lunedì 23 maggio 2016

La forza della debolezza



Osservatore Romano
21 maggio 2016
di ENZO BIANCHI
Amato Padre e Vescovo Epiphanius,
cari metropoliti e vescovi,
amati padri, monaci e monache,
cari amici e ospiti!
A tutti voi il saluto di benvenuto mio e della comunità, nella gioia per la vostra presenza, autentico segno della misericordia di Dio in mezzo a noi. Questo saluto è anche un saluto di accoglienza nel Signore, nella sua pace e nel suo amore. È lui, infatti, che ci raduna in questi giorni, uniti nell’ascolto della sua Parola e di quella sequentia sancti Evangelii, di quel brano di Vangelo che sono le vite dei santi e dei testimoni di Cristo nella compagnia degli uomini.
Non posso tacervi la mia emozione nel confessare che questo Convegno ha un'origine assai lontana nel tempo. Nel tardo autunno del 1969, quando l'embrione di questa Comunità monastica di Bose contava appena quattro fratelli e una sorella, scoprii un testo di abuna Matta el Meskin tradotto in francese e non ancora pubblicato: L'Unité chrétienne. Rimasi folgorato dalla lucidità profetica di quelle parole e volli tradurle e pubblicarle in Italia su una piccola rivista, Lettere '70, che raccoglieva le riflessioni spirituali di alcuni cristiani di diverse confessioni stimolati dalla “novella Pentecoste” del concilio Vaticano II. Uscì nel numero di febbraio del 1970 con il titolo Ecumenismo o coalizione?
Pochi anni dopo, a metà degli anni '70, ebbi la gioia di visitare per la prima volta il Monastero di San Macario a Wadi el Natrun e di incontrarvi l'autore della traduzione francese, abuna Wadid, un ingegnere cattolico che, desideroso di abbracciare la vita monastica e non trovandone la possibilità all’interno della sua chiesa copto-cattolica, venne accolto a San Macario nel pieno rispetto della sua identità confessionale, fino a divenire uno dei monaci più vicini al cuore di Matta el Meskin.
Pochi mesi fa sono venuto a sapere che proprio la traduzione in francese di quel testo sull'unità dei cristiani era stata all'origine del primo incontro tra Wadid e abuna Matta el Meskin a Wadi Rayyan... Ma su questo intenso legame fraterno ascolteremo la voce di fr. Wadid stesso che, pur nell'impossibilità di essere tra noi fisicamente, non ha voluto far mancare il suo contributo ai nostri lavori.
Di quegli anni è anche testimone lo stupendo quadro e le pagine di diario che il grande artista William Congdon volle dedicare al monastero di san Macario e che abbiamo il privilegio di poter esporre in questa sala grazie alla generosa disponibilità della Fondazione William Congdon che ringraziamo di cuore nella persona di Rodolfo Balzarotti presente in mezzo a noi.
A San Macario fervevano i lavori di ricostruzione. Matta el Meskin, dopo aver diretto personalmente il progetto, l’impostazione e l’esecuzione degli interventi principali, viveva ormai in disparte, dedicandosi unicamente alla preghiera e alla paternità spirituale nei confronti dei suoi monaci. A chi, come me, chiedeva di incontrarlo, faceva rispondere che la sua persona non era importante e che solo l’incontro con il Signore restava fondamentale per ogni cristiano e per ogni monaco. Ma la sua parola giungeva attraverso il vissuto dei suoi monaci – parabola vivente di cosa significa la sequela cristiana nella via monastica – e per me in particolare grazie ai dialoghi fraterni con fr. Wadid, uomo di pace e di accoglienza, capace allora come oggi di trasmettere a quanti lo accostano l’intensa ricerca della comunione nell’amore che arde in lui come ardeva nel suo padre spirituale.
Da quel primo incontro, sia io che diversi miei fratelli siamo tornati più volte a Deir Abu Makar, per confrontarci con una testimonianza monastica che ci riporta all’essenziale della nostra vocazione, per abbeverarci alle sorgenti del monachesimo cristiano – non si dimentichi che in quei medesimi luoghi i monaci sono presenti ininterrottamente dal IV secolo – e per cercare di leggere insieme ad altri fratelli nella fede “ciò che lo Spirito Santo dice alle chiese”.
Tutto questo fino al dono inaspettato e immeritato che la bontà del Signore ha voluto farci sul finire dello scorso anno: in settembre la partecipazione di Anba Epiphanius qui a Bose al Convegno annuale di spiritualità ortodossa dedicato alla beatitudine dei misericordiosi, il suo vivere, muoversi e parlare in mezzo a noi come un fratello nella fede e un padre nella vita monastica. Poi nel mese di dicembre in Egitto, a 50 anni esatti dal mio arrivo qui a Bose, l'evento di grazia che ha superato ogni nostra attesa: Markos, il nostro novizio copto, ha ricevuto con la benedizione del Patriarca Tawadros l'abito monastico dalle mani di Anba Epiphanius ed è stato quindi sigillato un autentico gemellaggio spirituale tra i nostri due monasteri.
