martedì 23 febbraio 2016

Eco e Cirinnà: ecco dove casca il cattolico privato

Manifestazione contro il ddl Cirinnà sulle unioni civili

di Robi Ronza
L’avvenimento cristiano non come risposta esauriente alla domanda di senso dell’esistenza nostra e di tutti, bensì come handicap col quale imparare a convivere. Ci sembra questa in fin dei conti la mesta e ben poco attraente testimonianza che larga parte dell’establishment cattolico, e cristiano in genere, del nostro Paese sta offrendo in questi tempi.
Lo spunto più recente per tale magra figura è stato dato da dueeventi assai diversi tra loro, ma che al riguardo producono risultati analoghi: si tratta del dibattito sul disegno di legge Cirinnà e rispettivamente della morte di Umberto Eco e quindi della celebrazione del suo pensiero e della sua opera. Prendiamo le mosse da quest’ultimo episodio, che è di più stretta attualità tanto più considerando che i suoi solenni funerali civili hanno luogo oggi a Milano nella monumentale cornice del cortile del Castello Sforzesco.  
Come troppo spesso accade quando ci lascia una nota personalità “laica”, anche in questo caso èsubito scattata la patetica ricerca del cristiano recondito che poteva eventualmente nascondersi in qualche angolo più o meno remoto dell’anima sua. Unica lodevole eccezione, Vittorio Messori, grazie al cui articolo di ieri sul Corriere della Sera apprendiamo ciò che ad esempio Avvenire ci aveva pudicamente taciuto. Nel caso di Eco la cosa è stata più che mai sentita considerando la sua militanza giovanile nell’Azione Cattolica, di cui per un certo tempo era anche divenuto un dirigente nazionale. 
Se un cristiano invisibile dall’esterno si nascondesse in fondo alla sua anima ne saremmo lieti per lui come persona, e felici per lui se ciò gli avesse spalancato orizzonti inattesi al momento del suo trapasso, ma non c’entra per nulla con la sua opera su questa terra. Umberto Eco era un ateo volteriano da secolo XVIII, di quelli che non ci si aspetterebbe più di incontrare oggi; e non l’ha mai nascosto. La prima forma di rispetto per la sua memoria dovrebbe essere quella di non far finta che non lo fosse. Si diceva amico ed estimatore di Jacques Le Goff, il grande storico che nel 1964 con la pubblicazione de La Civiltà dell’Occidente Medioevale cominciò a mandare in soffitta il giudizio illuminista sul Medioevo come epoca dei “secoli bui”. Pur conoscendone bene l’opera, e a quanto si dice apprezzandola, Eco non esitò tuttavia a mettere con spregiudicato cinismo la propria cultura al servizio di quell’abile riproposizione del peggio della “leggenda nera” sul Medioevo che è il suo celebre best seller Il nome della rosa. 
Un romanzo, assai ben costruito allo scopo, che con il suo successo planetario e la sua diffusione inmolti milioni di copie – oltre a dare gloria e ricchezza al suo autore – a livello di cultura di massa ha fino ad oggi sommerso l’esito delle acute ricerche di Le Goff e degli altri storici degli “Annales” suoi continuatori, da Lèo Moulin a Régine Pernoud e così via. Grazie a Eco e al suo Il nome della rosa, nonché ai successivi romanzi da lui scritti con analoga ispirazione, la “leggenda nera” sul Medioevo nata con Voltaire sopravvive malgrado tutto. E anzi è anche andata ben oltre i confini della stessa cultura di massa occidentale fino a raggiungere lettori di ogni angolo della terra. Ciononostante in questi giorni in ambiente cattolico è stata tutta una rincorsa a rimpiangere Eco e a tesserne le lodi di intellettuale, di bibliofilo, di super-ambasciatore (ahimè) della cultura italiana nel mondo senza dire una parola sulla sua filosofia.      
Se l’apoteosi post-mortem di Umberto Eco non potrà comunque che spegnersi ben presto, senzamolto aggiungere al successo della sua opera, trattandosi invece di una questione ancora aperta lascia interdetti la diffusa resa a priori dell’establishment cattolico sia laico sia ecclesiastico di fronte alla vicenda del disegno di legge Cirinnà: una proposta organicamente eversiva del matrimonio e della famiglia di cui la cosiddetta stepchild adoption è in effetti solo un particolare certamente drammatico ma non determinante. In primo luogo si vede benissimo la sudditanza culturale di buona parte di tale establishment, che come un pesciolino nell’acquario si nuove dentro un perimetro di informazioni selezionate da altri ai loro fini. 
