giovedì 26 maggio 2016

Contro la crisi demografica servono politiche per la famiglia

baby feet in hands


di Federico Cenci
Poco più di un anno fa, nel corso di un faccia a faccia televisivo, si consumò un episodio significativo circa il livello di negligenza della politica italiana rispetto alla crisi demografica. Di fronte alla proposta della leader francese del Front National, Marine Le Pen, di incentivare la maternità in Europa, Massimo D’Alema, già presidente del Consiglio italiano dal 1998 al 2000 e figura di spicco della politica italiana contemporanea, liquidò la questione parlando di “roba da Buonanima”. Il vecchio segretario del Pd si sottrasse così al dibattito incidendo in modo sprezzante il sempreverde marchio del fascismo mussoliniano.
La reazione di D’Alema la dice lunga sull’interesse della nostra classe dirigente dinanzi a un inverno demografico che sta seccando i rami del popolo italiano. Nuovo minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia si è registrato lo scorso anno, con 488 mila neonati. Il tasso di natalità si attesta su 1,35 figli per donna, cifra che non assicura il ricambio generazionale. Misure come il bonus bebè, l’intenzione di incentivarlo da parte del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, sono timidi segnali di coscienza da parte della politica. Di questo tema ZENIT ne ha parlato con il prof. Alessandro Rosina, docente di Demografia presso l’Università Cattolica di Milano, autore del libro “Demografia” (ed. Egea – 2014).
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Prof. Rosina, nel 2015 si è registrato un nuovo record negativo di nascite in Italia. Quali le cause di questo rigidissimo inverno demografico?
I motivi sono vari, ma i fattori principali sono tre. Le difficoltà dei giovani a conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e formare in modo solido una propria. La difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia per le giovani coppie. La scarsa fiducia in una azione politica in grado di mettere in campo misure incisive e continuative a favore delle famiglie con figli. La crisi economica ha reso ancora più problematico questo quadro.
Eppure negli anni ’60 si parlava di “baby boom”. Ci sono stati dei punti di rottura culturali nella società che hanno contribuito ad invertire la tendenza demografica?
La società degli anni ’50 e ’60 era molto diversa. C’era il boom economico e la voglia di costruire una società nuova, che lasciava alle spalle guerra e deprivazione. C’era la prospettiva di un futuro migliore e il sistema di welfare pubblico era in espansione. Ci si poteva sposare in giovane età e bastava un unico stipendio come operaio per mantenere una famiglia con standard di vita migliori rispetto ai propri genitori. Oggi il percorso dei giovani verso la vita adulta, sia sul versante maschile che femminile, è più lungo e incerto, in un contesto culturalmente meno favorevole.
Della crisi demografica se ne parla da circa vent’anni. È stato fatto qualcosa per arginarla?
Qualcosa si è fatto, ma molto meno rispetto agli altri Paesi. Il sistema fiscale italiano continua a essere meno favorevole rispetto agli altri Paesi per le coppie con figli. Il rischio di povertà delle famiglie con oltre due figli a carico continua ad essere molto elevato. Le politiche a favore della formazione di nuovi nuclei e della scelta di aver figli continuano ad essere molto carenti. Qualche segnale positivo si era intravisto nelle regioni del Nord, ma la crisi ha congelato tutto.
Quali misure bisognerebbe adottare?
