venerdì 30 settembre 2016

I love it when you read to me...

Alla faccia del modello svedese.

Interroga pure gli animali

Jacopo Bassano; Gli animali entrano nell’arca, 1570 circa, olio su tela, 207  x 265 cm, Museo del Prado, Madrid
Jacopo Bassano; Gli animali entrano nell’arca, 1570 circa, olio su tela,
207 x 265 cm, Museo del Prado, Madrid



di ENZO BIANCHI
Per il ciclo «Guardate gli uccelli del cielo» Enzo Bianchi interverrà domani a Torino Spiritualità con una lectio dal titolo“Interroga pure gli animali: trovare Dio nella Creazione» (ore 10, Teatro Carignano) di cui pubblichiamo un estratto.
Chi ha una certa dimestichezza con la Bibbia, anche solo dal punto di vista letterario, non solo sa che gli animali sono co-creature che condividono la terra con gli esseri umani, ma scopre anche che essi, creature volute e benedette da Dio, sono in relazione con Dio. E questo non soltanto perché Dio pensa a loro fornendo il cibo con sollecitudine o perché Dio dà loro un soffio vitale e poi glielo toglie, ma perché essi comunicano con Dio servendosi di linguaggi impenetrabili e impensabili per l’uomo. Al di là dello straordinario, del miracoloso che ci cattura, nella Bibbia sta scritto che Dio tramite una colomba ha comunicato la fine del diluvio, attraverso un asino ha ammonito un profeta, con un grosso pesce ha fatto capire a Giona la direzione da prendere in obbedienza alla sua volontà, con un corvo ha nutrito il profeta Elia in una grotta, ancora con una colomba ha significato la discesa dello Spirito santo su Gesù di Nazaret, con il canto di un gallo ha ridestato Pietro alla coscienza del suo peccato, ed è con un agnello che ha designato l’uomo per eccellenza, il servo del Signore.
Ma se fossimo meno malati di antropocentrismo, dovremmo riconoscere che anche gli animali partecipano alla lode di Dio e alla supplica a Dio. Basta guardare negli occhi un animale ferito per scorgervi il suo bisogno di salvezza, basta ascoltare il suo canto gioioso o il suo grido vittorioso per riconoscervi una lode a Dio: la salvezza che ogni essere umano attende, qualunque sia il nome che la sua fede le attribuisce, dovrà coinvolgere tutto e tutti, anche gli animali, e con loro i vegetali e il cosmo intero! Una preghiera dei primi secoli del cristianesimo, attribuita agli ambienti legati a Basilio di Cesarea, così esprime questa consapevolezza:
Signore e salvatore del mondo,
noi ti preghiamo anche per gli animali,
che umilmente portano con noi
il peso e il calore del giorno
e offrono le loro semplici vite,
aiutandoci a vivere bene.
Noi ti preghiamo
anche per le creature selvagge,
che tu hai creato sapienti, forti, belle.
Ti preghiamo
per tutte le creature,
anche quelle che non sono intelligenti,
perché esse hanno una loro missione,
sebbene noi siamo incapaci di riconoscerla.
E supplichiamo
la tua grande tenerezza,
perché tu hai promesso
di salvare insieme l’uomo e gli animali (cf. Sal  36,7)
e hai concesso a tutti il tuo amore infinito.
Forse può sorprendere noi occidentali del XXI secolo trovare su questo tema un’impressionante analogia tra due testi liturgici – tra loro lontanissimi nel tempo – che contengono la memoria degli animali al cuore della celebrazione eucaristica, là dove si rievoca la “continua creazione” in atto da parte di Dio. Il primo risale alle Costituzioni apostoliche (iv secolo) e recita così: «Tu, o Dio, hai popolato il tuo mondo e lo hai ornato con erbe profumate e medicinali, con molti e differenti animali, robusti o più deboli, domestici e selvatici, con i sibili dei rettili, con i canti degli uccelli dai vari colori». Il secondo si trova nella preghiera eucaristica della chiesa del Congo, elaborata dopo il concilio Vaticano II e approvata nel 1988 e sembra un adattamento del testo di millecinquecento anni prima: «Per mezzo di tuo Figlio Gesù Cristo tu, o Dio, hai creato il cielo e la terra; per mezzo di lui tu fai esistere i fiumi del mondo, i torrenti, i ruscelli, i laghi, e tutti i pesci che vivono in essi. Per mezzo di lui fai vivere le stelle, gli uccelli del cielo, le foreste, le savane, le pianure, le montagne e tutti gli animali che in esse vivono». Al cuore dell’eucaristia, all’interno della preghiera eucaristica – che per i cristiani costituisce il momento centrale e culminante dell’intera celebrazione e che, prioprio per questo costituisce anche la “norma” di ciò che si crede – si collocano anche gli animali e le piante, anch’essi opera della creazione di Dio, anch’essi parte di quella terra che Dio ama, anch’essi segnati da caducità e sofferenza e partecipi dell’anelito di redenzione e vita piena dell’intera creazione.
Il problema serio nel nostro rapporto con gli animali e i vegetali è che la nostra visione e percezione è ostruita, i nostri occhi sono ciechi, i nostri orecchi non sanno ascoltare le cose; non fosse così, tutto ci apparirebbe opera di Dio, in relazione con lui. Noi dovremmo saper ritrovare Dio al cuore della vita, vederlo all’opera nella terra da lui creata, in relazione con tutte le creature. Dovremmo esercitarci alla “conoscenza degli esseri”, per imparare la contemplazione della natura, per avere lo stesso sguardo di Gesù quando osservava gli uccelli dell’aria, la chioccia che raduna i pulcini, le piante da frutto messaggere dell’estate, i gigli dei campi più eleganti di Salomone…
Il nostro amore diverrebbe così amore non solo per gli esseri umani, ma anche per gli animali e per le creature tutte, animate e inanimate: un amore cosmico! Allora i cristiani saprebbero attendere, insieme al ritorno del Signore, anche il compimento dell’alleanza con le bestie selvagge, gli uccelli del cielo e i rettili della terra, nella re-intestazione di tutte le creature in Gesù Cristo e nella trasfigurazione di tutto. E saprebbero fare di questa loro attesa, voce di un’attesa cosmica, una speranza davvero universale, una speranza per tutti.
Pubblicato su: La Stampa

