martedì 26 gennaio 2016

Fede e testimonianza personale

Family Day 20 giugno
Ridurre la fede a testimonianza personale è la negazione della Dottrina sociale della Chiesa
di Luigi Negri*
Nel dibattito che caratterizza questo momento della vita ecclesiale e sociale italiana attorno al disegno di legge sul riconoscimento delle unioni civili, e sulla possibilità di adottare figli da parte delle coppie omosessuali, si stanno profilando soprattutto in campo cattolico alcuni elementi che ripropongono in modo artificioso una situazione culturale che si pensava fosse stata definitivamente superata. 
Ricompare il dualismo. Dualismo fra l’esperienza della fede ridotta a impegno della coscienza personale privata, caratterizzata da espressioni di autentica spiritualità; e l’impegno culturale, sociale e politico che non si collega strutturalmente alla fede, ma risponde ad una logica mondana che ha una sua consistenza, una sua dignità.
Questo dualismo tra fede e cultura, tra fede e impegno culturale, sociale e politico, ha rappresentato il più grosso handicap per la vita della Chiesa - almeno quella italiana, che conosco più direttamente – grosso modo dal Concilio Ecumenico Vaticano II fino all’inizio del pontificato di san Giovanni Paolo II. Questa tendenziale separazione fra la vita di fede personale e l’impegno culturale sociale e politico ha fatto sì che la Chiesa sostanzialmente rischiasse di autoemarginarsi dalla vita della società. 
Ritorna dunque questo dualismo per cui il problema di fronte alla vicenda politica attuale non sembra essere quello di contestare nei modi possibili l’approvazione di questa legge, che è evidentemente negativa nei confronti della struttura stessa della vita sociale, ma quello di comprendere personalmente le ragioni che stanno alla base di questo disegno di legge, immedesimandosi per quanto è possibile con i desideri umani che sostengono poi il cammino socio-politico.
Ora è qui che secondo me avviene un ritorno a una situazione che è già stata portata a maturazione e superata da Giovanni Paolo e Benedetto. L’esperienza della fede è un’esperienza che unifica la persona e tale unificazione diviene matura nella misura in cui la persona partecipa alla vita e all’esperienza ecclesiale. Non sono due logiche diverse e contrapposte. La fede è un fatto eminentemente personale che tende per sua forza a investire la vita personale, i rapporti fondamentali che la persona ha, fino all’impegno nelle vicende e nelle situazioni socio-politiche. 
Ricordo ancora a tantissimi anni di distanza con infinita gratitudine, che mons. Luigi Giussani mi consigliò di leggere un libretto aureo del cardinale Danielou: «La preghiera problema politico». Questa unità della persona si esprime poi a livello dei rapporti personali, delle capacità di coinvolgersi nella vita delle persone, di comprendere i problemi e le difficoltà, ma si esprime anche nel tentativo di investire la vita sociale offrendo a questa punti di riferimento, criteri di giudizio, valutazioni e prospettive in cui i cristiani credono di poter dare un contributo originale e di caratteristico alla vita della società.
È indubbio che i mezzi di comunicazione sociale, le forze anticattoliche che sono alle spalle di questo movimento che sostiene il ddl Cirinnà, considerano già acquisito il risultato, falsificando alcuni elementi; per esempio quelli – come dimostrato – che riguardano il numero dei paesi in cui queste nuove strutture giuridiche sono in atto. Ritenendo che l’Italia sia obbligata dalle decisioni o, meglio ancora, dagli inviti dell’Unione Europea ad attuare questo.
In questo momento lo stesso impeto che apre la nostra vita personale ai nostri fratelli uomini, ci deve costringere ad essere presenti nell’ambito specifico della vita politica e addirittura nel tentativo di entrare in maniera positiva nel dibattito parlamentare. Ed è la stessa logica di fede e di missione che caratterizza la vita di carità personale, che impone a una minoranza come quella cattolica, priva ormai di effettive rappresentanze parlamentari, se non in numero ridotto, di farsi presente attraverso uno strumento - la manifestazione pubblica - che la vita sociale e politica attuale considera una autentica e correttissima forma di pressione.
Dire che l’uomo di fede deve ridursi agli impegni della coscienza personale, della cosiddetta testimonianza privata, tralasciando tutto quel che riguarda l’impegno a giudicare dal punto di vista della fede e a intervenire dal punto di vista della cultura che nasce dalla fede nelle questioni significative della vita culturale e sociale, è una posizione che è di certa parte della Chiesa cattolica nei decenni scorsi, ma che oggi può essere assunta tanto in quanto si pretende di eliminare l’insegnamento del magistero della Chiesa lungo tutto i grandi momenti della Dottrina sociale nel XIX e XX secolo e soprattutto nel magistero morale, sociale e politico di san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
La vicenda che si svolge nel cosiddetto mondo della cristianità italiana è una vicenda di grande importanza che deve essere affrontata con grande chiarezza teologica senza quegli emotivismi e sentimentalismi che non fanno procedere il discorso ma lo confondono sempre di più.
