lunedì 21 dicembre 2015

Utopia, desideri, scienza e le nuove superstizioni

totò-iettatore
di Roberto Brega
Ora, quando pensiamo a una persona superstiziosa siamo certamente abituati a figurarci qualche cliente del mago Otelma, qualcuno che evita di passare sotto le scale o indulge in altre simili stranezze. Qualcuno che si affida alla magia o al paranormale. Questo è il superstizioso; ma io mi accorgo spesso di pensare alla superstizione in un modo più ampio. Nella nostra epoca, sembra che il pensiero superstizioso non si rivolga tanto a una visione distorta della realtà sovrannaturale, quanto piuttosto a una visione distorta della realtà naturale. Il che non è strano, a ben pensarci, ma conseguenza del dilagante materialismo.
E’ probabilmente più corretto chiamare questo tipo di superstizioni ‘utopie’. L’utopia si differenzia dalla superstizione in senso stretto per la sua struttura apparentemente razionale, ed è ciò che la rende da un paio di secoli così appetibile. Qualsiasi utopia vagheggia realtà ideali al cui epicentro non c’è più Adamo/Cristo, ma l’Uomo Nuovo, e il fatto che tutte siano fallite non significa che gli esseri umani non ne cerchino altre poiché purtroppo, dobbiamo prenderne atto, il fatto cristiano non è riuscito, a oggi, a riappropriarsi dell’epicentro lasciato dal vuoto ideologico. Ciò che le promesse politiche utopiche non sono riuscite a realizzare sembrano ormai defluire verso altri tipi di promesse utopiche: spesso, promesse scientifiche.
E’ interessante notare come questo corrisponda a un movimento sempre più individualista dell’utopia: la politica di certo ambisce a occuparsi del bene collettivo più di quanto non faccia la scienza (lasciamo perdere come lo faccia… ). Non che la scienza sia estranea al bene collettivo, tutt’altro!, ma spesso la visione scientifica parte da una visione del bene dell’individuo osservato singolarmente.
Ci sono tanti indizi che fanno pensare alla scienza come alla nuova frontiera dell’utopia, innanzi tutto il carico di aspettative che gli uomini affidano a essa, in termini di proprio benessere individuale e della convinzione che essa possa divenire la chiave per realizzare qualsiasi desiderio e brama.
La violenza dei desideri disordinati che si rivolgono alla scienza per venire soddisfatti si misura anche nell’atteggiamento riservato a chiunque opponga proteste e obiezioni a certi aspetti della ricerca scientifica: ogni obiezione si liquida come un attentato alla libertà di ricerca o come ostilità inspiegabile verso la scienza e la tecnica. Queste sono le affermazioni difensive che siamo abituati a sentire e davanti alle quali piegarci, anche se in una discussione razionale risultano del tutto fuori luogo e dovrebbero screditare colui che le porta in campo, in quanto congegnate per costringere l’interlocutore a rinunciare a usare la propria razionalità.
Penso per esempio alla ricerca sulle cellule staminali ottenute dalla distruzione degli embrioni umani: nessuna obiezione morale, né alcuna obiezione relativa al valore di tali ricerche può resistere all’aspettativa utopica. La ricerca non può essere limitata per la semplice ragione che fare diversamente sarebbe un atto di lesa maestà inflitto alla scienza. Ciò che conta non è tanto il valore di una ricerca, quanto la necessità che le aspettative di cui la scienza viene investita non vengano frustrate.
Un altro atteggiamento nei confronti della scienza che suscita in me molta diffidenza è il modo stesso in cui spesso ci si appella alla scienza. “La scienza lo deciderà, la scienza ce lo dirà, la scienza se ne occuperà, la scienza lo giudicherà… “. Nel linguaggio stesso la scienza viene antropomorfizzata (deificata?) e la sua marcia risulta incontestabile come quella dell’ormai defunto sol dell’avvenir.
Se non che la scienza non è un ente dotato di intelletto e volontà, quindi non può né decidere, né giudicare, né occuparsi di alcunché. Così naturalmente non è tanto la scienza, quanto coloro che a vario titolo possono fregiarsi del titolo di scienziati, a essere investiti di determinate attese e così acquisire un’autorità che, combinata alla reale complessità di ciò di cui si occupano, li pone nella condizione di disporre di un enorme potere, capace di determinare e influenzare fortemente le coscienze.
