sabato 26 marzo 2016

Liberati dalla prigionia




Il sabato santo nelle riflessioni di Joseph Ratzinger. 

Pubblichiamo un articolo apparso oggi, sabato 26 marzo, sul sito di «The Catholic Thing». 
(Robert P. Imbelli) Una delle gioie dell’affinità spirituale e intellettuale è quella di consigliare all’altro un libro che ha profondamente influenzato il proprio cammino. E poi scoprire che l’opera raccomandata ha, a sua volta, arricchito la vita del proprio studente o amico. Anche Joseph Ratzinger ha ricevuto un tale dono. Egli racconta come uno studente più grande del seminario gli consigliò Cattolicismo, il classico di Henri de Lubac, e come quel libro “divenne una pietra miliare fondamentale” del suo percorso teologico. Anche uno dei libri di Ratzinger ha raggiunto questo stesso status di classico: Introduzione al cristianesimo. L’ho raccomandato con piacere a una generazione di studenti di teologia e la loro risposta è stata caratterizzata dallo stesso grato entusiasmo provato dai loro predecessori che per la prima volta ascoltarono le lezioni tenute dal giovane teologo a Tubinga nel 1967.
Rileggendo di recente quest’opera insieme a un gruppo di studenti universitari, sono rimasto ancora una volta colpito dall’impatto che produce. L’unico rimpianto espresso, è stato che nel loro percorso teologico, nessuno lo avesse fatto conoscere loro prima. Un capitolo dell’opera sembrava parlare con una forza particolare, vista la vicinanza al grande triduo pasquale. Ratzinger propone una riflessione breve, ma penetrante, sull’articolo del Credo degli apostoli che confessa la discesa agli inferi di Cristo. Come si nota nell’intero libro, l’autore ha un’acuta consapevolezza della necessità di rivolgersi all’uomo o alla donna contemporanei, che trovano il linguaggio della fede sconcertante, se non quasi mitologico. Egli formula, dunque, direttamente l’obiezione: «Forse nessun articolo del Credo è così distante dall’atteggiamento mentale del presente come questo». Una soluzione superficiale, sostenuta dai demitizzatori di diverse tendenze, è di eliminare semplicemente la pietra d’inciampo. Si potrebbe definire questa l’«opzione Bultmann». Ma Ratzinger è troppo rispettoso della tradizione e studia con troppo discernimento la condizione umana per scegliere una scappatoia tanto semplice.
Come un mistagogo, egli sonda invece il mistero, associato in particolare al sabato santo, e scopre che di fatto risuona con particolare forza in un tempo in cui Dio sembra essere diventato silenzioso, vistosamente assente dalle questioni umane, «sicché non occorre più negarlo, ma lo si può semplicemente ignorare».
Tra le intuizioni proposte da Ratzinger c’è un’analisi dell’“inferno” profondamente ponderata. Egli scrive: «Se ci fosse qualcosa come una solitudine che non può più essere penetrata e trasformata dalla parola di un’altra persona; se si creasse uno stato di abbandono tanto profondo che nessun “Tu” lo può più raggiungere, allora avremmo reale e totale solitudine e orrore, ciò che la teologia chiama “inferno”».
Dunque, proprio con la sua discesa agli inferi Gesù affronta l’isolamento radicale e la privazione che la morte comporta. Con la sua discesa, egli porta comunione a quanti soffrono il dolore dell’allontanamento. È questo il compimento della sua passione per la comunione: Gesù, che non conosceva peccato, beve il calice del peccaminoso allontanamento dagli altri e dall’Altro fino al suo fondo amaro, rendendolo un calice di benedizione e di rendimento di grazie. Pertanto, afferma Ratzinger, «nella sua passione Cristo è disceso nell’abisso del nostro abbandono. Dove nessuna voce può più raggiungerci, là c’è lui... La morte non è più il cammino verso la gelida solitudine; le porte dello sheol sono state aperte».
Proprio come Joseph Ratzinger avrebbe desiderato, le sue osservazioni hanno suscitato ulteriori riflessioni in quanti hanno letto il suo libro. Il testo stesso non affronta in modo esplicito la questione se la discesa di Cristo agli inferi realizza la salvezza di tutti: la posizione tradizionalmente definita “apocatastasis”. Molti, oggi, direbbero che di fatto possiamo «osare sperare che tutti possano essere salvati» (come si legge in un libro di von Balthasar); ma saggiamente si astengono da qualsiasi pronunciamento apodittico. In maniera analoga, ponderando il mistero della discesa un pensiero è emerso. Richiama la straordinaria leggenda del Grande Inquisitore ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. La discesa di Cristo tra i morti, la sua presenza tra loro nella loro terribile solitudine, è simile a un abbraccio silenzioso, a un bacio, non di tradimento, ma di amore e compassione. Offre perdono, risanamento e rinnovamento. Ma in ultimo l’abbraccio può essere rifiutato e respinto. E la creatura libera può scegliere di girarsi dall’altra parte, avvizzendo dentro di sé fino al punto di non-essere.
Quarant’anni dopo che il giovane Joseph Ratzinger ha tenuto le sue splendide lezioni, l’anziano Benedetto XVI ha scritto la sua straordinaria enciclica Spe salvi, sulla speranza cristiana. In essa, ammette che possono esserci «persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore». Tragicamente, tali persone potrebbero non pentirsi anche se qualcuno risorgesse dai morti.
Ad ogni modo, la parola ultima continua a essere speranza. Non una speranza incentrata su se stessi, una speranza privata, bensì una speranza radicalmente comune e pertanto veramente cattolica. Con parole nelle quali riecheggia ancora la scoperta del Cattolicismo di de Lubac, Benedetto scrive: «La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale» .
La grande icona orientale della Risurrezione mostra il Cristo vittorioso che discende nello sheol. Afferra saldamente le mani dei nostri progenitori, liberandoli dal loro autoimprigionamento. Ma l’immaginazione cristiana può raffigurare anche il seguito. Avendoli liberati dalla prigionia, Gesù ora li volge l’uno verso l’altra affinché, dopo una così lunga separazione e ostilità, possano di nuovo abbracciarsi.
L’abbraccio silenzioso del sabato santo, prima di ascendere insieme alla gioia pasquale.

L'Osservatore Romano