Siccome in questa vicenda, dalla stampa più di una volta è stato fatto riferimento alla testimonianza, all’insegnamento, alla presenza di mons. Luigi Giussani, con cui ho potuto sostanzialmente convivere per oltre 50 anni, posso affermare che è impensabile identificare la sua posizione con il riformularsi di quei dualismi che egli aveva combattuto appassionatamente lungo tutto la sua storia. 
Il rifiuto del dualismo delle scelte religiose, della riduzione privatistica della fede, del silenzio di fronte alle questioni della vita politica, cultura, sociale, sono stati di grande intendimento ecclesiale e pastorale di mons. Giussani. Voleva creare un movimento, cioè un popolo cristiano, che forte della sua identità, animato dalla carità e dalla missione, sapesse intervenire in maniera originale e creativa in tutti gli spazi della vita culturale, sociale e politica. E non attento agli esiti, che dipendono sempre da molti fattori, ma attenti al fatto che attraverso questa testimonianza pubblica si incrementasse la fede. Dopo averla sentita, don Giussani aveva fatto sua la grande espressione di san Giovanni Paolo II: la fede si incrementa donandola, si irrobustisce donandola. E quell’altra grande intuizione: che è cioè la missione, l’identità e il movimento di ogni realtà ecclesiale. 
* Arcivescovo di Ferrara-Comacchio e Abate di Pomposa

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La spinta di Bagnasco al Family Day
di Lorenzo Bertocchi


Il vero bene dei figli «deve prevalere su ogni altro, poiché sono i più deboli ed esposti: non sono mai un diritto, poiché non sono cose da produrre; hanno diritto ad ogni precedenza e rispetto, sicurezza e stabilità».
È un passo significativo della prolusione del Presidente CEI,cardinale Angelo Bagnasco, che è stata pronunciata ieri pomeriggio in apertura del Consiglio permanente dei vescovi italiani. Nell’ambito di un intervento ampio, che ha toccato anche il problema dell’immigrazione, il tema principale della prolusione è ruotato intorno alla questione della famiglia, delle sue difficoltà e degli attacchi culturali che subisce. 
L’attesa mediatica era tutta per la questione scottante del ddl Cirinnà e del Family day di sabato prossimo al Circo Massimo di Roma. Come era prevedibile Bagnasco non ha fatto un riferimento diretto alla manifestazione organizzata dal Comitato Difendiamo i nostri figli, ma sono diversi i passaggi che mostrano come i vescovi prendano posizione sul tema. 
Il primo punto che si può sottolineare è quello delle citazioni di Papa Francesco. Il cardinale Bagnasco ne fa due: «I bambini hanno diritto di crescere con un papà e una mamma. La famiglia è un fatto antropologico, non ideologico»; e poi: «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». 
Queste due citazioni sono chiarissime e mostrano dove si orientano i vescovi italiani, non ne fanno una questione partitica, ma certamente politica, nel senso che il bene comune passa inesorabilmente dalla promozione della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, aperti alla vita, e che si promettono amore fedele per sempre. «Ogni Stato - ha detto Bagnasco - assume doveri e oneri verso la famiglia fondata sul matrimonio, perché riconosce in lei non solo il proprio futuro, ma anche la propria stabilità e prosperità».
«Mai dobbiamo dimenticare l’identità propria della famiglia e la sua importanza per la stabilità e lo sviluppo economico del Paese, nonché l’imprescindibile ruolo che riveste per l’educazione delle nuove generazioni». È stata ricordata anche la Costituzione, auspicando che «nella coscienza collettiva mai venga meno l’identità propria e unica di questo istituto» che, in quanto «soggetto titolare di diritti inviolabili, trova la sua legittimazione nella natura umana e non nel riconoscimento dello Stato. Essa non è, quindi, per la società e per lo Stato, bensì la società e lo Stato sono per la famiglia».
