sabato 30 aprile 2016

1 maggio 2016: Sesta Domenica di Pasqua - Anno C. Ambientale, commento al Vangelo e Lectio.




Nuovo tweet del Papa: "Lavorare è proprio della persona umana: esprime la sua dignità di creatura fatta a immagine di Dio." (30 aprile 2016)

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Nella sesta Domenica di Pasqua, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: 
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui … il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Dio non si manifesta a tutti allo stesso modo, Egli si rivela gradualmente secondo le tappe del nostro cammino spirituale, ma soprattutto rispettando le nostre scelte libere. La sua Parola è determinante nella nostra relazione con Lui. Il Padre e il Figlio, infatti, si fanno presenti nel dono dello Spirito Santo nella misura della nostra obbedienza alla Parola che riflette la Volontà di Dio per noi, anche attraverso il Magistero e la Tradizione viva della Chiesa. Questa adesione al suo Volere è la misura del nostro amore al Signore, in essa sperimentiamo la dolcezza del Maestro interiore che ci guida alla verità tutta intera ricordandoci le gesta e le consegne del Salvatore, da essa proviene quella Pace che il mondo non conosce e quindi non può dare. È la Pace di Cristo, che non è assenza di guerre e divisioni, essa splende in ogni conflitto mediante il perdono gratuito, con l’amore al nemico, proprio di chi vince il male con il bene. Cerchiamo con zelo, allora, ciò che Gli è gradito, nelle Scritture, nella catechesi, apriamoci a quei carismi che il Paraclito suscita per rinnovare la Chiesa nelle grandi sfide che essa affronta nelle epoche più impegnative della sua storia. (Sanfilippo)

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Commento al Vangelo della VI Domenica di Pasqua (Anno C) — 1 maggio 2016


Il compimento del Mistero Pasquale del Signore è l’effusione dello Spirito Santo, che, colmando il nostro cuore, non delude la speranza e ci fa partecipi della natura divina. “Dimorare” in Dio e “rimanere” nell’amore di Gesù è, concretamente, “osservare la sua Parola” che, secondo l’originale greco, è un custodire dinamico, lo stesso di Maria che custodisce e mette insieme tutti gli eventi della sua storia straordinaria, meditandoli nel suo cuore.
E’ “un custodire per far crescere”, nella fecondità che suppone un processo di maturazione. E’ la custodia di chi “accoglie” i comandamenti ascoltando la predicazione. Ogni comandamento illumina e dà pienezza a ciascun aspetto della vita; “osservandoli”, possiamo rimanere in Cristo in ogni momento, custodendo la sua opera in noi.
Come fu in quel pomeriggio per Giovanni e Andrea che andarono e videro dove Gesù abitava “rimanendo” presso di Lui, anche noi possiamo andare da Lui negli eventi concreti in mezzo ai quali sorge la sua “dimora” nella quale “rimanere” presso di Lui. Uscendo con la fidanzata, con il testo di algebra o di anatomia dinanzi agli occhi, cambiando pannolini o passando l’aspirapolvere, al mercato o sulla metropolitana, in una riunione di marketing o imbottigliati nel traffico dell’ora di punta, ogni luogo è quello giusto per dimorare in Cristo.
E’ pur vero che ogni giorno sperimentiamo i nostri limiti. Per questo ci è necessario un Consolatore che che “ci ricordi” le parole del Signore nei momenti in cui il demonio, come fece con Adamo ed Eva, ci tenta per farci disobbedire ad esse e così scappare dalla storia dove è posta la “dimora” di Dio con noi.
Nell’Antico Testamento la “Dimora” (in ebraico “mishkan”) aveva ospitato l’Arca nel deserto dove Dio “abitava” con il suo Popolo. Essa era una struttura mobile in legno, tutta rivestita d’oro, ricoperta di teli di lino pregiato: il bisso o “lino fine” che nell’Apocalisse e’ il tessuto con cui é rivestita la Chiesa, sposa dell’Agnello, mentre la “porpora”, che nell’antichità era il colore dei vestiti indossati dai principi e dagli alti personaggi, è la stessa che ha rivestito Cristo durante il processo che lo ha condannato alla Croce.
L’origine dell’architettura come quella del culto risale all’incontro decisivo del Sinai, dove il Popolo ha visto Dio e non è morto, e, dopo un lungo cammino iniziato con Abramo, ha ricevuto le Tavole dell’Alleanza, la “Berit”, che divenne il sigillo nuziale di un’appartenenza e un’intimità esclusive. E’ stata l’iniziativa di Dio a far sorgere nel Popolo il desiderio e la volontà di osservare ciascuna delle Dieci Parole che costituiscono il cuore dell’Alleanza; all’origine dell’ascolto obbediente vi è l’amore gratuito di Dio.
L’agire morale dell’uomo scaturisce dall’Alleanza come da una sorgente inesauribile di libertà: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto dalla condizione di schiavitù” (Es. 20,2). Per questo nel cuore della Dimora vi era l’Arca dell’Alleanza dove erano collocate le due tavole con incisi i comandamenti; esse erano chiamate “la Testimonianza” (‘edut), che indicava, secondo la cultura orientale, le clausole di un trattato imposto da un sovrano al suo vassallo.
Coraggio fratelli, perché tutto quello che era profetizzato nell’Arca Gesù lo ha compiuto per noi suoi vassalli: basta “accogliere i suoi comandamenti” perché Gesù viene anche oggi a compierli in noi. Nella sua carne ha posto la Dimora di Dio tra gli uomini, annunciando e compiendo le Parole dell’Alleanza sino all’ultimo iota. Il suo sangue ha sancito la nuova ed eterna Alleanza.
“Accogliendo” il suo Spirito attingeremo forza e vigore per vivere ogni alleanza della nostra vita: tra gli sposi, con i colleghi e gli amici, con i fidanzati e i parenti, perfino con i nemici, perché si realizzerà in noi quanto fece Mosè quando “prese l’olio dell’unzione, unse la Dimora e tutte le cose che vi si trovavano e così le consacro'” (Lv. 8,10). L’olio dello Spirito Santo che ha consacrato la Dimora e poi ha unto Gesù per accompagnarlo nella sua missione, unge oggi ciascuno di noi (cristiani – unti – cristi); come un profumo soave pervade ogni aspetto della nostra vita come ogni angolo della Dimora e dell’esistenza di Gesù.
Così lo Spirito Santo custodisce in noi la memoria della vita di Cristo “ricordandoci” nei momenti opportuni le sue Parole che illuminano gli eventi. Hai un problema con tuo marito? Ecco lo Spirito Santo che ti “ricorda” come Gesù ti ha amato, difendendoti così dalle menzogne del demonio per muoverti verso l’altro nello stesso amore. Lo Spirito Santo, infatti, “si manifesta ai discepoli e non al mondo” proprio per “testimoniare” a ogni uomo la “presenza” di Dio tra di loro. Per questo nulla può turbare un cristiano: ovunque e in ogni circostanza, l’Arca dell’Alleanza fa presente Dio in lui attraverso la vita eterna conquistata da Cristo che lo rende più che vincitore nelle tentazioni e nei combattimenti di ogni giorno.
Anche quando il mare è in tempesta e Gesù dorme… No c’è da temere perché la “sua pace” è proprio il “suo sonno” in mezzo ai marosi, profezia del suo addormentarsi nella morte, il seno dove la Pace autentica ha preso forma. Il suo corpo disteso nel sepolcro e destatosi nella risurrezione, infatti, è stato come l’arca dove la colomba è tornata dopo il diluvio, recando il ramoscello d’ulivo, simbolo della Pace. Ma la colomba e l’olio che scaturisce dall’olivo sono anche simboli dello Spirito Santo.
“Dimorare” con Lui nella barca che è la Chiesa, la concreta comunità cristiana nella quale camminiamo per crescere nella fede addormentandoci, senza “turbarci” e senza “paura”, perché è proprio nei momenti di vento contrario e onde che sembrano sommergerci che la colomba della “sua pace” viene a visitarci, recandoci il suo ulivo, lo Spirito di vita eterna che ci fa passare indenni. Dormire con Cristo, come un bimbo in braccio a sua madre, così è di chi ha accolto la “sua Pace”.
Essa, infatti,  è il dono messianico per eccellenza. Al termine del sacramento della confessione il presbitero ci congeda dicendoci: “Il Signore ti ha perdonato, vai in pace”. Le stesse parole di Gesù che ci consegna la sua pace sono proclamate nella liturgia eucaristica prima di accostarsi alla comunione, implorando il Signore ormai presente nelle specie del pane e del vino, di “non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua Chiesa”; al termine della Celebrazione poi, il Presbitero congeda l’Assemblea invitando ciascuno ad andare in pace. Un Vescovo saluta liturgicamente il popolo annunciando la Pace.
Dalla liturgia e dai sacramenti comprendiamo come la pace sia il sigillo di un’esperienza che trascende il mondo e i suoi limiti. Essa è il tesoro prezioso che il Messia Gesù di Nazaret, vincendo la morte e il peccato, ha scovato nel Cielo, nel Regno di suo Padre, dove è entrato con la nostra stessa carne. E’ come un souvenir di quel Regno, molto di più, è il grappolo d’uva che gli esploratori inviati da Mosè hanno riportato dalla Terra Promessa. La Pace è ciò che ogni cuore desidera, il riposo dello Spirito, la certezza in mezzo alla bufera, il respiro di vita tra i rantoli della morte che incombe. La Pace del Signore è il frutto del suo mistero pasquale, il suo sguardo di misericordia che incontra i nostri occhi impauriti e turbati sotto il peso dei peccati.
Shalom! Pace a voi! Il saluto di Cristo risorto dalla morte rivolto ai discepoli impauriti nel Cenacolo: “«Pace a voi!» diventa qui una cosa nuova: il dono di quella pace che solo Gesù può dare, perché è il frutto della sua vittoria radicale sul male. La «pace» che Gesù offre ai suoi amici è il frutto dell’amore di Dio che lo ha portato a morire sulla croce, a versare tutto il suo sangue, come Agnello mite e umile, «pieno di grazia e di verità»” (Benedetto XVI). Per questo la Pace è stata, per così dire, deposta come un seme, nel corpo di Cristo crocifisso, gestata nel sepolcro, e ha visto la luce nel giorno di Pasqua. E’ lo schema attraverso il quale la pace si genera: in famiglia, nella comunità cristiana, al lavoro, non può che essere deposta in noi attraverso i chiodi del  rifiuto, gestata nel silenzio della solitudine, per essere consegnata a tutti “non come la dà il mondo, ma come la regala Gesù!
La Pace infatti è un frutto dello Spirito Santo Paraclito che scaturisce dal perdono, libera dal peso della colpa, rinnova lo spirito e apre sconfinati spazi alla speranza. La pace è lo stile di vita di chi ha conosciuto il Signore, di chi lo ha incontrato vivo e vittorioso sulla propria morte. La pace che non si perde neanche in mezzo alla guerra, alla sofferenza, ai fallimenti.
Il mondo cerca compromessi e baratti per ottenere la pace sancendola sui corpi dei vinti. La Pace del Signore invece riscatta chi ha perduto, Lui che ha vinto fa la pace e la dona sciogliendo le catene degli sconfitti ridotti in schiavitù. La Pace cui aneliamo anche oggi, anche ora, è il trofeo conquistato sulla Croce, il frutto maturo dell’obbedienza di Cristo; grazie ad essa, il nostro cuore indurito e ingannato dall’orgoglio del demonio trova nell’umiltà di Cristo l’amicizia e la gioia perdute.
Se oggi non abbiamo pace occorre chiederci perché le situazioni o le persone hanno il potere di sottrarcela. Se non siamo in pace è perché siamo usciti dal Regno, dalla comunione con Dio: stiamo cercando la nostra volontà e non quella del Padre, perché solo in essa vi è la vera pace.
Ma oggi ci viene annunciato qualcosa di impensabile. Il fiume di male che ha lambito le nostre esistenze devastandole, si scatena ancora su Cristo; la furia del demonio, il principe di questo mondo che “non ha nessun potere su Gesù”, si abbatte su di Lui per infrangersi e dissolversi nel suo Corpo offerto per puro amore. Il Signore ci avverte “prima”, ci rivela sin da ora quale sia il cammino che i “suoi” sono chiamati a percorrere: portare su di sé il peccato che si abbatte su Cristo vivo nei cristiani, perché già ora essi sono “andati al Padre” con Lui, assisi alla destra di Dio insieme con il loro Capo. I piedi degli apostoli si posano su questa terra, nel loro corpo si compie ciò che manca alla passione di Gesù, il compimento del suo amore crocifisso nelle generazioni che si susseguono.
Ma nessuna persecuzione, nessun male, neanche il demonio ha potere sulla loro anima, perché essa è custodita, già durante la vita terrena, nel cuore di Dio, al sicuro con il loro Signore. L’amore che il prossimo ha il diritto di vedere in noi è l’obbedienza alla volontà di Dio, salire e non scendere dalla Croce, dove “dimorare” con Cristo uniti a Lui nello Spirito Santo che ci spinge ad offrire la vita gratuitamente. Uniti a Lui per mezzo dello Spirito che abbonda e ci viene donato nei sacramenti, nella Parola e la comunione della Chiesa, possiamo partecipare del suo trionfo e ricevere in eredità, insieme a questa generazione, la Pace che supera ogni intelligenza, il sigillo del Cielo che ci guida sino all’eternità, accompagnandoci già oggi dal Padre, “il più grande” di ogni peccato, sofferenza e male che si abbatte sulla carne.