Ci sono almeno due punti sui quali dobbiamo investire maggiormente. Si tratta delle misure che favoriscono i percorsi di autonomia e assunzione di responsabilità dei giovani, come l’accesso alla casa e al lavoro stabile, e strumenti che favoriscano un equilibrio al rialzo tra lavoro e famiglia, come gli asili nido e i congedi di paternità.
Qual è la soglia minima di nascite all’anno, in Italia, per sopravvivere al declino demografico? Alcuni parlano di 500mila, ma è più una soglia psicologica, è un numero ancora troppo basso…
Più che il numero assoluto delle nascite è il numero medio di figli per donna che conta. Il livello minimo per un equilibrio tra generazione dei genitori e quella dei figli è due. Sotto un figlio e mezzo si parla di fecondità “molto bassa”. Se l’Italia non torna sopra a tale livello il rischio è di non riuscire a risollevarsi da una spirale negativa che vede le basse nascite di ieri erodere il numero di potenziali madri di oggi e quindi ancor più le nascite di domani. Con un avvitamento continuo verso il basso.
Si innalza l’età delle coppie che decidono di avere un primo figlio, ne derivano maggiori difficoltà in termini di fertilità. Oltre allo Stato sociale, per invertire la tendenza non sarebbe importante anche intervenire da un punto di vista culturale?
Sì. Bisognerebbe ridurre la lunga dipendenza dei giovani dalla famiglia di origine e consentire ai giovani di iniziare in età non tardiva a costruire una nuova famiglia. Servono strumenti di welfare adeguati, un Paese che torna a crescere valorizzando il ruolo delle nuove generazioni, un cambiamento culturale che porta a non considerare le politiche per la famiglia un costo ma un investimento collettivo per un più solido futuro.
Recentemente, in un incontro con la sua collega italiana Stefania Giannini, il ministro dell’Istruzione tedesco, Johanna Wanka, ha affermato che l’unico settore in cui la Germania non è cresciuta negli ultimi anni è la demografia. Ha detto inoltre che “i nuovi arrivi”, cioè gli immigrati, servono a supplire il vuoto delle nascite. Dobbiamo pensare che un domani gli immigrati sostituiranno le popolazioni autoctone europee?
Fortunatamente viviamo sempre più a lungo. Ma per rendere sostenibile una società più longeva e matura va anche rafforzata la base della piramide demografica. La risposta è quindi in una combinazione tra fecondità più vicina ai due figli per donna e una immigrazione più gestibile e meglio integrabile. Gli immigrati possono contribuire alla crescita, non possono di per sé supplire la carenza cronica di nascite.
Alcuni dati rivelano che qualche anno fa l’indice di fecondità per donna immigrata, in Italia, era di 2,5, oggi è sceso a 2,1. Allora anche gli immigrati, una volta inseriti in un contesto diverso dal loro originario, tendono a fare meno figli?
La fecondità degli immigrati tende nel tempo ad avvicinarsi a quella della popolazione autoctona, sia perché vivono in un contesto culturale diverso rispetto al paese di origine, adottandone progressivamente stili di vita e preferenze, sia perché si trovano con le stesse difficoltà poi nel conciliare lavoro e famiglia.
Quanto pesa sull’economia la crisi demografica?
Pesa molto. La carenza di politiche efficaci a favore della famiglia producono costi in termini di rischio di povertà per chi fa figli, di maggior esclusione femminile dal mercato del lavoro, di riduzione della popolazione giovane in età attiva per la denatalità passata, di maggior invecchiamento della popolazione con implicazioni sulla spesa pensionistica e sanitaria. I mancati investimenti sulla famiglia diventano costi che compromettono il futuro di tutti.
Zenit