Incontro con la Comunità assiro-caldea. Preghiera del Santo Padre



Incontro con la Comunità assiro-caldea nella Chiesa di San Simone Bar Sabbae di Tbilisi. Preghiera del Santo Padre 
Sala stampa della Santa Sede 

Nel pomeriggio il Santo Padre Francesco si è trasferito, in auto, presso la Chiesa di San Simone Bar Sabbae di Tbilisi per l’incontro con la Comunità assiro-caldea. È la prima volta che un Papa visita un luogo di culto assiro-caldeo.
Al suo arrivo, alle ore 18.00, è stato accolto dal Patriarca di Babilonia dei Caldei, S.B. Louis Raphaël Sako, e dal Parroco all’ingresso della chiesa. Quindi, il Santo Padre ha proceduto in processione verso la Cappella del Santissimo tra i fedeli della diaspora assiro-caldea.
Dopo l’esecuzione di un canto e la recita di una preghiera in aramaico, il Papa ha recitato la Preghiera per la pace che riportiamo qui di seguito:


Preghiera del Santo Padre
Signore Gesù, adoriamo la tua croce, che ci libera dal peccato, origine di ogni divisione e di ogni male; annunciamo la tua risurrezione, che riscatta l’uomo dalla schiavitù del fallimento e della morte;

attendiamo la tua venuta nella gloria, che porta a compimento il tuo regno di giustizia, di gioia e di pace.
Signore Gesù, per la tua gloriosa passione, vinci la durezza dei cuori, prigionieri dell’odio e dell’egoismo; per la potenza della tua risurrezione, strappa dalla loro condizione le vittime dell’ingiustizia e della sopraffazione; per la fedeltà della tua venuta, confondi la cultura della morte e fa’ risplendere il trionfo della vita.
Signore Gesù, unisci alla tua croce le sofferenze di tante vittime innocenti: i bambini, gli anziani, i cristiani perseguitati; avvolgi con la luce della Pasqua chi è ferito nel profondo: le persone abusate, private della libertà e della dignità; fa’ sperimentare la stabilità del tuo regno a chi vive nell’incertezza: gli esuli, i profughi, chi ha smarrito il gusto della vita.
Signore Gesù, stendi l’ombra della tua croce sui popoli in guerra: imparino la via della riconciliazione, del dialogo e del perdono; fa’ gustare la gioia della tua risurrezione ai popoli sfiniti dalle bombe: solleva dalla devastazione l’Iraq e la Siria; riunisci sotto la tua dolce regalità i tuoi figli dispersi: sostieni i cristiani della diaspora e dona loro l’unità della fede e dell’amore.
Vergine Maria, regina della pace, tu che sei stata ai piedi della croce, ottieni dal tuo Figlio il perdono dei nostri peccati; tu che non hai mai dubitato della vittoria della risurrezione, sostieni la nostra fede e la nostra speranza; tu che siedi regina nella gloria, insegnaci la regalità del servizio e la gloria dell’amore. Amen.

Incontro con S.S. e Beatitudine Ilia II, Catholicos Patriarca di tutta la Georgia. Discorso del Santo Padre



Incontro con S.S. e Beatitudine Ilia II, Catholicos Patriarca di tutta la Georgia. Discorso del Santo Padre: "Con la pace e il perdono siamo chiamati a vincere i nostri veri nemici, che non sono di carne e di sangue, ma sono gli spiriti del male fuori e dentro di noi. Questa terra benedetta è ricca di valorosi eroi secondo il Vangelo, che come San Giorgio hanno saputo sconfiggere il male". 
 Sala stampa della Santa Sede 

Alle ore 16.30, il Santo Padre Francesco si è recato in auto presso la sede del Patriarcato Ortodosso della Georgia per l’incontro con S.S. e Beatitudine Ilia II, Catholicos Patriarca di tutta la Georgia. Papa Francesco ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
 

(Il Santo Padre, prima di leggere il testo del discorso, ha ringraziatocon commozione sua Beatitudine il Patriarca Elia II per l' "Ave Maria"ascoltata e composta dallo stesso Catholicos) 
Discorso del Santo Padre
È per me una grande gioia e una grazia particolare incontrare Vostra Santità e Beatitudine e i venerabili Metropoliti, Arcivescovi e Vescovi, membri del Santo Sinodo. Saluto il Signor Primo Ministro e voi, illustri Rappresentanti del mondo accademico e della cultura.