Non si rende così conto di quale sia il contenuto sostanziale del disegno di legge Cirinnà, e crededisciplinatamente che l’Italia sia «l’ultimo paese d’Europa a non avere introdotto il matrimonio omosessuale» quando in effetti 12 Stati membri su 28 non ce l’hanno e non intendono affatto introdurlo, e 4 hanno solo le unioni civili (vere, non un matrimonio civile mascherato come quello previsto dal ddl Cirinnà) e non intendono andare oltre. Come pure non sa che i Paesi con il matrimonio omosessuale sono soltanto circa 20 sui 200 rappresentati all’Onu. E che in sede di Assemblea generale dell’Onu c’è una stabile e larga maggioranza contraria a qualsiasi normalizzazione e istituzionalizzazione dell’omosessualità.
Al di là di questo, tuttavia, c’è una delicata questione di sostanza. Quale che il giudizio che se ne vuol dare, episodi come la grande assemblea nazionale di massa che si raccolse a Roma al Circo Massimo il 30 gennaio scorso dimostrano l’esistenza di una grande fetta della società italiana che non trova proporzionata rappresentanza né in sede politica né in sede di grandi agenzie della comunicazione di massa (Tv e grandi quotidiani). Una grande fetta della società italiana che non si riconosce affatto in quella riduzione della fede allo stretto privato, fino alla sua concreta irrilevanza e alla totale subalternità a visioni del mondo altrui, di cui l’attuale premier e diversi altri membri del suo governo sono un esempio tipico. Una grande fetta della società italiana che nel suo prevalente segmento cattolico ha chiaro, magari anche a modo suo, che la fede è in primo luogo una vita generata dal riconoscimento di una comune appartenenza a Gesù Cristo. 
Diversamente da come si è visto in Tv, la grande assemblea di cui si diceva è stata infatti in primoluogo un gesto di vita, come bene ha potuto bene vedere chi si trovava tra quella folla. Sarebbe un equivoco, e paradossalmente una ricaduta all’indietro nel pensiero dialettico, in una logica di tesi e antitesi, far divenire alternativo ciò che invece è complementare, anzi organico. Testimonianza privata e pubblica hanno ovviamente senso soltanto nella misura in cui sono le due facce della medesima medaglia: così devono venire vissute e così ognuno deve preoccuparsi che ciò sia. Non sono una la norma e l’altra l’eccezione. Poi si tratta di vivere al meglio sia l’una sia anche l’altra, ma questo è un altro problema. 

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La passione, don Giuss e la battaglia contro il divorzio
di Peppino Zola
Caro direttore,
l’altra sera, al termine di un interessante dibattito pubblico, durante il quale mi sono “scaldato” nel sostenere il punto di vista che ritenevo giusto, una gentile persona mi ha chiesto: «ma perché, alla tua età, ti scaldi ancora così tanto e ti impegni ancora, non è tempo di tirare i remi in barca?». 
Mi sono scaldato anche nel rispondere a quella persona, a cui hodetto che non è mai il tempo di smettere con la vita, perché abbiamo la responsabilità  di rispondere fino all’ultimo respiro alle circostanze che il Signore ci propone (non a caso ho contribuito a far nascere l’associazione Nonni 2.0) e ho anche aggiunto che tutto questo l’ho imparato guardando colui che è stato mio padre nella fede, don Luigi Giussani, che, con la sua esperienza ed il suo temperamento non si è mai sottratto dal prendere posizione e giudicare tutto ciò che la vita gli faceva incontrare. 
E così, l’ho visto, quando ancora aveva pochi amici intorno a sé, promuovere un convegno (moltoaffollato) sulla libertà di educazione e un altro sulle missioni; l’ho visto polemizzare fortemente e argutamente con il laicismo che stava invadendo le scuole e tutto il clima culturale del nostro Paese; l’ho visto spingerci alla revisione dei tendenziosi testi scolastici; l’ho visto aiutarci a giudicare la deriva sempre più anticristiana del Piccolo Teatro di Milano, che arrivò a rappresentare una falsa e distorta immagine di Pio XII; l’ho visto sostenere apertamente la creazione delle prime scuole che si esprimevano attraverso cooperative di genitori; l’ho visto spingerci a difendere concretamente la possibilità di esercitare liberamente il diritto al voto nelle scuole superiori e nelle università, e così via. 
