martedì 26 luglio 2016

Guardando all’arte dal cattolicesimo




L’analisi di Maritain. Torna in libreria L’intuizione creativa nell’arte e nella poesia di Jacques Maritain. Nata da sei lezioni tenute nella primavera del 1952 dal filosofo francese alla National Gallery of Art di Washington, pubblicata in inglese l’anno successivo e definitivamente in francese nel 1966, quest’opera di intelligente analisi e di forte sintesi, era stata tradotta dalla Morcelliana già nel 1957 e poi, a cura di Marco Ivaldo, nel 1983. Questa seconda edizione viene ora ristampata con una postfazione di Roberto Diodato, una nota bibliografica di Piero Viotto e 68 tavole fuori testo, in gran parte a colori (Brescia, Morcelliana, 2016, pagine 483, euro 38). Tra Platone e Kandinskij, secondo Maritain «l’intuizione poetica chiede soltanto di essere ascoltata».
 
(Sylvie Barnay) Pubblicando Art chrétien/art sacré: regards du catholicisme sur l’art, (Presses Universitaires de Rennes, 2014) Isabelle Saint-Martin, direttrice degli studi all’Ecole pratique des Hautes Etudes a Parigi, ricostruisce una pagina importante dei rapporti del mondo cattolico con l’arte attraverso una sintesi magistrale. Che il cristianesimo abbia ispirato l’arte occidentale almeno fino al XIX secolo è un dato di fatto che l’autrice sottolinea fin dalle prime righe: «Posizione ancora più importante da ricordare perché il suo valore di “fatto” sta diminuendo e si sta scontrando con la tematica tanto ricorrente del divorzio tra arte e Chiesa». È proprio questo divario che Isabelle Saint-Martin cerca di interrogare, ricordando, sullo sfondo, la posizione originale della Chiesa sull’arte, supportata soprattutto dalla lunga tradizione dei testi magisteriali.
A tale proposito, le recenti posizioni di Papa Francesco sull’arte che esprime la bellezza della fede, come pure la Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II nel 1999, si ricollegano alla visione più antica di un cattolicesimo che sostiene l’affinità intrinseca tra arte e religione. Ma, come sottolinea ancora l’autrice, questa tradizione di amicizia tra la Chiesa e le arti entra anche in consonanza con un fenomeno di progressiva sacralizzazione dell’arte. Va ricordato a tale proposito quanto “la religione dell’arte” come religione di sostituzione della modernità sia stata messa in luce dalle ricerche di sociologia o di filosofia, che hanno esplorato i parallelismi tra le esperienze estetiche e le esperienze religiose.
Il libro si apre allora a una rilettura dei dibattiti sull’arte e sulla religione che hanno scandito il XIX e il XX secolo, andando ben al di là delle fluttuazioni concettuali a cui danno generalmente luogo. La sua grande forza consiste in effetti nel ricollocare nel loro contesto storico i principali termini del rapporto tra arte e religione, senza mai cadere in preconcetti o posizioni di comodo. Al contrario, Isabelle Saint-Martin non smette di ricordare proprio l’origine dei dibattiti, evitando ogni possibilità di ripresa sfocata dei concetti. E non è l’ultimo dei meriti di questo libro.
Esaminiamo ora più da vicino lo sviluppo del piano dell’opera. La ricerca si ordina in quattro tappe cronologiche importanti: prima tappa, la messa in atto di un ideale estetico dell’arte cristiana (1800-1850); seconda tappa, la costituzione di un sapere erudito sull’arte religiosa che accompagna una forma d’“invenzione del patrimonio” (1850-1900), terza tappa, l’eredità del XIX secolo nei dibattiti sulle ridefinizioni della terminologia “religioso/cristiano/sacro” dell’arte di fronte alle prime crisi e prese di posizione ufficiali del magistero (1900-1950), quarta tappa, la riappropriazione patrimoniale e la ripresa del dialogo con l’arte contemporanea (1950-2000).