Santità, Ella inaugurò una pagina nuova nelle relazioni tra la Chiesa Ortodossa di Georgia e la Chiesa Cattolica, compiendo la prima storica visita in Vaticano di un Patriarca georgiano. In quell’occasione scambiò con il Vescovo di Roma il bacio della pace e la promessa di pregare l’uno per l’altro. Così si sono potuti rinforzare i significativi legami, presenti tra noi fin dai primi secoli del cristianesimo. Essi si sono sviluppati e si mantengono rispettosi e cordiali, come manifestano anche la calorosa accoglienza qui riservata ai miei inviati e rappresentanti, le attività di studio e ricerca presso gli Archivi Vaticani e le Università Pontificie da parte di fedeli ortodossi georgiani, la presenza a Roma di una vostra comunità, ospitata in una chiesa della mia diocesi, e la collaborazione con la locale comunità cattolica, soprattutto di carattere culturale. Come pellegrino e amico, sono giunto in questa terra benedetta, mentre volge al culmine per i Cattolici l’Anno giubilare della Misericordia. Anche il santo Papa Giovanni Paolo II si era recato qui, primo tra i Successori di Pietro, in un momento estremamente importante, alle soglie del Giubileo del 2000: era venuto a rinsaldare i «vincoli profondi e forti» con la Sede di Roma (Discorso nella cerimonia di benvenuto, Tbilisi, 8 novembre 1999: Insegnamenti XXII,2 [1999], 843) e a ricordare quanto fosse necessario, alle soglie del terzo millennio, «il contributo della Georgia, antico crocevia di culture e tradizioni, per l’edificazione […] di una civiltà dell’amore» (Discorso nel Palazzo Patriarcale, Tbilisi, 8 novembre 1999: Insegnamenti XXII,2 [1999], 848).
Ora, la Provvidenza divina ci fa nuovamente incontrare e, di fronte a un mondo assetato di misericordia, di unità e di pace, ci chiede che quei vincoli tra noi ricevano nuovo slancio, rinnovato fervore, di cui il bacio della pace e il nostro abbraccio fraterno sono già un segno eloquente. La Chiesa Ortodossa di Georgia, radicata nella predicazione apostolica, in particolare nella figura dell’Apostolo Andrea, e la Chiesa di Roma, fondata sul martirio dell’Apostolo Pietro, hanno così la grazia di rinnovare oggi, in nome di Cristo e a sua gloria, la bellezza della fraternità apostolica. Pietro e Andrea erano infatti fratelli: Gesù li chiamò a lasciare le reti e a diventare, insieme, pescatori di uomini (cfr Mc 1,16-17). Carissimo Fratello, lasciamoci guardare nuovamente dal Signore Gesù, lasciamoci attirare ancora dal suo invito a lasciare ciò che ci trattiene dall’essere insieme annunciatori della sua presenza.
Ci sostiene in questo l’amore che trasformò la vita degli Apostoli. È l’amore senza eguali, che il Signore ha incarnato: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); e che ci ha donato, perché ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato (cfr Gv 15,12). A questo riguardo, il grande poeta di questa terra sembra rivolgere anche a noi alcune sue celebri parole: «Hai letto come gli apostoli scrivono dell’amore, come dicono, come lo lodano? Conoscilo, rivolgi la tua mente a queste parole: l’amore ci innalza» (S. RUSTAVELI, Il Cavaliere nella pelle di tigre, Tbilisi 1988, stanza 785). Davvero l’amore del Signore ci innalza, perché ci permette di elevarci al di sopra delle incomprensioni del passato, dei calcoli del presente e dei timori per l’avvenire.
