venerdì 22 aprile 2016

Reggio Calabria come Shangai

Aborto è violenza

Neonati abortiti all'insaputa dei genitori. Cartelle cliniche falsate. Assoluta indifferenza e freddezza da parte dei medici aguzzini, di cui quattro arrestati e sette sospesi. Un caso impossibile da censurare, emerso fatalmente dalle intercettazioni avviate all'interno di un'indagine sulla ndrangheta calabrese. Finora, però, chi ne ha parlato lo ha fatto liquidando la notizia come un episodio di malasanità: dal sito di Repubblica, che ieri mattina titolava “Errori medici con referti falsi”, al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che ha richiamato alla verifica delle «anomalie», fino alla guardia di finanza che ha ridotto la vicenda a «una bruttissima storia». Ma i toni dei media, pur indignati, sono fuorvianti e impediscono di fissare l'attenzione su particolari essenziali a comprendere le cause di un fatto che, legato ad altri capitati di recente, non può che interrogare tutto il mondo della sanità. E non solo quello calabrese.
Innanzitutto non uno o due, non tre o quattro, non cinque, ma tutti e undici i medici e gli operatori sanitari del reparto di ginecologia degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria sono coinvolti o comunque hanno accettato che avvenisse quanto descritto nelle telefonate fra primari e vice, provando la mentalità nichilista diffusa: «Eh niente gli è morto un bambino», ha affermato uno degli indagati. «Il bambino è vivo ma qui l'utero si è staccato», spiegava un altro. E, sottolineando che un padre non voleva l'aborto del figlio, emergeva la volontà di procedere comunque: «Perché lo dobbiamo ammazzare». Frasi che non possono che stridere ancor più se accostate a quelle del ministro, che si è limitato a dire che in Calabria «c'è molto lavoro da fare» e che «dobbiamo lavorare sulla maggiore capacità di segnalazione delle anomalie da parte delle direzioni sanitarie».
A questo punto bisognerebbe chiedere a Lorenzin se è un problema di comunicazione anche quello scoppiato all'interno dell'ospedale di Piombino, dove tredici pazienti sono stati uccisi con dosi eccessive di eparina dal personale medico e nell'omertà generale del reparto di anestesia e rianimazione. Ma si sa che in caso di risposta negativa quello di Reggio non potrebbe più essere archiviato come un episodio di malasanità, ma di aborti forzati e di disprezzo generale per la vita, mentre quello di Piombino come uno di eutanasia massiccia.
A questo punto, però, bisognerebbe porre un'altra domanda: come mai stracciarsi le vesti quando l'omicidio di un neonato è permesso per legge e il cosiddetto diritto alla morte procurata sembra diventato il nuovo mantra del progresso? Si potrebbe sviare anche da questo interrogativo, sostenendo che un conto è l'aborto consenziente, un altro è quello forzato e che non si possano mettere sullo stesso piano l'eutanasia attiva e quella passiva. Ma rimarrebbe un terzo quesito. Perché scandalizzarsi se la legge sull'aborto e la spinta per la legalizzazione dell'eutanasia stabiliscono che il diritto di scelta dell'adulto sia superiore a quello di vivere di un innocente o di un malato indifesi? Come e dove porre un limite?
I quesiti radicali quasi sempre censurati sono inevitabilmente emersi anche negli Stati Uniti, all'interno dell'indagine del Center for Medical Progress sulla vendita di organi da parte dei vertici del colosso abortista Planned Parenthood. L'inchiesta, condotta in diverse cliniche del paese, ha sfatato il mito delle falle isolate di pochi medici incriminati operanti nell'illegalità, dimostrando che fatti come questi sono solo gli estremi dell'aborto praticato legalmente ogni mattina negli ospedali di mezzo mondo. Infatti, se il sistema sanitario non gira più intorno alla lotta per la difesa del dono misterioso di ogni vita, ma si sottomette alla volontà del più forte, che differenza fa quando a morire sono uno o più innocenti, più o meno legalmente? Il divario fra uno o milioni di aborti secondo le norme o al di fuori delle regole (utili solo a fare dei distinguo lasciando tranquille le coscienze di chi li pratica tutti i gironi) è puramente quantitativo-qualitativo. Ma la sostanza non cambia, perché si tratta in ogni caso di omicidio. Se non si arriva fino a qui alle cronache indignate per il caso di Reggio Calabria e di Piombino, si sostituiranno nuovamente i commenti ostili contro un'Italia retrograda che difende ancora l'obiezione di coscienza.
di Benedetta Frigerio