Ognuna di queste tappe vede la creazione di una nuova forma di rapporto tra la Chiesa e l’arte, ponendo l’accento sul modo in cui queste istanze sono diventate un sistema, in una relazione di scambio. Non si tratta qui di descrivere la storia dell’arte religiosa all’indomani della Rivoluzione francese fino alla svolta del secondo millennio, ma di mostrare come si costruisce una lettura cattolica dell’arte nel momento stesso in cui si mette in pratica la disciplina della storia dell’arte come scienza e in cui si elabora un discorso erudito sull’iconografia religiosa.
Nel corso del testo, Isabelle Saint-Martin mostra come saranno progressivamente definiti i termini ”arte sacra”, “arte religiosa” o “arte cristiana”, termini oggi utilizzati in modo indifferenziato, mentre invece non è insignificante ricordare i diversi contesti in cui emergono.
All’inizio di questo percorso, è il movimento romantico a compiere i primi tentativi di definire i contorni di un ideale di “arte cristiana” autentica, distinguendola dall’arte a soggetto religioso.
Chateaubriand o ancora Wackenroder sono così all’origine di una “forma di estetizzazione del religioso” che fornisce nuove armi all’apologia: «Non provare che il cristianesimo è eccellente perché viene da Dio: ma che viene da Dio perché è eccellente» così afferma Chateaubriand nel 1802. Su questo piano si muovono fondamentalmente le accuse dei rivoluzionari a un cristianesimo “nemico delle arti”, la giustificazione della religione attraverso la bellezza «porta a leggere la Bibbia come un’opera letteraria e a visitare le chiese come musei». Ma definire l’arte cristiana è anche «prendere atto del fatto che ogni arte non è più tale in seno a una società che si è secolarizzata». Il termine, che appare attorno al 1830, è nuovo, anche se ciò che scopre è tanto antico quanto il cristianesimo, e molto spesso rimanda al solo cattolicesimo. Ha come opposto l’arte “pagana”, giudicata troppo sensuale. Consiste nel trasmettere ciò che l’artista prova. In altre parole, non basta all’artista raffigurare Cristo, la Vergine o i santi perché il suo dipinto sia definito cristiano. La sua funzione deve essere emotiva, non solo devozionale.
Questo ideale, che propone un approccio estetico alla fede, suscita a partire dal 1830, un certo numero di critiche mentre la patrimonializzazione delle chiese diviene una posta in gioco archeologica e turistica. L’estetizzazione del cristianesimo fa temere che l’arte religiosa sfugga alla Chiesa o trasformi le chiese in musei.
Il mecenatismo di Stato a favore delle chiese e le prime forme di tutela delle chiese in quanto monumenti storici sono all’origine di un nuovo discorso erudito che apre un sapere secolarizzato sull’arte religiosa. L’opera, che da quel momento passa dal luogo di culto al museo, «non perde qui totalmente la sua dimensione spirituale — come la conserva nelle chiese, visitate per le loro ricchezze da secoli — né il suo valore artistico proprio».
Ma dalla fine del XIX secolo emergono altri sviluppi legati ai cambiamenti della scena artistica.
Da quel momento non si tratta più di esaminare il carattere cristiano o pagano dell’arte di Chiesa, ma piuttosto di considerare i suoi legami con la modernità estetica. In questo importante approccio, Isabelle Saint-Martin mostra che «il valore dell’arte cristiana si ritrova subordinato al suo valore in quanto arte» e «alla sua legittimità di dichiarare la propria appartenenza al movimento artistico» in quel che comporta di più innovativo. Secolarizzazione dello sguardo cattolico? Integrazione nel pensiero religioso dell’arte per l’arte? Il dibattito è complesso.