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Obbedire è amare

Lectio Divina sulle letture per la VI Domenica di Pasqua – Anno C – 1° maggio 2016
Rito Romano
VI Domenica di Pasqua – Anno C – 1° maggio 2016
At 15,1-2.22-29; Sal 66; Ap 21,10-14.22-23; Gv 14,23-29
Rito Ambrosiano
At 21,40b-22,22; Sal 66; Eb 7,17-26; Gv 16,12-22
1) Il cammino delle sei Domeniche di Pasqua.
Nel periodo di Pasqua, la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare (nel senso biblico del termine: rendere presente) Cristo risorto concretamente presente e veramente vivente. Per questo durante le Messe delle prime tre Domeniche di Pasqua ci sono stati proposti i brani del Vangelo in cui sono raccontati gli incontri del Risorto con Maria Maddalena, con i discepoli di Emmaus, con gli Apostoli e con San Tommaso e alla fine con Pietro, che viene confermato nell’amore perché ha presentato a Cristo il suo dolore.
Nella IV domenica ci è stato ricordato che Cristo è il buon Pastore ed è presente come guida attraverso i sacerdoti e i vescovi. Nella V Domenica ci è stato ricordato che Gesù risorto è presente nell’amore concretamente vissuto e reciprocamente donato nella comunità dei cristiani, che hanno “come” esempio il Cristo stesso.
Oggi, l’insegnamento delle Domeniche precedenti arriva al culmine. Nella VI Domenica di Pasqua, infatti, il Vangelo ci fa ascoltare Gesù non si accontenta di abitare in mezzo a noi, ma chiede di essere ascoltato (di osservare la sua parola) per potere “dimorare” in noi. Cristo dunque non è più semplicemente uno con noi, uno tra di noi, anche se è il migliore: Lui ora è in noi con il suo Spirito.
In noi credenti che ascoltiamo la sua parola e ai quali dona lo Spirito Santo perché ci dia la pace e “richiami al nostro cuore tutto quello che Cristo ha fatto e insegnato e ci renda capaci di testimoniarlo con le parole e con le opere” (cfr. la Colletta della VI Domenica di Pasqua).
Sapere e fare esperienza dell’amore di Dio in noi e per noi è pace confortante e gioiosa, ma è anche responsabilità grande e quotidiana.
2) Osservare la Parola, che è dono dell’amore.
Dalla meditazione del passo odierno del Vangelo di Giovanni (14,23-29) emergono due temi: l’amore obbediente per Gesù e il dono dello Spirito.
In effetti, in questo brano evangelico, il Figlio di Dio presenta il legame indissolubile tra l’amore a Lui e l’osservanza della Sua Parola. A questo riguardo, va tenuto presente che il termine greco usato da San Giovanni: “Logos” secondo i vari contesti può significare: la “Parola” che è Cristo, il Verbo di Dio, la “parola” che Cristo rivolge ai suoi interlocutori, e il “comandamento” dato per amore e da osservare con amore. Questo terzo significato non è poi così strano perché se uno ama prende così sul serio la “parola” dell’amato da portarla nel cuore, da custodirla osservandola. Cioè se amiamo il Signore, vuol dire che Lo portiamo nel cuore, custodendo (osservando) le sue parole, perché vogliamo vivere come Lui, vogliamo che Lui diventi la nostra vita. In effetti, se si ama una persona, quella persona diventa la nostra vita e l’ascoltiamo mettendo in pratica quello che dice.
Dunque la prova che si ama veramente il Signore è l’obbedienza. E’ vero che il verbo “amare” dice anche desiderio, affetto, amicizia, appartenenza, ma qui si sottolinea che non si può parlare di vero amore se manca l’osservanza dei comandamenti: “Se uno mi ama osserverà la mia parola” (Gv 14, 23). E, subito, sempre nello stesso v. 23, Gesù aggiunge “e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Id 14, 23). In questo modo, il Figlio di Dio sottolinea un’altra caratteristica dell’amore: quella di essere il luogo dell’incontro con l’amore del Padre. Anzi è il luogo in cui il Padre e Gesù pongono la loro dimora.
L’icona, cioè l’immagine più bella di questa dimora “costruita” dall’obbedienza amorosa è Maria, Vergine e Madre. La Madonna accolse nella fede e nella carne Gesù, il Figlio di Dio, in piena obbedienza alla Parola di Dio.
L’obbedienza a Dio e alla sua azione nella fede include anche l’elemento dell’oscurità. La relazione dell’essere umano con Dio non cancella la distanza tra Creatore e creatura, non elimina quanto afferma l’apostolo Paolo davanti alle profondità della sapienza di Dio: «Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!» (Rm 11,33). Ma proprio chi – come Maria – è aperto in modo totale a Dio, giunge ad accettare il volere divino, anche se è misterioso, anche se spesso non corrisponde al proprio volere ed è una spada che trafigge l’anima, come il profeta Simeone disse a Maria, quando insieme con Giuseppe presentò Gesù al Tempio (cfr Lc 2,35).
Il cammino di fede implica la gioia di ricevere il dono di amore, ma anche il momento dell’oscurità, dovuta alle sofferenze della vita, alle croci delle vita. Così fu per Maria, la cui fede le fece vivere la gioia dell’Annunciazione, ma anche passare senza cedere attraverso il buio della crocifissione del Figlio, per poter giungere fino alla luce della Risurrezione.
Per gli Apostoli, allora, e per ciascuno di noi, oggi, il cammino di obbedienza nella fede non è diverso: incontriamo momenti di luce, ma incontriamo anche tempi in cui Dio sembra assente, il suo silenzio pesa nel nostro cuore e la sua volontà non corrisponde alla nostra, a quello che noi vorremmo. Ma quanto più ci apriamo a Dio, accogliamo il dono della fede, poniamo totalmente in Lui la nostra fiducia tanto più Egli ci rende capaci, con la sua presenza, di vivere ogni situazione della vita nella pace e nella certezza della sua fedeltà e del suo amore. Questo però significa uscire da sé stessi e dai propri progetti, perché la Parola di Dio, osservata con amore, sia la lampada che guida i nostri pensieri e le nostre azioni.
Come ha potuto la Madre di Dio vivere il suo cammino accanto al Figlio con una fede così salda, anche nelle oscurità, senza perdere la piena fiducia nell’azione della Provvidenza? E questa domanda vale anche per gli Apostoli: “Come hanno potuto perseverare nel cammino con Cristo e dare la vita per il Suo vangelo, cioè per la sua Parola buona e lieta che porta alla gioia della vita vera attraverso la croce.
Maria e gli apostoli hanno obbedito all’amore, hanno osservato la parola che era donata a loro, che stava davanti a loro. Hanno “dialogato” con Cristo, custodendo, osservando la Sua parola. Maria e gli Apostoli hanno riflettuto sul significato della parola di Cristo e ne hanno concluso che non potevano lasciarlo, perché solo Lui ha parola di vita eterna. Il termine greco usato nel Vangelo, per definire questo “riflettere”, “dielogizeto”, richiama la radice della parola “dialogo”. Questo significa che noi credenti, osservanti “uditori della Parola”, dobbiamo perseverare nel dialogo con la Parola di Dio che ci è detta, lasciandola penetrare nella mente e nel cuore per comprendere ciò che il Signore vuole da ciascuno di noi.
3) Il dono dello Spirito.
Nel Vangelo di oggi ascoltiamo pure: “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 25-26).
Che cosa vuol dire Gesù in questi due versetti? Il Risorto vuol dire ai suoi discepoli di ieri e di oggi, di sempre che Lui non ci lascia soli, ci manda il Consolatore, lo Spirito Santo, lo Spirito della verità che dà la vita di Dio e la vita di Dio è l’amore. E’ questo amore che ci farà conoscere ciò che Gesù ha detto, progressivamente e più lo conosciamo più lo ami; più lo amiamo più lo conosciamo e avanti all’infinito e per sempre.
L’insegnamento dello Spirito è ancora l’insegnamento di Gesù. Non c’è contrasto tra i due. Compito dello Spirito è insegnare e ricordare. Si tratta sempre dell’insegnamento di Gesù, ma colto e compreso nella sua pienezza: “Vi insegnerà ogni cosa”. Non si tratta di aggiungere qualcosa all’insegnamento di Gesù, quasi fosse incompleto. “Ogni cosa” significa la pienezza, la sua radice, la sua ragione profonda. E anche la memoria, dono dello Spirito, non è ricordo ripetitivo, ma ricordo che attualizza. Lo Spirito mantiene aperta la storia di Gesù, rendendola perennemente attuale e salvifica. Quindi il dono dello Spirito che Gesù ci fa sulla croce e che fa nella storia è la sua presenza costante nella storia, è lo Spirito d’amore che ci fa capire e ci fa fare ciò che lui ha detto ed ha fatto. Lo Spirito non ci insegna o ispira cose strane, ci fa capire quello che Cristo ha detto e fatto, dandoci la forza di viverlo perché è solo l’amore che ci fa capire e ci fa fare.
Naturalmente tutti riceviamo il dono dello Spirito, la cui azione in noi ci fa “ricordare” (cioè ridare al cuore) e “rende presente” sempre di nuovo il Cristo. Ma in modo particolare va invocato sulle Vergini consacrate nel mondo, le quali sono, nella Chiesa, il segno visibile del mistero della Chiesa stessa, che è insieme vergine e sposa (cfr. 2 Cor11,2; Ef 5, 25 – 27). Se da una parte la verginità annuncia fin da ora ciò che sarà la vita futura (cfr. Mt 22,30): la vita simile a quella degli angeli, essa (la verginità) ha anche un significato nuziale come nel Rituale di consacrazione è indicato mediante la consegna delle insegne della consacrazione, cioè il velo e l’anello, accompagnata da questa preghiera: “Ricevete il velo e l’anello, segno della vostra consacrazione nuziale. Sempre fedeli a Cristo, vostro Sposo, non dimenticate mai che vi siete donate totalmente lui e al suo corpo che è la Chiesa” (REV, n 19 e n. 88).
* Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi

Poraccitudine...



...avrebbe esclamato una mia cara amica romana.
In piemontese non so come si potrebbe dire, in italiano qualche idea l'avrei pure ma non sarebbero esattamente la quinta essenza del tatto. Mi chiedo se ci sono donne che voterebbero per questo tipo qui.

Daniela Poggi, artista e donna di fede





È appena uscito nelle sale il film “Infernet” per la regia di Giuseppe Ferlito che vanta un cast prestigioso che tra gli altri vede: Remo Girone, Ricky Tognazzi, Roberto Farnesi, Katia Ricciarelli e Daniela Poggi. Daniela nel film è Martina, moglie di Giorgio (Ricky Tognazzi) affetto da ludopatia, e mamma di un giovane bullo.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare e intervistare questa attrice di cinema, tv e teatro – nonché presentatrice televisiva – che molti di noi ricordano anche per la sua passata conduzione della trasmissione “Chi l’ha visto”.
Avendo attraversato esperienze artistiche così diverse e stimolanti, che rapporto ha oggi con ciascuna di esse?
Non potrei stare senza il palcoscenico e senza il rapporto con il pubblico. Il teatro ti mette a nudo e ti obbliga a un confronto continuo con la platea che devi affascinare e conquistare. Il teatro rappresenta una sfida costante, è un qualcosa che ti dà tanta adrenalina ma ti costringe sempre a sentirti sotto un esame durissimo. Il cinema lo definirei il mio amante, ciò che ho sempre inseguito e che mi ha puntualmente tradita. Vedo il teatro come il marito, la tv come il fidanzato e il cinema come l’amante. Il cinema ha un fascino completamente diverso, mi è sempre molto piaciuto, è come se dovessi perennemente conquistare l’altro che sta dietro, lo spettatore che non vedi. La tv è un bel fidanzato tranquillo, piacevole, che ti permette di entrare nelle case di milioni di spettatori. È chiaro che la televisione ha tempi diversi dal cinema, la conduzione è “tosta” , soprattutto la diretta come quella che ho fatto nei quattro anni di “Chi l’ha visto”. All’inizio provavo una tensione micidiale, poi pian piano ti abitui e alla fine resta una grossa soddisfazione. Non posso come attrice esprimere preferenze per uno dei tre palcoscenici, ma come spettatrice amo moltissimo il cinema: guardo poco la tv e a teatro spesso mi annoio. Mentre il cinema mi trasporta completamente, io volo, mi fa dimenticare tutto.

Come ha vissuto il suo personaggio nel film?
Il film racconta una società disperata, che esiste, molto reale. Una società malata, anche perché probabilmente le stesse famiglie non riescono a seguire i figli. Racconta di una gioventù allo sbando attraverso la realtà del web, che può offrirti cose meravigliose e al tempo stesso rivelarsi uno strumento infernale. Per quello che mi riguarda ho vissuto il mio personaggio in modo molto combattuto, trovo che Martina non sia in grado di prendere in mano la situazione che sta vivendo: è una donna così innamorata che tra marito e figlio, sceglie il marito. Lei è convinta di poter gestire il marito e la sua dipendenza dal gioco, illudendosi che il figlio sia bravo e tranquillo. È un personaggio che può sembrare superficiale, perché non si rende conto del dramma che sta attraversando o, diversamente, un esempio in quanto donna che resiste.
Qual è il suo rapporto con la fede?
Non sono una convertita, sono nata in una famiglia credente che mi ha fatto prendere i sacramenti e mi ha educato ai valori cristiani. Ho studiato dalle suore e per me la religione è sempre stata presente. Ci sono stati anni di ribellione in cui mi infastidivano le regole e andare la domenica a messa: non riuscivo a vivere la celebrazione come momento fondamentale di condivisione con una comunità e di ascolto della Parola di Dio. Però ho sempre pregato, non mi sono mai addormentata la sera senza fare le preghiere, mai. E sono sempre entrata in chiesa, anche quando mi trovavo in giro per lavoro. Ho sempre avuto un rapporto diretto con Gesù e la Madonnina.
In quale momento della sua vita ha riscoperto il valore della fede?
Se devo individuare un momento di cambiamento nel mio modo di vivere la fede, lo colloco nel ’90 quando mio padre si ammalò, per poi morire a maggio ’91. Quando mi resi conto che non poteva avvenire un miracolo pregai così il Signore: «so che non ti posso chiedere il miracolo di farlo guarire, ti prego solo di non farlo soffrire, di portarlo via il prima possibile. Ti prometto che andrò a messa tutte le domeniche». E così è stato, da allora non manco mai alla messa della domenica, se non in casi rarissimi. Da questo voto, da questa promessa ho scoperto il piacere dell’appuntamento domenicale, il piacere di stare in comunità.