Il cardinale ha parlato anche di «diritti di ciascuno» da garantirsi «su piani diversi secondo giustizia», come a delineare percorsi di possibili regolamentazioni normative per altre situazioni che però sarebbero assai discutibili. Ma subito dopo ha specificato che la giustizia «è vivere nella verità, riconoscendo le differenti situazioni per quello che sono, e sapendo che – come ha ribadito il Santo Padre - quanti (…) vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
Infine, sono da rilevare altre due indicazioni importanti. La «compattezza» dei vescovi italiani «nel  condividere le difficoltà e le prove della famiglia e nel riaffermarne la bellezza, la centralità e l’unicità», e  poi il riconoscimento del ruolo dei laici così come indicato dal Concilio Vaticano II: spetta ai laici, ha detto Bagnasco, «di iscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Assumano la propria responsabilità alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (GS, n. 43).
Quest’ultimo passaggio è un chiaro riferimento alla manifestazione di sabato al Circo Massimo, perché, ha specificato il cardinale, «i credenti hanno il dovere e il diritto di partecipare al bene comune con serenità di cuore e spirito costruttivo».
Giovedì comincia la discussione in aula del ddl Cirinnà, sabato il Family day. C’è da immaginare che, con “serenità di cuore”, i laici che saranno al Circo Massimo chiederanno innanzitutto chiarezza, pronunciando il loro “no” a tutto il ddl Cirinnà.

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La Costituzione e i tre inganni delle unioni civili
di Giorgio Carbone

Inizio con due avvertenze. 1) Do per scontato che tu abbia chiaro che già oggi in Italia le persone conviventi dello stesso sesso hanno i diritti che invocano (clicca qui). 2) Tenteremo di procedere secondo il metodo razionale, senza cedere al pathos emotivo, alle urla ideologiche o autoritari diktat.
Cosa è il matrimonio? La domanda non è retorica o banale. Siimpone dati i tempi che viviamo: le piazze si stanno riempiendo, c’è il rischio di contrapposizioni tanto violente quanto sterili, molti hanno smarrito l’elementare senso comune, è sempre più difficile ascoltare argomenti razionali e oggettivi, piuttosto che slogan emotivi. Se volessi fare un discorso di tipo confessionale, cioè per i credenti, farei riferimento alla sacra Scrittura, alla tradizione apostolica e al magistero della Chiesa. Ma non è questo il mio obiettivo. Tenterò di argomentare in modo laico, cioè senza appellarmi a principi di autorità, ma alla ragione umana e ad alcuni dati, come la Costituzione della Repubblica, che dovrebbero essere pacificamente condivisi dai cittadini italiani.
Proprio la Costituzione dice: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturalefondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare» (art. 29). Leggendo gli Atti dell’Assemblea Costituente e in particolare le sedute del 30 ottobre 1946 e del 17 aprile 1947, veniamo a sapere che i Padri costituenti non hanno preteso di dare una definizione del matrimonio, ma semplicemente avevano la chiara consapevolezza che il matrimonio e la famiglia sono realtà che preesistono allo Stato. L’espressione «famiglia come società naturale» non deve far pensare a un rinvio a quella particolare corrente di pensiero che si chiama diritto naturale, ma significa solo che la famiglia e il matrimonio, che la fonda, sono realtà umane che precedono la Costituzione, il diritto positivo, e qualsiasi forma di organizzazione dello Stato, repubblica o monarchia che sia. 
Dire, poi, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sulmatrimonio» ha anche un altro scopo: lo Stato riconosce non solo la preesistenza della famiglia e del matrimonio, ma si impegna anche a rispettarne l’autonomia e l’ordine interno. I Padri costituenti hanno voluto così reagire all’esperienza e alla tentazione ricorrente dei regimi totalitari: questi regimi totalitari, infatti, intervengono sulla famiglia, anche con atti legislativi e burocratici, con un eccesso di autoritarismo e minano la libertà dei singoli.
Il matrimonio fondante la famiglia, di cui parlano l’art. 29 della Costituzione e gli Atti dellaCostituente, non è definito né dalla Costituzione né dal Codice Civile. È una realtà che precede e preesiste. Questo modo di agire del legislatore e il fatto che la Costituzione usi l’espressione «La Repubblica riconosce» stanno a significare che lo Stato prende atto anche dei presupposti che fondano il matrimonio. E se il matrimonio è una realtà umana che precede lo Stato, precederanno lo Stato anche i presupposti del matrimonio. Tali presupposti saranno quindi pre-giuridici, saranno dei presupposti antropologici, cioè conseguenti all’identità della persona umana. Quali sono tali presupposti pre-giuridici del matrimonio?