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L'Onu vuole introdurre l'aborto "umanitario"
di Ermes Dovico

Assieme all’idea di imporre una “tassa globale per l’aborto” camuffata sotto altro nome e con imposte che potrebbero colpire perfino i biglietti aerei, l’Onu sta lavorando a un documento che introduca l’aborto all’interno del diritto umanitario internazionale, cioè quell’insieme di norme sulla protezione delle vittime di guerra. Secondo quanto rivela C-Fam, una Ong impegnata da anni nel contrasto delle politiche abortiste, le Nazioni Unite proporranno il documento al World Humanitarian Summit che si terrà a Istanbul a maggio: l’obiettivo è una dichiarazione che abbia portata generale e bypassi così la volontà (e la sovranità) di quegli Stati che hanno legislazioni a difesa della vita nascente. 
L’Onu sta preparando il terreno da mesi, agevolata anche dal Parlamento europeo, che a dicembre ha votato una risoluzione che sollecita “un impegno globale per assicurare alle donne pieno accesso a tutti i servizi sulla salute sessuale e riproduttiva, incluso l’aborto sicuro, in crisi umanitarie, come richiesto dalle Convenzioni di Ginevra e dai loro Protocolli addizionali”. In realtà, come spiega Susan Yoshihara della C-Fam, la risoluzione di Strasburgo si basa su un assunto falso perché “né nelle Convenzioni di Ginevra né nei Protocolli addizionali si parla mai di aborto”. Nell’affermare che le prime vittime di questo attacco al diritto internazionale sono i bambini, la Yoshihara sottolinea pure i problemi a cascata che si avrebbero sull’intero piano degli interventi umanitari: “Una distorsione delle leggi di guerra in senso abortista avrebbe conseguenze inimmaginabili per i gruppi che danno aiuto umanitario nelle aree segnate da conflitti. Dal momento che in molte di queste aree l’aborto è illegale e culturalmente inaccettabile, anche il solo sospetto di fornire servizi abortivi potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cooperanti internazionali”. 
Eppure, alcuni Paesi occidentali stanno mostrando una sempre maggiore aggressività sul tema, tanto che in una riunione di fine marzo i governi di Danimarca, Francia e Svezia hanno abbandonato l’eufemismo “diritti sessuali e riproduttivi” (usato per decenni per assuefare gradualmente la società) e definito l’aborto “una condizione essenziale”: non a caso, moderatore della riunione è stato Tewodros Melesse, direttore generale dell’International Planned Parenthood, un’organizzazione che gestisce centinaia di cliniche abortive in tutto il mondo, fattura oltre un miliardo di dollari nei soli Stati Uniti ed è scesa in campo proprio con l’Onu per tentare di allargare le maglie dell’aborto in Sudamerica, usando il pretesto del virus Zika. Nel frattempo, la Camera dei Lord britannica si è spinta addirittura a criticare una norma degli Usa, l’emendamento Helms, che vieta di finanziare aborti a livello internazionale (ma i candidati democratici Hillary Clinton e Bernie Sanders hanno già promesso che in caso di elezione l’abrogheranno).  
Un altro fatto di questi giorni conferma poi che cosa intendano veramente al Palazzo di Vetro quando parlano di sviluppo sostenibile. Con buona pace della trasparenza, il segretario generale Ban Ki-moon si è rifiutato di produrre il consueto rapporto che da quasi 20 anni specifica i finanziamenti ricevuti in materia di salute riproduttiva e ha invitato ad adottare una metodologia più “integrata”, suggerendo di prendere come modello l’ultimo report del Guttmacher Institute e dell’Unfpa (il Fondo Onu sulla popolazione). Perché proprio quello? Perché in quel report, sintetizzato da un’immagine che non lascia spazio a dubbi (rilanciata l’anno scorso su Twitter, paradossalmente prima della festa della mamma), si suggerisce che ogni dollaro investito in campagne contraccettive fa risparmiare 47 centesimi in assistenza alla maternità e cure da Hiv (alimentando anche il falso mito che l’Aids si combatta con la contraccezione). La grande idea dell’Onu per rendere più felice il pianeta è insomma non troppo originale: si chiama controllo delle nascite e vuole convincerci che il miglior modo per proteggere i bambini sia non farli nascere.