Come vive la sua partecipazione alle celebrazioni religiose?
C’è una cosa incredibile che mi capita spessissimo: magari vado a messa sentendomi triste e piena di pensieri, appesantita. Arrivo in chiesa e il vangelo e l’omelia mi parlano proprio di ciò che sto vivendo. Resto stupita ogni volta: mi dico non è possibile, è una cosa pazzesca. Recentemente a Pasqua, durante la lettura della Passione mi sono immersa a pensare a Maria. Immaginavo questa Madre sofferente, che sentiva strapparsi le viscere davanti al Figlio morente e pensavo: io devo fare qualcosa per trasmettere il dolore di questa Madre, devo portare uno spettacolo a teatro che parli di questo. Poi arriva il momento dell’Eucaristia e cosa cantano? “Madre io vorrei”, un canto bellissimo, il mio preferito, e comincio a piangere come una pazza.
Come è stato interpretare la Madonna nella fiction “Paolo di Tarso”?
È stato bellissimo, anche lì mi successe una cosa particolare. Avevo già preso i biglietti per andare a Lourdes e accompagnare mia madre che ogni anno vi si recava per ringraziare la Madonna del miracolo che aveva ricevuto. Pochi giorni prima di partire, incredibilmente, mi chiamarono per interpretare il ruolo della mamma di Gesù. L’unico rammarico che ho fu l’assenza di un clima veramente spirituale sul set, dove avevamo semplicemente un consulente religioso.
Quale carisma ha ricevuto dal Signore?
Io ho un dono, lo ritengo un dono, mi trovo ad accompagnare le persone alla morte, mi muoiono tra le braccia. Per me è un dolore enorme, però contemporaneamente lo vivo come un privilegio meraviglioso. Stare lì accanto a tua madre e a tuo padre, o ad altre persone importanti della tua vita quando esalano l’ultimo respiro è molto bello e intenso. E forse questo è un dono che mi è stato dato dal Signore, quello di accompagnare.

I simboli dello Spirito Santo

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di Felipe Aquino
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci insegna i simboli dello Spirito Santo (cfr. §694ss). Bisogna comprendere che sono solo simboli che cercano di farci capire la Persona e l’azione dello Spirito Santo.
L’acqua è uno dei simboli che indicano l’azione dello Spirito Santo nel Battesimo, perché dopo l’invocazione dello Spirito Santo diventa il segno sacramentale efficace della nuova nascita: l’acqua battesimale significa che la nostra nascita alla vita divina ci è data dallo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è “acqua viva” che sgorga da Cristo crocifisso e che in noi zampilla nella Vita Eterna.
L’unzione con l’olio è un altro simbolo dello Spirito Santo. Nell’iniziazione cristiana è il segno sacramentale della confermazione. Cristo (Messia in ebraico) significa “unto” dello Spirito di Dio. Gesù è l’Unto di Dio in modo unico: l’umanità che il Figlio assume è del tutto “unta dello Spirito Santo”. Gesù è costituito “Cristo” dallo Spirito Santo.
Il fuoco simboleggia l’energia trasformatrice degli atti dello Spirito Santo. Giovanni il Battista ha annunciato Cristo come colui che “battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,16), quello Spirito del quale Gesù ha detto: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12,49). È sotto forma di lingua come di fuoco che lo Spirito Santo si posa sui discepoli la mattina di Pentecoste e li riempie di Lui. San Paolo dice: “Non spegnete lo Spirito” (1Ts 5,19).
Anche la nube e la luce sono simboli dello Spirito, e appaiono nelle manifestazioni dello Spirito Santo fin dall’Antico Testamento. La nube, ora scura e ora luminosa, rivela il Dio vivo e salvatore, nascondendo la trascendenza della sua Gloria: con Mosè sul monte Sinai, nella tenda della riunione e durante la camminata nel deserto. Lo Spirito Santo si ferma sulla Vergine Maria e la copre “con la sua ombra”, perché concepisca e dia alla luce Gesù. Sul monte della Trasfigurazione, “venne una nube e avvolse” Gesù, Mosè, Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni. “E dalla nube uscì una voce, che diceva: ‘Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo’” (Lc 9,34­35). È questa nube che nasconde Gesù agli occhi dei discepoli il giorno dell’Ascensione e che rivelerà il Figlio dell’Uomo nella sua gloria il giorno della sua venuta.
Il sigillo è un simbolo simile all’unzione. È su Cristo che Dio “ha messo il suo sigillo” (Gv 6,27), ed è in lui che il Padre ci segna col suo sigillo. Il sigillo significa l’effetto indelebile (incancellabile) dell’unzione dello Spirito Santo nei sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell’Ordine. Per questo, questi tre sacramenti non possono essere ripetuti.
L’imposizione delle mani è usata come simbolo perché è imponendo le mani che Gesù cura i malati e benedice i bambini. In suo nome, gli apostoli faranno lo stesso. È attraverso l’imposizione delle mani degli apostoli che viene dato lo Spirito Santo. La Chiesa ha mantenuto questo segno dell’effusione dello Spirito Santo nella sua epiclesi (invocazione) dello Spirito Santo nella consacrazione della Messa.
Il dito è un simbolo dello Spirito perché è attraverso il dito di Dio che Gesù espelle i demoni. La Legge di Dio è stata scritta su tavole di pietra “dal dito di Dio” (Es 31,18), e la lettera di Cristo è stata “scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (2Cor 3,3). L’inno Veni, Creator Spiritus invoca lo Spirito Santo come dito della destra del Padre.
La colomba è un altro bel simbolo dello Spirito. Alla fine del diluvio la colomba lasciata andare da Noè torna con un ramo d’ulivo nel becco, segno che la terra è di nuovo abitabile. Quando Cristo esce dall’acqua del suo Battesimo, lo Spirito Santo, sotto forma di una colomba, scende su di Lui e vi rimane. In alcune chiese, le ostie sono conservate in un recipiente metallico a forma di colomba (o columbarium) sospeso sopra l’altare.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

L'Udienza giubilare di Papa Francesco: "Accettiamo l’invito a lasciarci riconciliare con Dio..."

L'Udienza generale di Papa Francesco: "Accettiamo, dunque, l’invito a lasciarci riconciliare con Dio, per diventare nuove creature e poter irradiare la sua misericordia in mezzo ai fratelli"



"Nessuno rimanga lontano da Dio a causa 
di ostacoli posti dagli uomini!"
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi desidero riflettere con voi su un aspetto importante della misericordia: la riconciliazione. Dio non ha mai mancato di offrire il suo perdono agli uomini: la sua misericordia si fa sentire di generazione in generazione. Spesso riteniamo che i nostri peccati allontanino il Signore da noi: in realtà, peccando, noi ci allontaniamo da Lui, ma Lui, vedendoci nel pericolo, ancora di più ci viene a cercare. Dio non si rassegna mai alla possibilità che una persona rimanga estranea al suo amore, a condizione però di trovare in lei qualche segno di pentimento per il male compiuto.
Con le nostre sole forze non ce la facciamo a riconciliarci con Dio. Il peccato è davvero un’espressione di rifiuto del suo amore, con la conseguenza di rinchiuderci in noi stessi, illudendoci di trovare maggiore libertà e autonomia. Ma lontano da Dio non abbiamo più una meta, e da pellegrini in questo mondo diventiamo “erranti”. 
Un modo di dire comune è che, quando pecchiamo, noi “voltiamo le spalle a Dio”. E’ proprio così; il peccatore vede solo sé stesso e pretende in questo modo di essere autosufficiente; perciò, il peccato allarga sempre di più la distanza tra noi e Dio, e questa può diventare un baratro. Tuttavia, Gesù viene a cercarci come un bravo pastore che non è contento fino a quando non ha ritrovato la pecora perduta (cfr Lc 15,4-6), così come leggiamo nel Vangelo. Lui ricostruisce il ponte che ci ricongiunge al Padre e ci permette di ritrovare la dignità di figli. Con l’offerta della sua vita ci ha riconciliati col Padre e ci ha donato la vita eterna (cfr Gv 10,15).
«Lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor 5,20) ...
 «Lasciatevi riconciliare con Dio!» : il grido che l’apostolo Paolo rivolse ai primi cristiani di Corinto, oggi con la stessa forza e convinzione vale per tutti noi. Lasciamoci riconciliare con Dio! Questo Giubileo della Misericordia è un tempo di riconciliazione per tutti. Tante persone vorrebbero riconciliarsi con Dio ma non sanno come fare, o non si sentono degni, o non vogliono ammetterlo nemmeno a sé stessi. La comunità cristiana può e deve favorire il ritorno sincero a Dio di quanti sentono la sua nostalgia. Soprattutto quanti compiono il «ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18) sono chiamati ed essere strumenti docili allo Spirito Santo perché là dove ha abbondato il peccato possa sovrabbondare la misericordia di Dio (cfr Rm 5,20). Nessuno rimanga lontano da Dio a causa di ostacoli posti dagli uomini! (...)
Questo Anno Santo sia il tempo favorevole per riscoprire il bisogno della tenerezza e della vicinanza del Padre e per ritornare a Lui con tutto il cuore.
Fare esperienza della riconciliazione con Dio permette di scoprire la necessità di altre forme di riconciliazione: nelle famiglie, nei rapporti interpersonali, nelle comunità ecclesiali, come pure nelle relazioni sociali e internazionali. (...) La riconciliazione infatti è anche un servizio alla pace, al riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone, alla solidarietà e all’accoglienza di tutti.
Accettiamo, dunque, l’invito a lasciarci riconciliare con Dio, per diventare nuove creature e poter irradiare la sua misericordia in mezzo ai fratelli, in mezzo alla gente.


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Saluto di Papa Francesco ai partecipanti al Giubileo delle Forze Armate e di Polizia

Con gioia do il mio benvenuto ai rappresentanti delle forze armate e delle polizie, provenienti da tante parti del mondo, venuti in pellegrinaggio a Roma in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia. Le forze dell’ordine – militari e polizia – hanno per missione di garantire un ambiente sicuro, affinché ogni cittadino possa vivere in pace e serenità. Nelle vostre famiglie, nei vari ambiti in cui operate, siate strumenti di riconciliazione, costruttori di ponti e seminatori di pace.
Siete infatti chiamati non solo a prevenire, gestire, o porre fine ai conflitti, ma anche a contribuire alla costruzione di un ordine fondato sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà, secondo la definizione di pace di San Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris (nn.18 ss).

