domenica 27 dicembre 2015

Y come Yahweh

Prayer


di Paolo Gulisano
Il nome in questa forma - “Yahweh” - rappresenta la versione accademica della parola ebraica composta da quattro lettere (yodhhewawhe), in qualche modo corrispondenti alle lettere del nostro alfabeto YHWH, e perciò detta “tetragramma”.
Con queste lettere veniva indicato nella Bibbia il nome di Dio. Peraltro gli ebrei evitavano di pronunciarne il nome per non profanarlo (“non nominare il nome di Dio invano”, terzo comandamento secondo la tradizione ebraica, secondo comandamento secondo la tradizione cattolica), mentre nella Bibbia è reso per iscritto soltanto con il tetragramma. Gli ebrei talvolta usavano il termine Adonai, che significa “Signore”, uso poi ripreso dai cristiani.
Il nome stesso di Gesù,  dall’aramaico Yehošuah, significa “Yahveh (Dio) è salvezza”. Il nome ha un contenuto dinamico: rappresenta e in qualche modo racchiude in sé una forza. Esso designa l’intima natura di un essere, poiché contiene una presenza attiva di quell’essere.
Platone diceva che “chiunque sa il nome, sa anche le cose”; conoscerlo vuol dire conoscere la ‘cosa’ in se stessa. Il nome “occupa” uno spazio, ha la “proprietà” della cosa e la spiega.
Il nome di nascita indica in primo luogo, l’”essenza” di una persona, le sue prerogative, le qualità e i difetti; pronunciandolo si è come in presenza di colui che si nomina, si dà ad esso una precisa dimensione.
L’esigenza di sapere il nome della divinità in cui si crede, è stato sempre intrinseco nell’animo umano, perché il nome stesso è garanzia della sua esistenza.
Quando Mosè viene chiamato da Dio alla sua missione fra il popolo ebraico, gli chiede il suo Nome da poter comunicare al popolo, che senz’altro gli chiederà “Chi ti ha riconosciuto principe su di noi?”.
E il Dio di Israele, conosciuto inizialmente come il “Dio degli antenati”, il “Dio di Abramo di Isacco di Giacobbe”,  rivela il suo nome “Yahweh”, che significa “Egli è”; e questo Nome entrò così a far parte della vita religiosa degli israeliti, e mediante gli interventi sovrani nella storia, il nome di Yahweh divenne famoso e noto.
Il nome di Dio ci richiama al centro di tutto il messaggio biblico e cristiano: Dio ci ha voluti, ci ha pensati, ci ha creati, ci ha amati. Dio non è un concetto astratto,non è una serie di lettere “magiche” impronunciabili: Dio ha un nome, e anche un volto.
“Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”. Questa celebre affermazione, che apre le Confessioni di sant’Agostino, esprime efficacemente il bisogno insopprimibile che spinge l’uomo a cercare il volto di Dio. É un’esperienza attestata dalle diverse tradizioni religiose.
Fin dai tempi antichi, presso ogni popolazione umana si è avvertita quasi una percezione di quella forza arcana che è presente al corso delle cose, agli avvenimenti della vita umana. Anzi, talvolta si avverte un riconoscimento della divinità suprema o anche del Padre.
Tante preghiere della letteratura religiosa universale esprimono la convinzione che l’Essere supremo possa essere percepito e invocato come un padre, al quale si arriva attraverso l’esperienza delle premure affettuose ricevute dal padre terreno.
Proprio questa relazione ha suscitato in alcune correnti dell’ateismo contemporaneo il sospetto che l’idea stessa di Dio sia la proiezione dell’immagine paterna. Il sospetto, in realtà, è infondato. É vero tuttavia che, partendo dalla sua esperienza, l’uomo è tentato talvolta di immaginare la divinità con tratti antropomorfici che rispecchiano troppo il mondo umano.
La ricerca di Dio procede così “a tentoni”, come Paolo disse nel discorso agli Ateniesi. Occorre dunque tener presente questo chiaroscuro dell’esperienza religiose, nella consapevolezza che solo la rivelazione piena, in cui Dio stesso si manifesta, può dissipare le ombre e gli equivoci e far risplendere la luce.
L’idea di un padre divino, pronto al dono generoso della vita e provvido nel fornire i beni necessari all’esistenza, ma anche severo e punitore, e non sempre per una ragione evidente, si collega nelle società antiche all’istituzione del patriarcato e ne trasferisce la concezione più abituale sul piano religiose.
In Israele il riconoscimento della paternità di Dio fu continuamente insidiato dalla tentazione idolatrica che i profeti denunciarono con forza. In realtà per l’esperienza religiosa biblica la percezione di Dio come Padre è legata, più che alla sua azione creatrice, al suo intervento storico-salvifico, attraverso il quale stabilisce con Israele uno speciale rapporto di alleanza.
Un intervento che ha il suo culmine nella Rivelazione, nel donare a tutto il mondo, a tutta l’umanità, se stesso attraverso il dono del proprio figlio. Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.
Gesù Cristo, nato a Betlemme da Maria, è centro del cosmo e della storia: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». La lunga attesa dell’umanità si compie nell’incarnazione: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio...», per mezzo del Figlio-Verbo, che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria.
In questo atto redentivo, la storia dell’uomo ha raggiunto nel disegno d’amore di Dio il suo vertice. Dio è entrato nella storia dell’umanità e, come uomo, è divenuto suo «soggetto».
Attraverso l’Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha data in maniera definitiva - nel modo peculiare a Lui solo, secondo il suo eterno amore e la sua misericordia.