lunedì 21 dicembre 2015

Piccolo trattato sulla misericordia


di Matteo Matzuzzi
“Volete castigare tremendamente, severamente un uomo, ma al fine di salvarlo e di rigenerare la sua anima per sempre? Schiacciatelo con la vostra misericordia, mostrategli l’amore, ed egli maledirà il suo operato. Quest’anima si dilaterà, sarà schiacciata dal rimorso e dall’infinito debito che d’ora in poi le starà dinanzi”
Fëdor Dostoevskij, “I Fratelli Karamazov”

E’ appeso per bene, sulla facciata di San Marcello al Corso, a Roma, il manifesto che ricorda a tutti che siamo nell’Anno santo della misericordia. C’è pure il volto sorridente di Francesco, il Papa, a indicarlo, accanto al logo multicolore partorito dalla fantasia del gesuita Marko Rupnik. E’ domenica mattina, la terza d’Avvento chiamata “Gaudete”, quella in cui i sacerdoti vestono di rosaceo e smettono il lugubre e penitente viola. E’ l’ora della messa e due signore vanno di fretta per non perdersi nemmeno il trillo del campanello che annuncia l’ingresso del prete sull’altare. C’è un mendicante, il solito, seduto sugli scalini: una delle donne si ferma, mette nel bicchiere del questuante una moneta da un euro e serafica commenta: “Ecco, fatto il Giubileo”, perché – era l’aggiunta dell’altra – “Giubileo è fare un po’ la carità”. Il che non è sbagliato; in fin dei conti il Papa ha invitato a riscoprire le “opere di misericordia corporale”, tra cui rientra, per l’appunto, anche il “dare da mangiare agli affamati”. E poi sarà stato anche merito del Vangelo del giorno, in cui il Battista raccomandava a chi ha due tuniche di darne una a chi non ne ha, o forse avrà esercitato tutto il suo influsso il clima natalizio in cui s’è immersi, testimoniato anche dai cento Babbo Natale che sfrecciavano in bicicletta lungo via del Corso. Ma misericordia è davvero riducibile solo al fare la carità, alla pietas sgravata di senso religioso e ridotta a testimoniare un senso d’umanità verso un disgraziato? Non proprio, a sentire il massimo esperto di misericordia in Vaticano, il cardinale Walter Kasper, lodato pubblicamente dal Papa nel suo primo Angelus proprio per il libro sulla misericordia. Questa parola, notava il teologo tedesco, “significa avere a cuore i poveri, ma si tratta di una povertà in senso largo, non solo materiale, ma anche relazionale, spirituale, culturale, e così avanti”. Non c’è solo cuore, insomma, non si tratta di provare solo “un’emozione”, ma è anche un “comportamento attivo”, aggiungeva Kasper conversando con il magazine americano Commonweal: “Devo cambiare, per quanto mi è possibile, la situazione in cui si trova l’altro”.