L’affermazione della pace non è impresa facile, soprattutto a causa della guerra, che inaridisce i cuori e accresce violenza e odio. Vi esorto a non scoraggiarvi. Proseguite il vostro cammino di fede e aprite i vostri cuori a Dio Padre misericordioso che non si stanca mai di perdonarci. Di fronte alle sfide di ogni giorno, fate risplendere la speranza cristiana, che è certezza della vittoria dell’amore sull’odio e della pace sulla guerra. Grazie!

Il mondo di Dio nel mondo degli uomini



In Belgio una chiesa su due è destinata a chiudere, profezia per l'Europa.


di Riccardo Cascioli

Nei giorni scorsi un giornale belga ha pubblicato un’inchiesta, ripresa in Italia da Il Foglio, che rivela la drammatica crisi della Chiesa europea di cui il Belgio – e Bruxelles in particolare – è il simbolo e la punta avanzata. Dice dunque La Libre che in Belgio una chiesa su due è destinata a chiudere e ad essere convertita in luogo di attività commerciali o addirittura – come vorrebbero alcune autorità locali e come ha suggerito il settimanale The Economist – in luoghi di culto islamici. A Bruxelles infatti solo l’1,5% della popolazione risulta cattolica praticante, pari al 12% della popolazione cattolica. Di contro il 19% dei musulmani è praticante, mentre la metà dei bambini iscritti nelle scuole statali è islamico. Il destino apparirebbe dunque segnato, ma a colpire più che l’aspetto demografico è il deserto a cui è stata ridotta la Chiesa.
Sulla Nuova BQ abbiamo già avuto modo in passato di soffermarci sulla deriva della Chiesa belga e le conseguenze che sta avendo per l’intera società (clicca qui e qui), ma proprio perché non si tratta di un caso isolato, è giusto ricordare che le Chiese vanno come le fanno andare i vescovi, o perlomeno è determinante la posizione che i vescovi assumono. Se il Belgio è in queste condizioni bisognerebbe chiedere conto ai suoi vescovi che poco hanno avuto cura per questa Chiesa, a cominciare dal cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Bruxelles dal 1979 al 2010. La sua figura ha dominato la scena nazionale e la sua influenza di esponente “progressista” si è estesa ben oltre i confini del Belgio, e tuttora è determinante: basti pensare che non solo è stato nominato da Papa Francesco al Sinodo sulla famiglia, ma – archiviata la parentesi episcopale a Bruxelles del coraggioso monsignor Leonard, pensionato allo scoccare dei 75 anni – ha ottenuto che a Bruxelles sedesse il suo delfino, mons. Jozef De Kesel. 
Danneels e l’episcopato belga sono i simboli di una Chiesa che ha inseguito il mondo, sia nella sua ideologia pansessualista sia nel fascino del laicismo; simbolo di una gerarchia ecclesiastica che anziché confermare il popolo di Dio e preoccuparsi di comunicare Cristo ai lontani, si è più preoccupata di “riforme” interne alla Chiesa, di giochini di potere come lo stesso Danneels impudentemente ammette in una recente biografia, dove si confermano gli incontri tra cardinali europei per preparare la successione a Benedetto XVI (clicca qui). 
Hanno reso un deserto la loro Chiesa e il loro paese, ma pretendono di rappresentare il futuro della Chiesa mondiale, grazie anche alla attiva complicità dei grandi mezzi di comunicazione. Sembrerebbe proprio che non si abbia la consapevolezza della posta in gioco, che è la sopravvivenza della Chiesa in Europa. La sopravvivenza di una Chiesa viva, capace di comunicare la vita, di offrire una proposta adeguata al mondo di oggi, e di indicare di conseguenza alla società la via di uscita da questa crisi morale che soffoca l’Europa. 
In questa situazione di declino che sembra inesorabile, alla Chiesa sarebbe chiesto soltanto il coraggio e la capacità  di portare una proposta nuova di vita. Questo è ciò che aspettano tanti cristiani e tanti uomini di buona volontà. Certamente non il mondo della cultura ufficiale, non quanti si battono per il pensiero unico dominante – come lo ha definito anche papa Francesco –, non gli addetti ai lavori che hanno in mano le leve dei mass media. Tutti costoro hanno invece chiaro quale deve essere il ruolo in cui relegare la Chiesa in questo momento: dispensare emozioni. Dispensare emozioni a tutti i livelli, dai più giovani agli anziani, i cattolici come erogatori di emozioni e di sentimenti. Fa impressione rilevare come stia evolvendo anche il vocabolario di tanto mondo ecclesiastico, che parla sempre più spesso di sogni, fantasia, emozioni. 
Piuttosto, la liturgia di questo tempo pasquale, attraverso le pagine degli Atti degli Apostoli, dovrebbe costringere a misurarci con quella Chiesa che sin dai primi giorni ha vissuto la coscienza del compito di una evangelizzazione forte, di una proposta chiara al mondo che incontrava, fosse esso quello ebraico o quello greco-romano. È da allora l’unica cosa che interessa davvero agli uomini, una possibilità di vita nuova, la comunità cristiana come luogo della presenza di Cristo e inizio di un mondo nuovo. Quel porsi di Gesù come “via, verità e vita” è ben altro che accontentarsi di un orticello “morale” che ci viene lasciato dal pensiero unico dominante; è invece un’alternativa a questo mondo. “Il mondo di Dio nel mondo degli uomini”, questo è il cristianesimo, come tutta la storia della Chiesa ci insegna. Ed è questa l’unica forza attrattiva che può conquistare anche gli uomini di oggi.

La Chiesa che soffre

L'evento di Aiuto alla Chiesa che Soffre


Ieri sera Fontana di Trevi si è illuminata di rosso per ricordare il sangue dei martiri cristiani dei nostri giorni. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Italiana della Fondazione Pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, ha voluto puntare i riflettori sui tanti bambini, donne e uomini cristiani di ogni parte del mondo perseguitati e uccisi in odio alla fede. 
Sui bianchissimi marmi della più celebre fontana del mondo, appena riportata al suo splendore dopo un lungo restauro, sono state inoltre proiettate immagini provenienti dalle aree dove è in atto la persecuzione anti cristiana. Istantanee che hanno squarciato quel velo di ipocrisia e silenzio teso a negare i massacri e le sofferenze inflitti ai cristiani che vivono  in quelle zone del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa, dove imperversano gruppi radicali che seminano odio e violenza. E così, in un silenzio insolito per questo luogo vissuto da orde di turisti stranieri, si sono susseguite foto di quadri dissacrati, crocefissi spezzati, chiese rase al suolo, e poi ancora i volti di Asia Bibi, don Andrea Santoro e i 21 etiopi copti in tuta arancione decapitati sulle spiagge libiche dai miliziani dell’Isis.

Dal sedicente Stato islamico in Siria e in Iraq a Boko Haram in Nigeria, passando per le persecuzioni di “Stato” della ingiusta legge sulla blasfemia in Pakistan. Ogni giorno a milioni di cristiani è sistematicamente violato il loro diritto alla libertà religiosa. Ogni domenica migliaia di essi rischiano la vita per riunirsi in una chiesa, senza chiedersi se torneranno vivi per il pranzo. Martirio significa “testimonianza” e a scuotere gli animi dei “privilegiati” cristiani occidentali presenti in piazza sono state proprio quattro testimonianze su altrettante storie di martiri: una consorella delle suore Missionarie della Carità uccise nello Yemen nel marzo scorso; il Professor Shahid Mobeen fondatore dell’Associazione Pakistani Cristiani in Italia e amico di Shahbaz Bhatti, ministro cattolico per le minoranze del Pakistan ucciso nel 2011; Maddalena Santoro sorella di Don Andrea Santoro, ucciso in Turchia nel 2006 e Luka Loteng studente del Kenya in rappresentanza dei suoi coetanei uccisi nel campus di Garissa nel 2015.
Nel corso dell’evento, sono interventi anche il Presidente internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre, Cardinale Mauro Piacenza, il Presidente di ACS Italia, Alfredo Mantovano, e monsignor Antoine Audo, Vescovo di Aleppo, la città martire della Siria.
di Marco Guerra