Il popolo georgiano ha testimoniato nei secoli la grandezza di questo amore. È in esso che ha trovato la forza di rialzarsi dopo innumerevoli prove; è in esso che si è elevato fino alle vette di una straordinaria bellezza artistica. Senza l’amore, infatti, come ha scritto un altro grande poeta, «non regna il sole nella cupola del cielo» e per gli uomini «non esiste né bellezza, né immortalità» (G. TABIDZE, “Senza l’amore”, in Galaktion Tabidze, Tbilisi 1982, 25). Nell’amore trova ragion d’essere l’immortale bellezza del vostro patrimonio culturale, che si esprime in molteplici forme, quali ad esempio la musica, la pittura, l’architettura e la danza. Lei, carissimo Fratello, ne ha dato degna espressione, in modo speciale componendo pregiati inni sacri, alcuni pure in lingua latina e particolarmente cari alla tradizione cattolica. Essi arricchiscono il vostro tesoro di fede e cultura, dono unico alla cristianità e all’umanità, che merita di essere conosciuto e apprezzato da tutti.
La gloriosa storia del Vangelo in questa terra si deve in modo speciale a Santa Nino, che agli Apostoli viene equiparata: ella diffuse la fede nel segno particolare della croce fatta di legno di vite. Non si tratta di una croce spoglia, perché l’immagine della vite, oltre al frutto che eccelle in questa terra, rappresenta il Signore Gesù. Egli, infatti, è «la vite vera», e chiese ai suoi Apostoli di rimanere fortemente innestati in Lui, come tralci, per portare frutto (cfr Gv 15,1-8). Perché il Vangelo porti frutto anche oggi, ci viene chiesto, carissimo Fratello, di rimanere ancora più saldi nel Signore e uniti tra noi.
La moltitudine di Santi che questo Paese annovera ci incoraggi a mettere il Vangelo prima di tutto e ad evangelizzare come in passato, più che in passato, liberi dai lacci delle precomprensioni e aperti alla perenne novità di Dio. Le difficoltà non siano impedimenti, ma stimoli a conoscerci meglio, a condividere la linfa vitale della fede, a intensificare la preghiera gli uni per gli altri e a collaborare con carità apostolica nella testimonianza comune, a gloria di Dio nei cieli e a servizio della pace in terra.
Il popolo georgiano ama celebrare, brindando con il frutto della vite, i valori più cari. Insieme all’amore che innalza, un ruolo particolare è riservato all’amicizia. «Chi non cerca un amico, di sé stesso è nemico», ricorda ancora il poeta (S. RUSTAVELI, Il Cavaliere nella pelle di tigre, stanza 847). Desidero essere amico sincero di questa terra e di questa cara popolazione, che non dimentica il bene ricevuto e il cui tratto ospitale si sposa con uno stile di vita genuinamente speranzoso, pur in mezzo a difficoltà che non mancano mai. Anche questa positività trova le proprie radici nella fede, che porta i Georgiani a invocare, attorno alla propria tavola, la pace per tutti e a ricordare persino i nemici.
Con la pace e il perdono siamo chiamati a vincere i nostri veri nemici, che non sono di carne e di sangue, ma sono gli spiriti del male fuori e dentro di noi (cfr Ef 6,12). Questa terra benedetta è ricca di valorosi eroi secondo il Vangelo, che come San Giorgio hanno saputo sconfiggere il male. Penso ai tanti monaci e in modo particolare ai numerosi martiri, la cui vita ha trionfato «con la fede e la pazienza» (IOANE SABANISZE, Martirio di Abo, III): è passata nel torchio del dolore restando unita al Signore e ha così portato un frutto pasquale, irrigando il suolo georgiano di sangue versato per amore. La loro intercessione dia sollievo ai tanti cristiani che ancor oggi nel mondo soffrono persecuzioni e oltraggi, e rafforzi in noi il buon desiderio di essere fraternamente uniti per annunciare il Vangelo della pace.