Dagli incontri fraterni con i monaci di San Macario è sempre emersa in tutta la sua trasparenza una vita che ha come fondamento il nutrimento quotidiano della parola di Dio, unico cibo che sostiene la speranza del regno di Dio. «Quando chiesi a Matta el Meskin di insegnarmi a pregare – mi confidò una volta un monaco – l’abba mi disse di dargli la mia Bibbia. Aprì il libro, cercò l’inizio della Lettera agli Efesini, si alzò, levò gli occhi al cielo, lesse ad alta voce il primo versetto, tacque, ripeté due volte ogni parola, poi rilesse tutto daccapo. Passò al versetto seguente, alzò la voce, supplicò Dio di perdonarlo, canticchiò il versetto, la ripeté a bassa voce, alzò le mani, pianse... E fece così fino alla fine del capitolo. Si era completamente dimenticato della mia presenza accanto a lui!».
A un giornalista che lo interrogava sulle origini del proprio cammino monastico, abuna Matta el Meskin rispondeva: «La mia vita è una profonda relazione tra Dio e me. Ho cominciato da solo. Lo scopo è stato quello di offrire la mia vita al Signore: questo l’ho capito e deciso grazie a una lettura continua della Bibbia. Antico e Nuovo Testamento mi hanno concesso di costruire la mia vita se un fondamento solido. Mi sono chiesto: come potrò donare tutta la mia vita al Signore in questi pochi anni che ho da vivere? Come potrò realizzare nella mia esistenza ciò che hanno vissuto le persone della Bibbia? Ho pensato che la mia vita fosse troppo breve per poter assimilare questo libro. Allora ho tentato, nella preghiera e con molte lacrime, di capire questi uomini dell’Antico Testamento e, poco alla volta, mi sono diventati familiari: mi sono adattato a loro, e ora essi vivono in me e io in loro. Come essi hanno vissuto la loro relazione con Dio, così anch’io oggi. Nei libri dell’Antico Testamento ho sperimentato l’amore di Dio, la sua severità, la sua pedagogia, la sua bontà. Giorno e notte ho letto la Bibbia, affinché diventasse la mia propria carne e il mio sangue. Poi sono passato al Nuovo Testamento, che è stato per me un libro luminoso. Ho capito che il Signore è la luce del giorno, e Cristo la stella della pace. Antico e Nuovo Testamento mi collegano a Dio: la mia vita, il mio pensare, il mio amare non è altro che la Sacra Scrittura. Il resto non mi interessa più».
Ma la Scrittura giunge attraverso una tradizione ed è per questo che – accanto ad essa – i detti degli abba del deserto e le opere dei padri della chiesa sono per i monaci di Scete cibo quotidiano nella lettura, nello studio, nella contemplazione. Così era solito ripetere abuna Matta: «Quando leggiamo un apoftegma, a noi deve accadere questo: prima lo Spirito ci convince che la loro esperienza è vera, poi dobbiamo lottare per fare nostra questa loro esperienza, perseverando nella lotta fino alla morte, cioè pronti a morire per rimanere fedeli al comandamento che lo Spirito ci ha dato. Morire per mettere in pratica nello Spirito un comandamento del Signore: questo è il vero martirio. Ma colui che è pronto a morire sarà salvato dal Signore e non morirà, perché il Signore stesso è morto per noi. Se il monaco, prima ancora di ricevere l’abito, è pronto a rimanere incondizionatamente fedele, fino alla morte, se non ha paura della morte, allora la sua vita monastica sarà spiritualmente riuscita. Ma se teme per il suo corpo, se rifiuta di correre rischi, allora la sua vita monastica sarà molto penosa. Peggio ancora: sarà assai difficile per lui essere trasformato dallo Spirito in un uomo nuovo».
È in questa medesima ottica di morte e risurrezione che abuna Matta el Meskin collocava anche il suo sforzo quotidiano di conformarsi alla volontà del Signore che, alla vigilia della passione aveva pregato il Padre perché i suoi discepoli fossero “una cosa sola”. Ardente fautore di un’unità dei cristiani fondata non sulla spinta affettiva o sulla tendenza opportunistica alla coalizione, bensì sulla forza della debolezza – come ben dimostra quel profetico scritto della fine degli anni sessanta – padre Matta el Meskin non si è mai stancato di ricercare vie di pace e di comunione che trovano la loro origine nel comune sottomettersi alla volontà di Dio. Ancora nella mia ultima visita a San Macario a inizio di questo secolo, sapendo del peggioramento delle condizioni di salute di abuna Matta, chiesi di poterlo vedere. Fr. Wadid tornò da me con il suo consueto volto radioso e mi riferì che il padre mi salutava con affetto e mi invitava ancora una volta all’essenziale: restare saldamente attaccati a Gesù Cristo e alla sua Parola.
Così, in questa saldezza della fede e in questa speranza della risurrezione, desidero ricordare Matta el Meskin nel decimo anniversario del suo passaggio da questo mondo al Padre. Ora riposa là dove il suo cuore ha sempre desiderato essere: nella pace di Dio. Una pace di cui il “giardino” di San Macario è anticipazione e promessa.
Ed è con un augurio di pace che sono lieto di aprire questi giorni di comune ricerca della volontà di Dio e dell'unità dei discepoli di Cristo. Grazie a tutti voi di essere intervenuti e di lavorare insieme per ascoltare e mettere in pratica il comandamento nuovo dell'amore. Grazie

Pubblicato su: Osservatore Romano