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Di seguito riportiamo l’intervento integrale del Cardinale Mauro Piacenza: 
Questa sera, qui, nel cuore di questa città dove i Santi Apostoli Pietro e Paolo e una grandissima schiera di testimoni della fede, hanno versato il proprio sangue per fedeltà a Gesù Cristo, scrivendo così, fra l’altro, la prima pagina della libertà di coscienza, siamo nelle condizioni più adatte per comprendere la missione della Fondazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”. Essa si erge a difesa dei cristiani perseguitati, per alleviarne le sofferenze. La sua voce è quella di un profeta scomodo che provoca ed incita a fare l’unica cosa necessaria: dar da mangiare all’affamato di pane e giustizia, vedendo in esso Gesù. Si prega e si agisce affinchè i cuori della gente si aprano per asciugare le “lacrime di Dio” dovunque Egli pianga; si educa ad amare anche gli stessi persecutori e a comprendere la Chiesa come Corpo.
Ci si potrebbe chiedere se in futuro ci saranno ancora cristiani perseguitati da soccorrere. Ricordiamoci allora delle parole di Gesù: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). Finchè ci saranno dei cristiani ci saranno anche dei perseguitati, poveri ed indifesi.
Ininterrotta è la scia di sangue che attraversa la storia umana, dal giorno in cui Caino alzò la mano sul fratello Abele, fino agli uccisi dalla violenza di questi giorni, e purtroppo sappiamo che tale dramma durerà misteriosamente fino al compimento della storia.
Che senso può avere questa drammatica scia di sangue? Che Dio è un Dio che lo permette?
Centro del cosmo e della storia è Cristo e il suo sangue versato sulla Croce, il suo sangue sgorgato dal costato trafitto dalla lancia, ha il potere di cambiare completamente, per sempre e per tutti, il significato della sofferenza. Certamente il male rimane male e, in tale senso, è sempre assolutamente esecrabile, da evitare e da combattere strenuamente con il bene, con tutte le forze che ogni uomo di buona volontà ha a disposizione.
Ciò non di meno, dal costato del Dio fatto Uomo sgorga un “Sangue nuovo” ed una sola goccia di quel Sangue può salvare il cosmo intero.
Facciamo memoria, questa sera, del sangue dei martiri cristiani, versato per la violenza degli uomini e il peccato nel mondo. Come sostiene Papa Francesco, anche il silenzio e l’omertà sono peccato!
Siamo consapevoli che questo sangue è assunto da Cristo e trasformato dalla Sua divina potenza in “Opus salutis”, in Opera di salvezza, poiché, associato alla Passione redentrice dell’unico Salvatore, diviene espiazione vicaria. 
In questi ultimi decenni, giustamente impegnati nel prezioso tessuto del dialogo interreligioso ed interculturale, abbiamo cercato varie strade per incontrare l’altro: qualcuno ha sostenuto che si potesse essere cristiani anonimi; altri che il cristianesimo fosse una delle possibili vie – e non “la” Via per incontrare Dio.
Umilmente ritengo che i martiri cristiani, e con essi tutti i cristiani, esercitino una vera e propria espiazione vicaria, per Cristo, con Cristo e in Cristo, a favore di tutti gli uomini! Ed è per questo che, mentre ci stringiamo attorno ad essi e ne piangiamo con le famiglie la morte violenta, innalziamo a Dio un inno di lode per questi fratelli entrati nella gloria del Paradiso, con la palma del martirio tra le mani e cinti da una corona di gloria. Siamo infatti certi che l’unica salvezza, che Cristo ci ha guadagnata sulla Croce, giunge oggi a noi anche attraverso di loro, poiché il cristianesimo ha una dimensione strutturalmente martirologica, che, lungi dall’annientarne l’effetto e la forza, lo irrobustisce e lo rende ancora più fecondo di fede, di amore e di futuro.
Un grazie particolare voglio ora esprimere agli organizzatori di questa iniziativa, a chi l’ha resa possibile e a chi vi ha lavorato, iniziativa quanto mai conveniente in questa città, luogo di convergenza della fede di miliardi di persone e di custodia di un immenso patrimonio spirituale, che non può costituire un museo dei ricordi ma che deve prolungarsi vitalmente nella costruzione della civiltà dell’amore.
Maria Santissima, “Regina Martyrum”, sostenga la nostra quotidiana testimonianza nel martirio della pazienza, ci renda sensibili alle necessità di chi versa nel pericolo e ci prepari all’incontro supremo con il Redentore, che avverrà quando e come Dio vorrà.
lanuovabq

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Leggi anche:
L'INDIA PERSECUTRICE di Stefano Magni
YEMEN, LE SUORE MARTIRI di Giorgio Bernardelli
CRISTIANI PERSEGUITATI di Alfredo Mantovano

Da dove comincia la pace




di Costanza Miriano
Mi dispiace, sarò ripetitiva, ma per me, finché non si riapre seriamente un discorso sull’aborto, tutti i discorsi sulla pace e sulla guerra non hanno un gran senso. Perché una violenza si chiamerebbe diritto intoccabile, progresso e liberazione, e un’altra violenza invece sarebbe una crudeltà da combattere? Chi giudica quale violenza sia buona e quale cattiva? A parte quella per legittima difesa, tutta la violenza è cattiva (non uccidere, quinto comandamento). Allora perché dovrei indignarmi per una guerra, se c’è un genocidio consumato quotidianamente nei nostri ospedali, in un’apparente pulizia e asetticità, in cui le vittime sono i più deboli tra i deboli, i più piccoli tra i piccoli, i bambini che stanno cercando di crescere sotto il cuore della loro mamma?
Come posso appassionarmi alla proliferazione dell’orso marsicano, della foca o della balena, se in tutto l’Occidente si fanno poco più di un figlio a donna, e quindi si va verso l’estinzione? Come posso dedicarmi alla raccolta differenziata se i bambini uccisi in certi ospedali vengono buttati nei rifiuti (non in tutti: il Papa in Corea ha visitato un cimitero di bambini abortiti, ma nessun giornalone l’ha considerata una notizia degna di grande risonanza)? Come posso angosciarmi per i bambini lontani e non preoccuparmi di quelli vicini (uccisi tra l’altro anche a spese mie)
I nostri contemporanei che hanno eliminato Dio dal loro orizzonte e che si credono padroni della vita e della morte, depositari del giudizio di quale morte sia buona e quale cattiva, non possono fare a meno di credere in qualcosa, e allora si inventano nuovi dogmi del politicamente corretto, nuove battaglie a difesa di presunti diritti che però sono fragili e, francamente, poco appassionanti.
Ripartiamo dai fondamentali. I bambini dentro la pancia della mamma. Se dovessi pensare a una cosa che può mettere tutti d’accordo, non me ne verrebbe in mente nessun’altra.
fonte: Credere

Kiko domani al Divino Amore.

Kiko Argüello


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Oltre 30mila giovani da Italia e Europa sono attesi domani, domenica 1° maggio, al Santuario del Divino Amore dove si terrà un grande incontro vocazionale del Cammino Neocatecumenale in preparazione alla Giornata Mondiale della Gioventù del prossimo luglio a Cracovia (Polonia).
L’incontro avrà luogo nella piazza antistante il Santuario, guidato da Kiko Argüello, Carmen Hernández e padre Mario Pezzi, responsabili a livello mondiale del Cammino Neocatecumenale. Già si contano alcuni numeri: ad esempio, da Francia, Belgio e Lussemburgo verranno 420 giovani e dalla Polonia 450.  Da Slovenia, Croazia e Serbia 300, da Ungheria e Romania 150. Slovacchia,Malta, Albania e l’Inghilterra porteranno più di 200.
I più numerosi saranno quelli provenienti dalle varie regioni italiane: dalla Lombardia 1200, da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino 2.000. Da Liguria ed Emilia Romagna arriveranno in 500 e dalla Toscana 600. Saranno 600 i giovani provenienti invece dall’Umbria e da Marche e Abruzzo 4.000. Da Campania e Molise 3.500, da Puglia e Basilicata 1.500. Infine da Sicilia e Calabria parteciperanno 1.500 e 100 dalla Sardegna. Da Roma e dal Lazio verranno più di 11.000 giovani del Cammino.
Lo scorso 6 Marzo, un incontro simile ha avuto luogo a Murcia (Spagna), dove si sono riuniti più di 40mila giovani spagnoli e portoghesi.

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Rendiamo grazie al Padre di tutte le misericordie...