Il problema è che “troppo spesso, anche in buona fede, si tende a confondere la bontà di Dio con il buonismo degli uomini – “misericordia è bontà, non buonismo”, concordava qualche giorno fa il cardinale Pietro Parolin – la misericordia divina con un condensato di propositi sentimentali”, ha scritto sull’Osservatore Romano Gualtiero Bassetti, cardinale arcivescovo di Perugia. Ed è vero che “il Papa lo ha detto in tutti i modi”, ma evidentemente non abbastanza: “E’ necessario sottolinearlo di nuovo perché troppo forte è il rumore di fondo che scaturisce dalle viscere delle nostra società e che può creare confusione: la misericordia – sottolineava con grande efficacia Bassetti – non è una superficiale verniciatura di bianco che copre i nostri peccati; non è una pennellata di smalto luccicante sopra le nostre sporcizie; e non è neanche un’operetta teatrale recitata con un linguaggio sdolcinato e melenso”. Lo scriveva, dall’altra parte dell’oceano, anche l’arcivescovo di Philadelphia, Charles J. Chaput, in un lungo articolo apparso su First Things, l’autorevole rivista cattolica americana d’orientamento conservatore: c’è il rischio assai concreto che la misericordia venga scambiata per pietà. Faceva un esempio, Chaput, per chiarire il senso della sua preoccupazione: “Spesso pensiamo alla misericordia come qualcosa di opposto al corretto giudizio. Ma ciò è fuorviante. Si consideri un insegnante che si accorge che uno dei suoi studenti sta male, con lividi e altri segni di percosse. Sentirsi male per il bambino non serve a niente. La vera misericordia comporta un’azione, dei fatti. Il bambino è abusato a casa? E’ stato picchiato a scuola? Le decisioni vanno prese, le azioni malvagie segnalate. I malfattori devono essere condannati. E’ una falsa pietà quella che compatisce un bambino che soffre ma poi si esime dal toglierlo dalle mani di chi gli fa del male. Una persona misericordiosa è veloce nel servirsi del potere che ha per distruggere il male. E questo è ciò che Dio fa in tutta la Scrittura”. Basterebbe, forse, leggere la corposa Bolla di indizione del Giubileo, dove Francesco chiarisce senza troppi svolazzi teologici ed espedienti letterari che “l’architrave che sorregge la vita della chiesa è la misericordia”. Scriveva, il Papa, che “tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia”. Insomma, “la credibilità della chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole”. E poi, come ha anche ricordato nel Messaggio per la Giornata della Pace in calendario il prossimo 1° gennaio, “la misericordia è il cuore di Dio”, definizione che fa il paio con quella usata tre decenni fa da Giovanni Paolo II, quando parlò della misericordia come del “più stupendo attributo del Creatore e del Redentore”, di “secondo nome dell’amore”.

Eppure, quanti fedeli sanno realmente quale è il suo significato, oggi? Padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, ha osservato che misericordia è parola che “sembra essere dimenticata sia nell’ebraismo, come anche nell’islam e in modo particolare nel cristianesimo”. Pare incredibile, essendo essa “una delle virtù importanti e fondanti”. Pizzaballa dice di guardare alle guerre in corso – piccole o grandi che siano – per rendersene conto. “Noi, piccola comunità cristiana, vogliamo ricordarci innanzitutto la misericordia che Dio ha usato con noi: l’essere una presenza di misericordia, di perdono, di riconciliazione, laddove le situazioni sembrano anche incancrenite o irreversibili. E’ l’unica parola positiva che possiamo dire in questo contesto lacerante”. Giovanni Paolo II era consapevole del problema, tanto da dedicarvi un’intera enciclica, Dives in misericordia, promulgata nel lontano 1980, agli albori del suo pontificato. “La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato – osservava Karol Wojtyla – sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì a emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia”. Notava, il Pontefice polacco, che “la parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo”. Vent’anni più tardi avrebbe ribadito che “la misericordia non perdona soltanto i peccati, ma viene anche incontro a tutte le necessità degli uomini”, poiché “Gesù si è chinato su ogni miseria umana, materiale e spirituale”. Concetto che Francesco, nella Bolla, ha schematicamente riassunto in quattro punti, alla maniera dei gesuiti: “Misericordia è la parola che rivela il mistero della Santissima Trinità. Misericordia è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato. Misericordia è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino di vita”. Parole, queste ultime, “di intenso ottimismo”, ha scritto il teologo Vito Mancuso. Parole secondo cui “ogni essere umano, se prende sul serio la luce che pervade lo sguardo dell’altro, si apre alla dinamica della relazione interpersonale e può superare il conflitto che abita la superficie dell’essere”.

