cosa significhi non trovare più qualcuno che amiamo, non sapere dove sia, dover fare i conti con la prospettiva di una sua mancanza definitiva. Tre giorni, il tempo dell’attesa secondo la tradizione ebraica, il tempo dell’angoscia che trova un termine, perché al terzo giorno Dio si fa presente (cf. Os 6,2)… Dopo averlo cercato ovunque, ritornano infine al tempio, là dove Gesù aveva letto le Scritture, diventando un credente adulto, maturo, un vero figlio d’Israele.
Ed ecco, trovano Gesù proprio al tempio, dal quale non era uscito: era rimasto a dimorare là dove dimora la Shekinà, la Presenza di Dio. Egli è seduto tra i rabbini, gli uomini esperti e interpreti delle sante Scritture, intento ad ascoltarli e a interrogarli. Stiamo attenti a non leggere in questo episodio qualcosa di miracoloso e di straordinario, bisognosi come siamo di segni e miracoli, pur di non capire il vero messaggio: Gesù non sta facendo un’omelia che stupisce tutti, ma si fa veramente discepolo dei rabbini, in primo luogo attraverso il loro ascolto e poi interrogandoli, per comprendere meglio ciò che il Signore dice a chi lo ascolta. Dovremmo dunque dire che questa pagina evangelica ci parla di “Gesù discepolo”, ragazzo credente, dotato di “un cuore che ascolta” (lev shomea‘: 1Re 3,9) e capace di porsi domande. Come Samuele cominciò a profetizzare a dodici anni (cf. 1Sam 3), come Daniele a questa età disse una parola di sapienza (cf. Dn 13,45-49), così Gesù manifesta che, anche nella sua crescita, quello che più cercava e più lo coinvolgeva era la presenza del Signore capace di “parlare” a chi si fa figlio dell’insegnamento e “servo della Parola” (cf. Lc 1,2). Ecco dov’è Gesù!
I suoi genitori sono stupefatti, sorpresi, e la madre Maria lo rimprovera: “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo!”. Gesù con semplicità replica loro senza biasimarli, ma facendo una rivelazione, che si esprime con una prima domanda: “Perché mi cercavate?”. Parole che certamente hanno raggiunto il cuore di Maria e Giuseppe, i quali hanno dovuto interrogare se stessi, i loro sentimenti e la loro fede riguardo a questo Figlio dono di Dio, nato per volontà di Dio e non per loro volontà.
Poi Gesù pone una seconda domanda: “Non sapevate che devo stare presso il Padre mio?”. Egli ha un Padre che è il suo vero Padre, da lui riconosciuto come tale: è Dio, e Gesù, ora che è stato messo al mondo ed è cresciuto, deve stare, rimanere presso il Padre, nel tempio che al suo cuore, il Santo dei santi, contiene la sua Presenza. Gesù deve stare presso il Padre, è una necessità per lui, ed egli tante volte nella sua vita sentirà e annuncerà ai suoi discepoli che qualcosa “è necessario, bisogna, occorre” (deî). Lungo tutta la sua esistenza Gesù obbedisce a tale “necessità”, non perché questo sia il suo destino, dal momento che egli conserva sempre una piena libertà, ma perché questa è la sua volontà e la sua missione: compiere ciò che Dio suo Padre gli chiede. Non a caso questa necessitas risuonerà martellante soprattutto a partire dall’ora della sua salita a Gerusalemme per vivere la passione, la morte in croce e ricevere da Dio la vita per sempre attraverso la resurrezione (cf. Lc 9,22; 13,33; 17,25; 22,7.37; 24,7.26.44). Ma ogni volta che Gesù ha detto: “È necessario”, chi lo ha ascoltato non ha compreso. Qui si tratta dei suoi genitori, più tardi saranno i suoi discepoli (cf. Lc 18,34)…
In ogni caso, per compiere anche il comandamento dell’amore verso il padre e la madre, Gesù torna con loro a Nazaret e resta loro sottomesso. Ma ormai il segno è stato dato e verrà il giorno in cui essi comprenderanno, soprattutto Maria, che “custodiva tutti questi eventi-parole nel suo cuore”, come brace sotto la cenere. Il fuoco della fede divamperà per lei alla croce e a Pentecoste (cf. At 2,1-12).
Questa è la festa della santa famiglia, famiglia che si vuole esemplare per le nostre famiglie. Ma allora la si comprenda bene: qui è contestato ogni legame familiare che possa relativizzare il legame con il Signore e l’obbedienza a lui. Di fatto in questa pagina, come nelle altre che mettono in evidenza il legame tra Gesù e la sua famiglia (madre e clan), vi è una forte critica alla famiglia tradizionale con i suoi codici, assolutamente contraddetti dal Vangelo. Dirà Gesù:
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Mt 10,37; cf. Lc 14,26).
Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà (Mc 10,29-30; cf. Mt 19,29-30; Lc 18,29-30).
Dunque, questa festa della santa famiglia pone in crisi la nostra famiglia tradizionale!


L'immagine di Richter ci mette in difficoltà: è un dipinto, ma è sfocato come una foto venuta male. Un primo parere sarebbe quello di dire che è un quadro sbagliato eppure per ottenere questo effetto in pittura ci vuole una grande maestria. Richter realizza il quadro minuziosamente in ogni piccolo particolare così come lo coglierebbe la macchina fotografica e poi con la pittura ancora fresca e leggermente bagnata opera con un pennello a secco. Perché la sfocatura? Perché la memoria e il ricordo sono più potenti del particolare minuzioso. Se il quadro fosse dettagliatamente fotografico il nostro occhio vagherebbe tra le minuzie perdendo di vista il soggetto principale che non è una famiglia specifica, ma il nostro concetto personale di famiglia. La sfocatura ci riporta invece ai nostri ricordi di famiglia, alla nostra vita familiare, a un vissuto che ci sfugge nei particolari, ma che percepiamo come qualcosa che ci appartiene. La sfocatura non ci tiene distanti dal soggetto, ma richiede la nostra partecipazione ripercorrendo nella mente le nostre foto di famiglia attraverso i ricordi.

Ciò che potremmo considerare un errore in realtà apre la strada ad una nuova comprensione del quadro e forse un po' anche di noi stessi.