mercoledì 24 febbraio 2016

Presto e in avanti



L’unità dei cristiani secondo fratel Roger. 

(Silvia Scatena) Provando a rileggere nell’insieme l’itinerario di fratel Roger, due mi sembrano essenzialmente gli elementi che esso ha lasciato in consegna alla parabola dell’ecumenismo del ’900. Prima di tutto il senso di un’urgenza dell’unità, la percezione, cioè, che nel complesso tutte le Chiese vivessero ormai in una situazione in cui il compito ecumenico era divenuto una questione di esistenza per il futuro stesso del cristianesimo. 
«La nostra unità diventerà una questione di vita o di morte», scriveva fratel Roger nel 1955, a conclusione di un testo destinato ai nuovi fratelli che entravano nella comunità e rimasto incompiuto. Un senso dell’urgenza che era connesso a sua volta all’evidenza e alla immediatezza di due consapevolezze che costantemente hanno abitato il fondatore di Taizé: che se l’unità era qualcosa di voluto dal Cristo, essa doveva poter essere vissuta senza tardare; che essa rappresentava quindi la precondizione indispensabile della ricerca di un’unità più universale, giacché la Chiesa, «nel cuore di Dio, è vasta quanto l’umanità».
L’altro elemento, l’altro impulso, che unitamente a questo ha connotato in modo peculiare tutto l’itinerario di fratel Roger, mi sembra quindi potersi individuare nell’idea centrale di un ecumenismo da intendersi come necessario cammino in avanti, che chiede agli altri e accetta per sé le purificazioni e i passi possibili, come dépassement (superamento), di ciascuno che può costare sacrifici e una certa forzatura delle proprie tradizioni per obbedienza all’appello più forte dell’unità da parte del Cristo. Solo questo continuo movimento in avanti, capace di pagare dei prezzi e di non guardare al passato e alle sue ferite, avrebbe potuto consentire per il priore di Taizé prima un concreto avanzamento nel cammino verso «una stessa e visibile Chiesa», quindi, con la sua precoce disillusione circa l’effettiva disponibilità delle istituzioni ecclesiali a operare quei passi indispensabili per andare oltre la soglia del dialogo, l’apertura della dinamica evangelica della riconciliazione. Una riconciliazione da realizzare anzitutto nell’intimo di se stessi e che, dalla seconda metà degli anni ’70, sarebbe sempre più divenuta il nuovo modo di fratel Roger di chiamare l’unità quando non intravede più all’orizzonte quel che all’inizio del Vaticano II gli era parso invece potersi iscrivere nella rubrica del possibile: la riunione dei cristiani attorno a una stessa mensa.
Unità come cammino, dunque, come movimento. «Non restare mai fermi» era il modo di fratel Roger di dire che l’ecumenismo è una via, un movimento incompatibile con l’accettazione dello statu quo della divisione. «Non prendere mai parte allo scandalo della divisione dei cristiani [...]. Abbi la passione dell’unità del corpo di Cristo», si legge nel preambolo della Regola di Taizé. Urgenza, cammino in avanti, fantasia dell’anticipazione e audacia della ricerca, rischio anche, ma mai rinuncia a tutti gli sforzi possibili o aggiornamento sine die della meta dell’unità dei cristiani, condizione indispensabile della ricerca di un’unità più universale e dell’edificazione della città umana nel mondo: questa mi sembra essere essenzialmente la “cifra” di quella sete di unità che ha variamente attraversato tutto il cammino di ricerca di Roger Schutz.
Situato al cuore di quel Novecento religioso di cui la guerra costituisce per molti versi il baricentro non solo cronologico, l’itinerario di Roger Schutz si snoda attraverso le alterne vicende dell’ecumenismo del XX secolo. La comunità di Taizé partecipa così con entusiasmo alla messa in questione delle frontiere confessionali da parte di tutta una generazione di ecumenisti. L’affermazione nel composito panorama dell’ecumenismo francofono della piccola comunità riunitasi all’inizio degli anni ’40 attorno a Schutz passa e si snoda infatti attraverso il suo incontro, fra Strasburgo, Ginevra e Lione, con alcune delle figure chiave di un decennio cruciale nella storia del movimento ecumenico, quello che prelude alla nascita del Consiglio ecumenico delle Chiese: Théo Preiss, Suzanne de Dietrich, Willem Visser’t Hooft, Paul Couturier. È il decennio — quello del 1938-1948 — del vivace dibattito teologico protestante fra liberali e barthiani, che accende l’interesse di molti dei suoi compagni di studi, ma che lascia relativamente indifferente l’inquieto studente di Losanna, per il quale l’esigenza primaria appare senz’altro la ricerca di una direzione di vita e di spazi e occasioni di condivisione spirituale con i coetanei. La sua creativa determinazione e istintiva capacità aggregante gli consentiranno di tradurre questa istanza comunitaria diffusa in una realtà originale e dinamica, destinata a sopravvivere ben oltre la fioritura comunitaria degli anni della guerra.
Cercatore di una riconciliazione che comincia anzitutto dal cuore, come si definirà nella primavera del 1979, l’esperienza di quel che restava irrealizzabile, soprattutto dal punto di vista istituzionale, non ha arrestato mai in fratel Roger «la spinta verso la catholica, la Chiesa una, santa», verso quella pienezza dell’unità che il Cristo vuole. L’esperienza delle incomprensioni, del «combattimento» per l’unità, e la lucida consapevolezza, quindi, della scarsa disponibilità delle diverse istituzioni ecclesiali ed ecumeniche a lasciarsi effettivamente trasfigurare da una dinamica di riconciliazione che non può tollerare indugi, condizionano d’altra parte, inevitabilmente, l’itinerario di fratel Roger e della sua comunità. Qual è stato, mi chiedo allora, l’impatto di questa successione di “prove” nella ricerca di fratel Roger, un fondatore il cui particolarissimo carisma e la cui straordinaria forza di persuasione non hanno mai escluso anche una certa vulnerabilità? Se queste épreuves, sofferte per la fedeltà alla vocazione di rimanere sempre «all’intersezione delle correnti e dei conflitti», abbiano o meno rappresentato talora anche un freno al dinamismo dell’«osare» nella prospettiva, a un tempo realistica e profetica, dell’anticipazione, questa è per me una domanda ancora aperta, sulla quale proseguire la ricerca di una risposta. Ma certamente le esperienze evocate hanno per lo più rappresentato un pungolo, uno stimolo a cercare sempre strade nuove per uscire dalle strettoie, «allargando» sempre più le dimensioni dell’ecumenismo fra battezzati. «Creare nella famiglia umana delle possibilità per allargare»: «allargare», questa è stata l’ultima parola dettata da fratel Roger a un fratello il pomeriggio della sua morte per la sua ultima lettera rimasta incompiuta.
L'Osservatore Romano