Come ha detto ancora Gualtiero Bassetti, “la misericordia è la testimonianza virile della presenza di Dio nella vita degli uomini. Una testimonianza che si presenta come una propensione all’accoglienza e al perdono e che ci mostra, inequivocabilmente, qual è la strada dell’amore cristiano”. Citava, l’arcivescovo di Perugia, una “stupenda immagine evangelica” commentata con sapienza da don Divo Barsotti, “un mistico del Novecento per nulla incline al buonismo e al compromesso a buon mercato”: l’episodio evangelico della peccatrice che entra nella casa di Simone il fariseo durante il pranzo con Gesù. La donna si rannicchia ai piedi del maestro di Nazaret, inizia a baciarli e a cospargerli d’olio. Alla fine, Gesù le dice: “la tua fede t’ha salvata; va’ in pace!”. Ecco, dice Bassetti, “in quell’avvenimento così ricco di significati si manifesta la grandezza della misericordia di Dio e si può cogliere appieno la gioia della peccatrice in lacrime redenta dall’amore del Cristo”.
Ma perché convocare un Giubileo dedicato specificamente al tema della misericordia? Bruno Forte, teologo e vescovo, vi vede una ragione storica – è la rivoluzione del perdono dopo le violenze e la macelleria del Novecento, secolo breve, come nella definizione di Eric Hobsbawm –, una prettamente teologica e una (forse la principale) esistenziale: “Si tratta di un annuncio che risponde al bisogno più profondo del cuore umano. Fatti per amare a immagine e somiglianza del Dio che è amore, tutti sperimentiamo la fatica e i fallimenti dell’amore: perciò, in tutti è viva la nostalgia di un abbraccio accogliente, di una misericordia che liberi e sani, di un perdono che rigeneri”.

S’è forse perso, oggi, quel sentire – per dirla con Joseph Ratzinger (“Guardare a Cristo”, Jaca Book, 1986) la “santa ira” di Gesù, “la durezza della verità e del vero amore”. Tante volte a emergere è semmai quella che l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede definì “una sua miserabile caricatura”. Il vero perdono, sottolineava Ratzinger, “è qualcosa del tutto diverso da un debole ‘lasciar correre’. Il perdono è esigente e chiede a entrambi – a chi lo riceve e a chi lo dona – una presa di posizione che concerne l’intero loro essere”. E’ l’eterna questione del legame che sussiste tra la misericordia e la giustizia, tema tornato d’attualità nel dibattito sinodale. In un libro uscito in Italia nell’estate del 2014 (“La speranza della famiglia”, Ares), l’attuale capo del Sant’Uffizio, il cardinale Gerhard Ludwig Müller, entrava a piè pari nell’oggetto del contendere: “I dati della Scrittura rivelano che, oltre la misericordia, anche la santità e la giustizia appartengono al mistero di Dio. Se occultassimo questi attributi divini e si banalizzasse la realtà del peccato non avrebbe alcun senso implorare per le persone la misericordia di Dio. La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dagli insegnamenti della chiesa. E’ tutto il contrario: Dio, per infinita misericordia, ci concede la forza della grazia per un pieno adempimento dei sui comandi e così ristabilire in noi, dopo la caduta, la sua immagine perfetta di padre del cielo”.

Francesco, nell’omelia pronunciata dinanzi ai nuovi cardinali, lo scorso febbraio, chiariva che la strada della chiesa “è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione. Questo – aggiungeva – non vuol dire sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo. La strada della chiesa – diceva ancora il Papa – è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle periferie essenziali dell’esistenza”.

Parole che paiono essere la parafrasi di quanto Dostoevskij fece dire allo starec Zosima, nei “Fratelli Karamazov”: “Non farti prendere dall’angoscia. Basta che il pentimento non ti si indebolisca dentro, e Dio perdonerà tutto. Nel mondo intero non c’è e non ci può essere un peccato tanto grave, che il Signore non lo perdoni a chi se ne pente proprio di cuore. Al pentimento sì, pensaci sempre, ma la paura scacciala via senz’altro. Abbi fede che Dio ti ama tanto, che tu non puoi neppure immaginartelo: ti ama nonostante il tuo peccato. E tu se provi pentimento, vuol dire che ami. E se amerai, tu sarai già di Dio”.
Il Foglio