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Le vere cause dell'inverno demografico

CULLE VUOTE

(di Tommaso Scandroglio) Qualche giorno fa il Ministro per la Salute Beatrice Lorenzin, in una intervista rilasciata aRepubblica, ha lanciato un allarme: «In cinque anni abbiamo perso oltre 66mila nascite, cioè per intendersi una città più grande di Siena. Se andiamo avanti con questo trend, senza riuscire a invertirlo, tra dieci anni cioè nel 2026 nel nostro Paese nasceranno meno di 350 mila bambini all’anno, il 40% in meno del 2010».
Il declino demografico nel nostro Paese iniziò negli anni ’70 e nel 1983, per la prima volta, il numero dei morti superò quello dei nati. Oggi abbiamo toccato quota 1,39 figli per donna: il 25% delle donne entra in menopausa senza mai aver avuto un figlio. Come è noto, il ricambio generazionale è invece assicurato da una valore minimo pari a 2,1.
Quali i motivi di questo famigerato inverno demografico? Il Ministro Lorenzin indica problematiche di carattere economico. «Non può non esserci una correlazione con la crisi economica», afferma il Ministro. Da qui la sua proposta di raddoppiare il bonus bebè per i nuovi nati. Ma le cause non sono tanto da ricercare nel portafoglio degli italiani, bensì nel loro cuore e nella loro testa. Cioè sono cause prima di tutto culturali.
Se andiamo a vedere in Europa i Paesi in cui si sono elargiti bonus bebè sostanziosi e agevolazioni fiscali per la famiglia significative, le culle non si sono riempite come sperato. Ad esempio Francia, Germania e Svizzera hanno politiche di sostegno alla maternità molto serie e assai simili tra loro, eppure il tasso di fecondità tra le francesi è di 2, tra le donne tedesche è pari a 1,4 e in Svizzera è 1,5. Semplificando: a parità di soldi elargiti non abbiamo uguali effetti in quanto a nuovi fiocchi azzurri e rosa.
Il denaro c’entra poco anche perché la decrescita si è accentuata in Italia proprio quando negli anni Ottanta e Novanta l’Italia non era certo in crisi (erano gli anni della Milano da bere). Inoltre in Italia gli immigrati continuano a fare più figli degli italiani, nonostante i primi abbiano un reddito inferiore ai secondi. E dunque la radice del male non è di natura principalmente economica. Abbiamo prima notato che il collasso della natalità in Italia è iniziato negli anni ’70, proprio all’indomani del varo della legge sul divorzio. Se uccidi la famiglia, chiaramente uccidi anche la possibilità di avere figli perché allora – meno oggi – conditio sine qua non per mettere al mondo dei figli era essere sposati.
Nel 2014 sono stati 363.916 i figli nati da genitori sposati, circa 100mila in meno rispetto al 2008. Di contro oltre 138mila bambini sono nati nel 2014 da genitori non sposati, quasi 26mila in più del 2008. Ma il dato che emerge dalla lettura complessiva di queste cifre non è quello che la convivenza aiuta le nascite, ma che diminuendo i matrimoni ovviamente diminuiscono anche le nascite da coppie coniugate e aumentando il numero di convivenze necessariamente aumenta anche il numero di nati da genitori conviventi.
Più in particolare le nascite comunque diminuiscono perché il figlio viene messo al mondo solo se c’è una garanzia di stabilità di coppia. Ora le coppie sposate spesso non credono più nell’indissolubilità del matrimonio e quindi ci pensano molto prima di dare alla luce un figlio. A maggior ragione chi convive, dato che ha instaurato una relazione per sua natura precaria. La possibilità di divorziare e la diffusione della convivenza hanno quindi contribuito al fenomeno delle culle vuote. L’incertezza del domani non fa bene alla voglia di maternità.
Ecco quindi che il figlio “si cerca” solo quando “ci si sente pronti”, cioè verso i 35-40, età in cui, soprattutto per le donne, è molto difficile rimanere incinta. Da qui l’impennata di richieste di avere un figlio in provetta. In questo scenario di voluta instabilità di relazioni, il figlio poi non è visto come dono, ma come rischio, come pericolo che attenta alla serenità del singolo e della coppia, come elemento terzo che può togliere risorse, soldi e tempo. Il figlio è percepito come nemico del proprio benessere.
Questo è l’esito di quella cultura che esalta l’individuo e il suo star bene. Nel campo della vita nascente ciò significa diffusione delle metodiche contraccettive – guarda caso anch’esse emerse con forza negli anni ’70 – le quali, da una parte, incentivano una mentalità contro la vita e dall’altra, per la contraccezione ormonale, aumentano i pericoli di non riuscire a concepire un figlio, dato che gli effetti contraccettivi possono sopravvivere per un lungo periodo anche dopo che non si fa più ricorso alla pillola contraccettiva (cd. overtreatment contraccettivo).
La mentalità contro la vita poi ha il suo apice nella pratica abortiva. Abbiamo visto che in Italia il numero di morti ha superato quello dei vivi nel 1983. Proprio nel 1982 si è registrato il picco di numero di aborti chirurgici in Italia. È l’aborto la prima causa della denatalità nel nostro Paese. Un concepimento su cinque finisce in un aborto procurato. Se si vietasse l’aborto l’incremento della popolazione sarebbe intorno al 20-25%. Prima di cercare di far nascere nuovi bebè, sarebbe meglio non uccidere quelli che già ci sono. L’Institute of Family Policies in America ha calcolato che «il numero di aborti nei ventisette paesi europei in un anno (1.207.646) equivale al deficit nel tasso di natalità in Europa». Senza poi contare tutti i criptoaborti prodotti dai preparati chimici e dalla fecondazione artificiale.
In realtà non è la crisi economica che favorisce la denatalità, bensì sono le culle vuote che svuotano i conti correnti. Ad avvertire del pericolo è stato già alcuni anni fa l’economista Ettore Gotti Tedeschi, il quale sulla questione è tornato ad esprimersi più volte: «La crisi in corso nasce grazie al crollo delle nascite nel mondo occidentale, iniziato intorno al 1975. Tale caduta ha provocato la flessione dello sviluppo economico, l’aumento dei costi fissi (i costi sociali, con sanità e farmaci) a causa dell’invecchiamento della popolazione» e di conseguenza «l’aumento delle imposte e il crollo del tasso di crescita del risparmio prodotto» (Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà, in Corriere della Sera, 23 luglio 2010). (Tommaso Scandroglio)