I primi decenni del XX secolo sono in effetti teatro di un rinnovamento dell’arte religiosa accompagnato anche da numerose pubblicazioni destinate a un pubblico colto, ma anche dalle prime prese di posizione ufficiali del magistero romano, essendo allora il termine “arte cristiana” spesso utilizzato in modo più neutrale, anzi come sinonimo di “arte religiosa”. Dagli anni Venti, l’“arte sacra” rimanda, soprattutto in Jacques Maritain, a una definizione più limitata del termine nel contesto cattolico, designando l’arte più direttamente legata al culto o destinata alle chiese. Ma l’aggettivo “sacro”, che entra allora in uso nel dizionario delle scienze religiose, in un diverso approccio viene invece utilizzato in senso molto più vasto. La creazione della rivista «L’Art sacré» nel 1935 sancisce per qualche decennio l’uso di un termine che, come precisa padre Couturier, il suo esponente principale, non vuole servire alcun accademismo o militarismo, ma pensa che «per servire la Chiesa, occorre innanzitutto essere — essere vivo».
All’indomani della seconda guerra mondiale, l’appello all’arte viva dei redattori di «L’Art sacré», espresso da padre Couturier implica che l’arte cristiana sia semplicemente arte, ancor prima di poter essere definita cristiana o cattolica: «In un mondo in cui il senso della vita non è più religioso, neanche l’arte può esserlo. Pertanto, chiunque si isola dalla corrente divenuta profana dell’arte rischia sempre di distaccarsi dalla sua vitalità e di contraddistinguere artificiosamente i suoi doni. Così si esaurirebbero presto». Gli artisti non devono dunque schematizzare le forme antiche per creare il moderno.
Al contrario, occorre coinvolgere i più grandi maestri, indipendentemente dalla loro fede. In questa ottica, Chagall, Lurçat, Bonnard, Braque, Matisse, Rouault rispondono alla commessa ecclesiale per Notre-Dame de Toute Grâce du Plateau d’Assy. È attorno ad Assy che si cristallizza la famosa querelle de l’Art sacré illustrata dalla sola scultura del Crocifisso d’altare di Germaine Richier che ritaglia tre prospettive: «la dimensione teologica insita nella rappresentazione del Crocifisso», «gli aspetti devozionali a esso legati», «il modo in cui la Chiesa intende la nozione di tradizione e si situa rispetto all’evoluzione contemporanea di un mondo secolarizzato».
Aperta con il crocifisso di Germaine Richier, la crisi conduce anche a un dibattito sull’arte non figurativa ritenuta poco compatibile con gli argomenti di quanti continuano a presentare l’arte religiosa come “la Bibbia degli illetterati”, vasto dibattito sulla visione di un’arte come catechismo, destinata a istruire il popolo di Dio e tòpos del discorso clericale sulle immagini.
Nel contesto della critica dell’appello agli artisti e dell’elogio della povertà che caratterizza gli anni Cinquanta e Sessanta, il concilio Vaticano II invita a trovare un compromesso tra una sobrietà propizia all’interiorità e un eccesso di immagini. Di contro, gli anni Ottanta sono segnati da un ritorno del visibile. La questione delle arti visive nella Chiesa si ripresenta con la politica di committenza di opere contemporanee per edifici antichi messa in atto dallo Stato, con opere di Bazaine, Manessier, Soulages.
La ripresa del dialogo con gli artisti conferisce una sorta di vittoria postuma agli scritti di padre Couturier. Ciò non è privo di conseguenze sulla ripresa della questione al centro di Nicea II (787): quali funzioni per l’immagine? Il rapporto tra Chiesa e arte contemporanea reca anche l’impronta di un passato — anche recente — dai molteplici aspetti. Mentre i testi romani raccomandano una pastorale della cultura che passi per una riappropriazione del patrimonio artistico, il rinnovato interesse per l’arte nello spazio ecclesiale porta a un nuovo confronto del pubblico e dei fedeli con l’arte contemporanea. Tra nuove prospettive spirituali e rischi di provocazione, non è una sorpresa minore il riemergere dei temi cristiani nell’arte contemporanea.
Ben al di là di una semplice riflessione sulla storia, sulla storia dell’arte e sulla storia delle idee, il libro di Isabelle Saint-Martin apre un cammino di comprensione e di conciliazione per capire la posta in gioco della visione e dei mutamenti che la sottendono. Diventa infatti anche una sorta di storia del gusto. Lo si sarà capito; questa importante opera appare ormai destinata a diventare un classico.
L'Osservatore Romano