Di quel grandissimo uomo mi sono rimaste impresse non solo le parole che diceva, ma anche iltemperamento che testimoniava e che era capace della massima tenerezza (e poesia), ma anche di una grande combattività, sempre intrisa di giudizio e di carità. Con quel temperamento, testimoniava, contemporaneamente e con tutta la sua stessa vita, che una integrale vita cristiana è fatta di cultura, di carità e di missione. Non a caso, credo, intitolò uno dei suoi più bei libri Dal temperamento un metodo. Parola e temperamento, in lui, li ricordo come fattori inscindibili.
In particolare, ricordo ancora, come fosse oggi, l’impegno profuso da tantissimi della nostracompagnia in occasione del referendum sul divorzio, tenutosi il 12 maggio del 1974. Posso testimoniare la grande mobilitazione a cui fummo chiamati, da don Giussani stesso, per essere in comunione con la Chiesa italiana di allora, mobilitazione che venne coordinata da quella che avevamo denominata “Redazione Culturale”: in quella occasione, fui incaricato di stendere un documento di carattere giuridico sulla legge che aveva introdotto il divorzio, cosa che feci insieme a Maria Vismara, laureata in legge, che stava iniziando il suo impegno in università. Detta scheda, peraltro molto apprezzata, venne inserita in un più ampio documento, che servì come strumento importante per la diffusione del nostro giudizio contrario al divorzio ( purtroppo non condiviso da tutti i cattolici) e che intitolammo Divorzio: riforma borghese. 
Con quello strumento tenemmo centinaia di incontri in scuole, parrocchie, teatri, circoli, gruppifamigliari. Molte assemblee si svolgevano in un clima non certo disteso. Di tutta questa attività era costantemente informato don Giussani. Pochi giorni prima del voto, si svolse una cena a cui partecipò il professor Gabrio Lombardi (presidente del Comitato promotore del referendum), don Giussani, il professor Vismara con la figlia Maria ed il sottoscritto. Dopo la cena accompagnai Lombardi e don Giussani nel salone del Pime in via Mosè Bianchi, dove Lombardi tenne un incontro per tutta la comunità di Cl di Milano. 
Fui testimone di un episodio curioso (e divertente), avvenuto la sera di chiusura della campagnaelettorale. Stavo accompagnando a casa, con l’auto, don Giussani; giunto in piazza Medaglie d’oro, mi fermai al semaforo rosso che si trovava proprio al fianco di uno dei tabelloni per i manifesti elettorali e lì ci accorgemmo che due militanti favorevoli al divorzio stavano strappando i pochi manifesti che sostenevano le nostre tesi per il sì all’abrogazione della legge. Don Giussani si arrabbiò molto a finestrino aperto ed io fui felice che il semaforo segnasse in quel momento la luce verde per poter riavviare velocemente la macchina: non erano tempi in cui si potesse discutere serenamente con gli avversari! 
La domenica successiva al voto, che, come si sa, ebbe esito negativo, don Giussani tenne unaaffollatissima assemblea di ciellini al Teatro Odeon di Milano, durante la quale giudicò la situazione della società e dei cattolici ed, in particolare,  criticò apertamente quelli tra di noi che non si erano impegnati abbastanza durante la campagna referendaria. Nella famosa intervista concessa a Robi Ronza, don Giussani ebbe a giudicare così quell’esperienza: «Per quanto concerne in particolare Comunione e Liberazione, il gesto di obbedienza in forza del quale il movimento si impegnò nella campagna referendaria a favore del sì all’abrogazione del divorzio, contribuì fortemente a maturare la coscienza della propria identità cristiana: un’identità che, tra le altre cose, nulla ha a che spartire con l’etica del successo a qualunque costo. E l’episcopato poté rendersi conto di quali fossero nella Chiesa le forze davvero disponibili, anche in condizioni difficili e con prospettive tutt’altro che favorevoli, a impegnarsi a sostegno di una mobilitazione sociale e politica in cui la credibilità di una scelta dei vescovi, dunque della Chiesa tout court, veniva messa direttamente in gioco»
Devo ringraziare Dio, perché questi ed altri gesti, sempre vissuti in estrema libertà e con vivaceverifica delle proposte che mi venivano fatte, mi hanno, nel tempo, educato a non sottrarmi mai alle circostanze che la vita quotidiana e le vicende storiche continuamente sottopongono alla nostra libertà. E lo prego perché mi permetta di vivere dette circostanze con quelle stesse dimensioni di cultura, carità e missione, come una cosa sola.