Omelia del Cardinale Leonardo Sandri,nella Celebrazione Eucaristica della Solennità di Santa Caterina da Siena, Patrona di Italia e di Europa -  Roma, Basilica di Santa Maria sopra Minerva
(a cura Redazione "Il sismorafo") 
Alle ore 18 di venerdì 29 aprile 2016, nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva, il Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nella Solennità di Santa Caterina da Siena, Vergine e Dottore della Chiesa, Compatrona della città di Roma, di Italia e di Europa. Alla Santa Messa hanno assistito Sua Beatitudine Youssef Ignace III Younan, Patriarca di Antiochia dei Siri, S.E. Mons. Cyril Vasil', Arcivescovo Segretario del Dicastero. Hanno concelebrato, oltre a numerosi religiosi domenicani e sacerdoti, anche i Superiori dei Frati Predicatori della Provincia del Centro-Italia e di quella di San Tommaso d'Aquino.  All'inizio della celebrazione, come tradizione, un rappresentante dell'Amministrazione Capitolina, ha offerto un omaggio floreale dinanzi all'altare che custodisce le spoglie mortali della Santa Senese. 
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1.Rendiamo grazie al Padre di tutte le misericordie, perché ci ha radunato a celebrare i santi misteri nella festa della Compatrona di Roma, di Italia e di Europa, Santa Caterina, vergine e dottore della Chiesa. 
Con stupore e commozione vogliamo sentirla vicina, non soltanto a motivo delle sue spoglie mortali che sono conservate e venerate sotto l'altare maggiore di questa basilica, ma ancor più perché in questi luoghi Ella visse per lunghi anni della sua vita mortale. Anche qui certamente allora fece l'esperienza di quel diventare dimora del Padre e del Figlio di cui ci ha parlato il Vangelo, il segreto più profondo della sua esistenza che espresse in numerose e bellissime preghiere e meditazioni.
Caterina, che fece la sua scelta religiosa dopo una visione del Santo Maestro Domenico, è gemma fulgida che brilla dentro il firmamento degli ottocento anni dall'approvazione dell'ordine dei Predicatori, che anche oggi, come ai tempi della Santa, officiano la Chiesa e animano la parte dell'antico convento che è stata restituita alla vita religiosa. Saluto qui con gioia i Superiori della Provincia Romana e di quella di San Tommaso d’Acquino, il Rettore della Chiesa, gli studenti e i confratelli domenicani, oltre che l’Arcivescovo Segretario e il Sotto-Segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, che mi accompagnano. Un saluto colmo di affetto va a Sua Beatitudine Youssef Ignace III Younan, Patriarca di Antiochia dei Siri, che ha voluto essere presente qui oggi per pregare con noi.
2. La Colletta, con cui ho rivolto la preghiera al Signore all’inizio dell’assemblea liturgica, ha tratteggiato l’opera di Dio in Santa Caterina, “ardente dello Spirito di amore”: “unire la contemplazione del Crocefisso e il servizio della Chiesa”. Ella, come testimone, ci cammina innanzi, e con la sua intercessione ci ricorda che noi pure siamo partecipi in virtù del nostro battesimo del mistero di Cristo e come figli, ogni giorno, chiediamo al Signore che ci conceda “di esultare nella rivelazione della sua gloria”. La gioia, l’esultanza, ci dice la Madre Chiesa con le parole della liturgia, scaturisce nel cuore perchéDio non è rimasto nascosto, ma si è fatto conoscere e, come dice Giovanni all’inizio del suo Vangelo “noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità”. Il Verbo che si è fatto carne, è il testimone fedele, l’Agnello che ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, abbiamo letto nell’Apocalisse, ma soprattutto Egli è “Colui che ci ama”. Caterina afferma: “Da qualunque lato io mi volgo trovo ineffabile amore, e non ci possiamo scusare di non amare, poiché tu solo, Dio e uomo, sei colui che amasti me senza essere amato da me, perché io non ero e tu mi facesti”. Al Signore, come l’apostolo Tommaso nell’ultima cena, Ella domanda quale sia la via per raggiungere il Padre: “O verità eterna, quale è la dottrina tua e quale è la via per la quale tu vuoi e ci conviene andare al Padre? Non ci so vedere altra strada se non quella che tu hai lastricata con le vere e reali virtù del fuoco della carità tua. Tu, Verbo eterno, l’hai battuta col sangue tuo: questa è la via adunque”.
3. La chiara percezione della misura dell’amore di Dio per l’uomo è motivo in Caterina di sentire la miseria del peccato che è rifiuto di Dio, rottura del legame autentico con Lui e con i fratelli: ciascuno di noi, anziché essere dimora di Dio, può lasciare che del cuore prenda possesso il mistero dell’iniquità. La risposta della santa che oggi celebriamo non è anzitutto quella di porsi sul piedistallo a giudicare il mondo, lei che forse ne avrebbe avuto maggiormente l’autorevolezza, ma quella di scegliere una via di penitenza evangelica e di conversione, per diventare con la sua vita un appello a tornare a Dio, ad essere Chiesa Sposa di Cristo, alla pace e alla riconciliazione tra i popoli divisi dalle guerre. È lo spirito del Giubileo della misericordia, indetto da Papa Francesco: ritornando a Cristo, passando attraverso la Porta Santa ma in realtà spalancando la porta del nostro cuore a Lui, tutti siamo chiamati a riprendere la via del Vangelo, anche i più lontani, gli esclusi, i peccatori impenitenti. Questa trasformazione interiore operata dalla Grazia deve dilatarsi intorno a noi e nel mondo intero, attraverso le opere di misericordia corporale e spirituale, e renderlo una dimora accogliente, una casa di giustizia e di pace. È la riprova di quello che san Giovanni ha affermato nella seconda lettura: “Se camminiamo nella luce, come egli (Gesù) è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri”. Preghiamo per il Papa e per la Chiesa, con la consapevolezza colma di fede della santa senese: “Grazia, grazia sia a te, sommo ed eterno Padre che, come pazzo della fattura tua, oggi mostri in che modo si possa riformare la santa Chiesa sposa tua. E supplico te che, come tu hai provveduto da l’una parte d’illuminare l’occhio dell’intelletto di questa necessità, così provveda dall’altra disponendo i ministri e, massimamente il vicario tuo, a seguire il lume che tu hai infuso e infonderai”.
4. Caterina dal cielo vede e contempla Roma, l’Italia e l’Europa, che le sono state affidate come compatrona. Con la sua preghiera Ella è chiamata a trafiggere le fosche nubi di tenebra che rendono difficile riconoscere come la Nazione e il Continente stiano camminando nella luce. Caterina assiste ancora, come ai suoi tempi, alla litigiosità colma di sterili divisioni e fazioni, anche tra coloro che hanno responsabilità nelle sorti dei popoli, o ai persistenti episodi di corruzione, di calunnia o di violenza. Ella amava definire Cristo come il ponte tra il cielo e la terra, ormai riconciliati nel Suo Sangue prezioso, e attraversava i confini degli Stati per recarsi dal Papa ad Avignone: ora vede l’Europa - essa che pure si conta tra i grandi produttori di armamenti - riempirsi di muri che ostacolano il cammino di coloro che fuggono dalla guerra e dalla miseria. Anche questo è un modo di far trionfare l’egoismo dell’individuo-Stato, anziché la collaborazione e la solidarietà tra i popoli, consentendo che si mantenga come sistema globale quanto il Santo Padre ha più volte denunciato. La comunione, la partecipazione, la solidarietà vanno protette, non la chiusura tra i popoli e le Nazioni!
5. Insieme con Caterina anche noi leviamo lo sguardo, ma non possiamo permettere alle tenebre evocate di essere l’ultima parola su noi e sul mondo. Più grande è il mistero della misericordia: anche noi dobbiamo invocarla e supplicarla. Dal nostro cuore, a causa del nostro peccato, delle priorità del proprio tornaconto in Europa, delle sofferenze indicibili dei fratelli in Siria, Iraq, Medio Oriente, Corno d’Africa (per ridestare l’attenzione sulla loro condizione tra qualche ora la Fontana di Trevi si tingerà di rosso..), del dramma degli sfollati in Ucraina, visto il pericolo in cui è messa la pace del mondo, sgorgano lacrime di impotenza, che chiediamo al Signore di asciugare, donandoci la consolazione e la speranza, come anche accadrà nella Veglia presieduta dal Santo Padre il prossimo 5 maggio. Scrive la nostra Patrona: “Oggi grido dinanzi alla misericordia tua che tu mi dia di seguitare la verità tua con cuore schietto; dàmmi fuoco ed abisso di carità; dàmmi continua fame di portare per te pene e tormenti; dà, Padre eterno, agli occhi miei fonte di lacrime, con le quali io inchini la misericordia tua sopra tutto quanto il mondo, e particolarmente sopra la sposa tua”. Amen