Qui nasce un bel problema, perché lo scienziato è solo un essere umano che si occupa con maggiore o minor fortuna di scienza. Ma ciò non gli assicura alcuna particolare protezione dal peccato originale; l’idea che lo scienziato sia posseduto dalla sua vocazione così intensamente da rendergli impensabile tradire o abbandonare il metodo scientifico a favore dei suoi interessi personali, è anch’esso un pensiero superstizioso (e ingenuo). Come tutti gli uomini, egli può essere sedotto, corrotto, costretto, lusingato. Può desiderare l’approvazione e la condiscendenza dei suoi pari e dei suoi maestri e sforzarsi di adeguarsi all’ipotesi scientifica più comune senza verificarla quanto dovrebbe, nel timore che questo gli attiri discredito o disprezzo. E’ insomma, come tutti noi, figlio di Adamo.
Uno scienziato “fa” scienza solo finché applica al meglio il metodo scientifico. Quando decide diversamente, che cos’è? E a nome di che cosa parla?
Eppure porsi questi interrogativi, o addirittura opporre considerazioni di carattere razionale e di buon senso a certe ipotesi scientifiche che si vorrebbero veicolare come certezze, suscita spesso, come dicevo, reazioni pavloviane: “arretrato”, “timoroso del progresso”, “che ne sai tu?”, “lo deciderà la scienza non certo tu.” ecc.
La resa della ragione e del buon senso deve essere assoluta. Non è previsto prendere prigionieri. La coscienza di colui che non ha ricevuto il ‘sigillo’, il ‘sacramento’, della ‘scienza’, deve alzare bandiera bianca. Non è consentito chiedersi se e fino a che punto l’uomo che fa e sa di scienza stia davvero applicando il metodo scientifico o non si sia fatto per le più varie ragioni strumento di una ideologia. Nessuno deve mettere in discussione il circuito chiuso per il quale solo chi sa di scienza può stabilire se si stia usando il metodo scientifico oppure no. A un principio di ragione va a sostituirsi in pieno un principio di autorità che non può essere indagato.
La resa del buon senso è quanto di più importante, sia perché il buon senso può accomunare credenti e non-credenti, sia perché il buon senso sarebbe in realtà lo strumento più agile e uno dei migliori per mettere almeno in discussione le istanze ideologiche che vogliono indossare la maschera di verità scientifica. Una volta ceduto il buon senso (e le solide considerazioni razionali che da esso scaturiscono), ben poco resta a difendere la coscienza del singolo dalla violenza dell’utopia. Ecco che così l’idolo davanti al quale prostrarsi è stato eretto.
Concludo.
Le utopie di solito attraversano una fase maniacale e una depressiva, come certi squilibri psichici. Per quasi tutto il XX secolo e fino convenzionalmente alla caduta del muro di Berlino, fu la tecnica assieme a scienze come la sociologia e l’economia a venire caricate di attese utopiche. La scienza, pure fondamentale all’interno di queste utopie, era a servizio di un pensiero ideologico politico ed economico. Morte le ideologie e giunta la frustrazione di vedere fallite attese di fatto irraggiungibili, la scienza si propone ora come una forza Redentrice. L’attesa di redenzione, il bisogno che il cuore umano sente, di cercare fuori da sé la propria salvezza resta, sempre, ma è piegato su un piano solo naturale. L’ideologia di un progresso inarrestabile e sempre crescente, mostrato il suo volto di menzogna, diventa il peccato che la scienza stessa si propone di redimere. La bruttura di tanti edifici e complessi industriali che oggi ci ripugnano, nel momento in cui venivano prima progettati e poi costruiti, contenevano anche nella loro stessa bruttezza il sogno di inaugurare un’epoca nuova. Tolkien lo aveva capito bene, infatti rese questo sogno il sogno di Saruman. Svanito il sogno, resta il peccato: poiché un certo tipo di progresso umano ha fallito la sua promessa, si esige che il progresso, tutto quanto, espii le sue colpe. Non sia mai che si ammetta con onestà che non era il progresso, ma le utopie che lo avevano cavalcato, a sbagliare. A indossare il mantello del salvatore è perciò logicamente la difesa ambientale (doverosa, quanto il progresso). Per rendersene conto basta aver ascoltato con attenzione il linguaggio mediatico che ha preceduto, accompagnato e seguito la conferenza delle N.U. sui cambiamenti climatici: un linguaggio che è fin troppo facile definire messianico. Nessun dubbio che anche questa utopia farà la stessa fine di tutte le altre: da stabilire sono i danni che, come al solito, farà nel frattempo.