Leggendo la tradizione giuridica classica romana, di epoca repubblicana e imperiale, e gli Atti dellaCostituente balzano all’evidenza alcuni presupposti pre-giuridici: la dualità della differenza sessuale – cioè l’essere maschio il marito e l’essere femmina la moglie –; la complementarietà – si parla di società, di consortium omnis vitae (Digesto XXIII,2) –; e l’uguaglianza nella differenza. Oggi stiamo smarrendo l’evidenza circa questi presupposti pre-giuridici. Nota, poi, che si tratta di dati oggettivi che si impongono a tutti, l’identità sessuale, essere maschio o essere femmina, così come l’età anagrafica, sono dati oggettivi. Sono pre-giuridici, cioè valgono sempre qualsiasi sia l’ordinamento giuridico nel quale uno si trova a vivere, sono dati che attengono alla persona umana in quanto tale. Proprio questi dati oggettivi, in particolare quelli della dualità sessuale – essere maschio e essere femmina – e della rispettiva complementarietà fondano il matrimonio.
Il disegno di legge della senatrice Cirinnà propone una precisa operazione descritta in questi articoli che riporto. «Art. 1 Finalità. Le disposizioni del presente Capo istituiscono l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale». Per costituire l’unione civile è sufficiente una dichiarazione all’ufficiale di stato civile: «Art. 2 Costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. 1. Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile e alla presenza di due testimoni». Circa i diritti e i doveri leggi l’Art. 3 «Diritti e doveri derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso. 1. Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. 2. Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato». Queste parole ti ricordano qualcosa? Quelle che vengono lette al termine delle nozze. Sono le stesse.
Se non fosse ancora chiara l’operazione prodotta dal disegno di legge, leggi ancora l’Art. 4 «Ledisposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso». L’operazione di fatto realizzata dal disegno di legge è estendere la disciplina del matrimonio alle unioni tra persone dello stesso sesso. Se il disegno di legge entrasse in vigore, ciò che oggi l’ordinamento giuridico prevede per il matrimonio si applicherebbe alle unioni tra persone dello stesso sesso, producendo alcune conseguenze.
1. L’ingiustizia da legge ordinaria. Matrimonio e unioni tra persone dello stesso sesso sarebberomesse sullo stesso piano, cioè sarebbero omologate, trattate allo stesso modo. Ciò è una violazione palese del principio di uguaglianza. L’uguaglianza, che tutti desideriamo, prevista dalla Costituzione all’art. 3, così come interpretata costantemente dalla Corte costituzionale, non significa né trattare tutti allo stesso modo né omologare. Ma significa dare un trattamento uguale a fenomeni uguali e un trattamento diverso a fenomeni diversi, per il semplice fatto che trattare in modo identico situazioni diverse è iniquo. 
2. La contraffazione linguistica. Con una semplice legge ordinaria sarebbe di fatto modificata laCostituzione della Repubblica. Il che viola la procedura speciale di revisione della Costituzione. E poi, la parola matrimonio all’art. 29 della Costituzione, così come si evince dagli Atti della Costituente, significa la società tra marito e moglie, che si fonda su un dato oggettivo pre-giuridico della differenza dell’identità sessuata. Estendendo la disciplina del matrimonio all’unione tra persone dello stesso sesso di fatto il legislatore ordinario altera radicalmente il significato di quella parola.
3. La rivoluzione antropologica e civile. Estendendo la disciplina del matrimonio alle persone dellostesso sesso la Repubblica abbandona i presupposti pre-giuridici oggettivi che fondano il matrimonio, cioè la dualità dell’identità sessuata e la complementarietà. E così l’ordinamento giuridico del nostro Paese si non si fonderebbe più sul dato oggettivo, primario della differenza sessuale tra maschio e femmina, ma sull’orientamento o sulla preferenza sessuale. Ora, usare gli orientamenti e/o le preferenze, indipendentemente dal fatto che siano di tipo sessuale o non sessuale, come categorie di identificazione sociale e giuridica è un’operazione: a) riduttiva, perché nessuno di noi esaurisce sé nell’orientamento o nelle preferenze; b) soggettiva, perché orientamento e preferenza non fanno riferimento a caratteristiche evidenti come l’identità sessuale, la razza o una condizione di invalidità; c) aleatoria: se un Paese dà diritto di cittadinanza a un orientamento, in ragione del principio di uguaglianza dovrà ammettere anche la legittimità degli altri orientamenti, senza sindacarne il contenuto (per questi temi rinvio a Giorgio Carbone, Gender. L’anello mancante? Edizioni Studio Domenicano).
«Che male fanno agli altri, si vogliono bene e chiedono solo diritti per loro». È un mantra oggiricorrente. È uno slogan che porta il discorso sul terreno dei sentimenti. Non lasciamoci trascinare dal pathos emotivo. Restiamo agli argomenti razionali e oggettivi. Non giudichiamo gli affetti e le singole situazioni anche dolorose. Ma consideriamo seriamente i tre effetti iniqui, falsificatori e rivoluzionari prodotti dal disegno di legge Cirinnà.