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«Cuore» è il titolo del primo seminario internazionale pensato per elaborare «una teologia intrinsecamente femminile»
L'Osservatore Romano
Cuore. «Cuore» è il titolo del primo seminario internazionale pensato per elaborare «una teologia intrinsecamente femminile» che si tiene dal 28 al 30 aprile a Roma nella sede della Pontificia università Urbaniana grazie all’impulso di Lucinda M. Vardey. Rispondendo all’invito più volte ripetuto da Papa Francesco di elaborare «una profonda teologia delle donne», l’iniziativa prevede altri due incontri che — sempre in coincidenza con il 29 aprile, festa di santa Caterina da Siena — si svolgeranno nel 2017 e nel 2018. Aperto da una relazione di Lucetta Scaraffia sui legami con il cuore nella storia della santità femminile, l’incontro di quest’anno comprende interventi di Judette Gallares, Mary Madeline Todd, Anne-Marie Pelletier, Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, Lucinda M. Vardey, Leanna Cappiello, Emily Van Berkum, Philomena Njeri Mwaura, Elena Buia Rutt e Giulia Galeotti. Pubblichiamo stralci di due relazioni sulla figura di Maria nei vangeli di Luca e di Giovanni e sul pensiero di Edith Stein.Reinterpretando la figura di Maria. Donna tra le donne
(Anne-Maria Pelletier) L’umanità è associata in modo più intimo all’opera di salvezza attraverso la persona di una donna (cfr. Galati, 4, 4) e questo implica che le nostre teologie devono aprirsi decisamente alla realtà dell’“essere donna”. In un corpus evangelico che, si sa, è incredibilmente parsimonioso e discreto sulla persona della Vergine Maria, occorre fare riferimento al vangelo di Luca, precisamente al capitolo 23, versetti 19 e 51, dove due episodi del racconto dell’infanzia di Gesù — la visita dei pastori a Betlemme e il racconto su Gesù che rimane a Gerusalemme dopo la partenza dei suoi genitori — si concludono con l’affermazione che «Maria / sua madre, serbava tutte queste cose / parole (rèmata) meditandole nel suo cuore», con la duplice precisazione al verso 19 di un «serbava con cura» (sunetèrei) e di un lavoro della memoria sui rèmata meditati (sumbàllousa en te kardìa autès). 
Questa breve osservazione ha una portata a priori modesta, in ogni caso meno immediatamente teologica delle menzioni giovannee della «madre di Gesù», corredate dal titolo solenne e inatteso di gynè, “donna”, che, nel racconto di Cana e in quello della Passione, hanno immediatamente una portata cristologica ed ecclesiologica. Le parole di Luca appaiono piuttosto come una discreta incursione nel registro segreto dei pensieri di Maria nascosti in Dio, nell’intimo del suo cuore. Così, per un breve istante il racconto di Luca varca il recinto segreto di un cuore di donna la cui vita è toccata, nella quotidianità dei suoi giorni, da un disegno di Dio esorbitante, che sconvolge la sua carne e che accompagna la storia del bambino nato dal suo seno. 
Pertanto, il riferimento fatto qui al “cuore” fa intravedere che il discorso va oltre l’aneddoto dei “fioretti”, cosa che, tra l’altro, i due primi capitoli di Luca non sono affatto. È nota in effetti la densità di significato della parola “cuore” in antropologia biblica. Il cuore è il luogo della libertà, dunque della decisione, che comanda l’ascolto, il consenso a Dio o la chiusura alla sua Parola. Il cuore è anche chiamato all’esercizio di memoria delle opere di Dio, dei suoi comandamenti, delle sue promesse. Perciò la sua debolezza fa appello alla speranza di un cuore sul quale i comandamenti saranno iscritti, in Geremia, o più radicalmente, di un cuore nuovo, cuore di carne capace di palpitare d’amore, in Ezechiele. Allo stesso modo, la tematica del “serbare” è una pietra di paragone dell’alleanza e della fedeltà a cui essa impegna. Parlare dell’atteggiamento del cuore è dunque esprimere nel suo punto nevralgico la relazione con Dio. 
Pur rispettando la grande sobrietà del racconto di Luca, occorre cogliere qualcosa dell’atteggiamento interiore di Maria sottolineato da Luca con parole molto semplici, ma cariche di un silenzio che dobbiamo interpretare correttamente. Alla luce del duplice versetto riportato qui, vorrei in particolare reinterrogare l’eccezionalità di Maria che l’episodio di Luca 11, 27 sembra chiamare in causa, e che paragona la beatitudine del ventre che ha portato Gesù a quella dei cuori che ascoltano (akùontes) e serbano (phulàssontes) la Parola di Dio. Il che porterà a proporre alla nostra riflessione alcuni pensieri su una qualità del femminile di cui la fedeltà/fede di Maria è una testimonianza eminente, che la Chiesa da lei maternamente generata deve a sua volta riconoscere e vivere.
Volendo passare dal vangelo di Luca a quello di Giovanni, possiamo immaginare che è l’apprendimento di questa fedeltà paziente a permettere a Maria di stare ai piedi della croce. Qui più che mai l’eloquenza dei commenti spirituali svanisce e concede a Maria una percezione sublime dell’evento, ben lontana dalla realtà desolata del patibolo del Golgota dove si consuma «l’amore fino alla fine» di Cristo. Il succedersi delle perplessità che avevano suscitato le sue domande (all’angelo: «Come avverrà questo?», e all’adolescente ritrovato: «Perché ci hai fatto questo?») confluisce in questa ora in cui tutti i segni si spengono, mentre si compie la misteriosa profezia di Simeone. Che cosa capiva Maria ai piedi della Croce, mentre ripercorreva nella sua memoria lacerata il cammino di quel figlio senza eguali? Chi può dirlo? Ed è poi importante forzare il segreto? Nella notte oscura del venerdì santo è possibile che il «mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» del figlio sia restato estraneo al cuore della madre? Ma a importare è solo ciò che attesta Giovanni: lei era lì, in piedi, sul calvario, alla portata degli occhi di Gesù. Si potrebbe allora anche immaginare qualcosa come l’ingresso di Maria nella nube della presenza divina, al tempo stesso oscura e luminosa: il dito sulla bocca.
Di fatto Maria non era sola sul Calvario. «Le donne che seguivano Gesù sin dalla Galilea» non lo avevano abbandonato come tutti gli altri. Anche nella nostra storia, Maria non è sola, contrariamente a un’immagine mitologica e tendenziosa («Sola tra tutte le donne, seppe piacere a Dio», Sedulius). Dobbiamo tenere presente che Maria, nel suo destino eccezionale, non è meno donna tra le donne. Teresa di Lisieux ha insistito su ciò sul suo letto di morte: «Non bisognerebbe dire di Lei cose inverosimili o che non si sanno». La stessa Teresa voleva che si dicesse: «viveva di fede come noi». Se la Vergine Maria è in stretta solidarietà con le donne del passato d’Israele, non lo è di meno con le donne di sempre e di ogni luogo. Credo, in effetti, che aiuti a percepire la capacità propriamente femminile di vivere l’oscuro, resistendo allo sconforto, superando l’evidenza della sconfitta, dunque senza abbandonare l’invisibile in cui la vita è invitta, dove la carne — per quanto sfigurata e decaduta — può sempre essere accolta, consolata, onorata. Una citazione per concludere: «tutti i viventi sono nel mio cuore. La locanda è vasta. Vi è perfino un letto e un pasto caldo per i criminali e i folli». Queste parole, che descrivono bene Teresa, potrebbero essere riferite altrettanto bene a Maria. Ebbene, sono le parole di un uomo, del poeta Christian Bobin. Mi piace questo confluire del maschile e del femminile. Credo che dobbiamo tenerlo presente nel nostro lavoro attuale. Ciò significa, nella fattispecie, che guardare e comprendere Maria è imparare la nostra umanità comune. E, per cominciare, chiaramente, è imparare a essere Chiesa, quella Chiesa che Maria riceve la vocazione di generare maternamente dalla bocca di Gesù sulla Croce. Possa tutta la Chiesa entrare nell’interiorità di questa fede di Maria che vede il mondo in Dio, serba una fiducia invincibile, qualunque sia la prova presente delle scadenze escatologiche.
La visione di Edith Stein. Nel profondo dello Spirito
(Hann-Barbara Gerl-Falkovitz)
Nei molteplici scritti teorici di Edith Stein, l’espressione “cuore” è poco comune, perché di solito lei non pone in rilievo l’affetto o il sentimento; nella maggior parte dei suoi documenti (escludendo le preghiere e le poesie) è rigorosamente riflessiva.
Ma nel suo capolavoro Essere finito ed essere eterno, scritto nel 1936-1937, si scopre l’espressione Herzmitte (“centro del cuore”). Cuore viene di solito usato come metafora di anima, ed è così possibile costruire un ponte verso la teoria dell’anima come centro inesauribile dell’essere umano. Questa antropologia porta, attraverso alcune riflessioni fenomenologiche, alla teologia dell’unità trinitaria in Dio. Ma soprattutto questo “cuore/anima” conduce in parte a Teresa d’Ávila, maestra psicologica e spirituale di Edith Stein.
La grandezza del “cuore” è quindi sia intellettuale che affettiva. Anche la chiara affinità con Agostino mostra la similitudine e la differenza nell’approccio di Edith Stein alla realtà umana e divina. La domanda se tale approccio può essere definito “femminile” richiede una risposta dettagliata.
In un testo straordinario e quasi sconosciuto del 1937, intitolato Pfingst-Novene (“novena di Pentecoste”) Edith Stein vede espresso nello Spirito Santo l’archetipo di donna. In sette versi innodici privi di rima e ritmo, la religiosa carmelitana domanda per sette volte «chi sei?» o «sei tu?», e di solito alla domanda aggiunge immagini o espressioni nelle quali si sente battere il suo cuore. Per esempio: «Sei forse tu la dolce manna, che emana dal cuore di tuo Figlio nel mio cuore?». Oppure riflette rifacendosi ai suoi scritti filosofici: «Dove tutti sentono il segreto significato del suo essere in modo delizioso». Il tono innodico le è familiare per aver lei stessa tradotto molti inni. Ma non condivide solo le immagini classiche, bensì le combina con il vivace ricordo di sua madre: l’aiuto altruistico, infinito, il calore naturale. Tutte queste esperienze si assommano nell’“avvocato”, lo Spirito santo: «Chi sei, dolce luce che m’inondi e rischiari la notte del mio cuore? Tu mi guidi come la mano di una mamma. Ma, se mi lasciassi, non più di un passo solo avanzerei».
In una sua riflessione questa idea ha radici ancora più profonde: «Nell’essere donna, ciò che è amore servizievole; non è un’immagine appropriata della divinità? Amore servizievole significa aiutare tutte le creature a giungere alla perfezione. Ebbene, tale è l’ufficio dello Spirito santo. Conseguentemente, nello spirito di Dio che si sparge su tutte le creature, potremmo vedere il prototipo dell’essere femminile. La sua immagine più perfetta la troviamo nella purissima Vergine (...); a lei più vicine sono le vergini consacrate (...). Sono sua immagine anche quelle donne che stanno accanto a un uomo che è immagine di Cristo, e che edificano il suo corpo, la Chiesa, attraverso la maternità fisica e spirituale» (Probleme der neueren Mädchenbildung).
Così, in modo del tutto inaspettato, si ritrova la poetessa nella filosofa, la donna credente nella pensatrice. Vivere a partire dal proprio cuore è la qualità dello spirito, dello Spirito santo, ed Edith Stein vede in questa persona divina l’immagine originale dell’essere donna. Cuore ed essere donna sono uniti tra loro in una terza entità, lo Spirito Santo.
Non vi è alcun dubbio che, nell’affrontare tali concetti, Edith Stein vada oltre il semplice significato-evento che (già di per sé) fa saltare i metodi e i confini della fenomenologia. Non lo prende come una cosa neutrale per quanto riguarda i fatti, ma come l’emergere di un potere personale. Ovviamente le catene dell’ego individuale vengono efficacemente sciolte da ciò attraverso una «pienezza che proviene d’altrove» (Natur und Gnade).
Proprio perché si tratta di una questione di potere personale, costituisce il suo corrispondente come persona. Ciò significa che esige una risposta: «Questo è il grande segreto della libertà personale davanti a cui Dio si arresta al fine di consentirlo. Egli vuole poter regnare sullo spirito creato solo come dono liberamente offerto dell’amore di quello spirito» (Kreuzeswissenschaft). Viene così descritto in modo esplicito un processo di reciprocità. Fintanto che il significato-evento rimane un “esso”, ha solo un carattere violento, depotenziante. Ma se giunge come “tu”, dischiude la possibilità di un amore libero, reciproco. L’essere umano riecheggia Dio, ma anche Dio riecheggia l’essere umano. Il solo avvicinarsi a immaginare ciò è, di fatto, un significato-evento che porta all’insondabile.
In sintesi: «Nel nascondimento e nel silenzio si compie l’opera di salvezza. Nel silenzioso dialogo del cuore con Dio vengono preparati gli elementi vivi dai quali cresce il regno di Dio, vengono forgiati gli eccellenti strumenti che aiutano a innalzare l’edificio» (cfr. Das Gebet der Kirche). In altri termini: «Il giorno in cui Dio arriverà ad avere potere illimitato sul nostro cuore, anche noi arriveremo ad avere potere illimitato sul suo cuore».
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