Il Papa in Georgia. Incontro con le Autorità.



Incontro con le Autorità, la Società Civile ed il Corpo Diplomatico nel Palazzo Presidenziale. Discorso del Santo Padre: "Occorre che tutti abbiano a cuore in primo luogo la sorte dell’essere umano nella sua concretezza e compiano con pazienza ogni tentativo per evitare che le divergenze sfocino in violenze destinate a provocare enormi rovine per l’uomo e la società.
Sala stampa della Santa Sede 

Alle ore 16.00, il Santo Padre Francesco ha incontrato le Autorità politiche, i rappresentanti della Società Civile della Georgia e i membri del Corpo Diplomatico nel Cortile d’Onore del Palazzo Presidenziale di Tbilisi. Dopo il discorso del Presidente della Georgia, Giorgi Margvelashvili, il Papa ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:
Discorso del Santo Padre
Signor Presidente, Distinte Autorità, Illustri Membri del Corpo Diplomatico, Signore e Signori,
Ringrazio Dio Onnipotente per avermi offerto l’opportunità di visitare questa terra benedetta, luogo d’incontro e di vitale scambio tra culture e civiltà, che nel cristianesimo ha trovato, fin dalla predicazione di Santa Nino all’inizio del IV secolo, la sua più profonda identità e il fondamento sicuro dei suoi valori. Come affermò San Giovanni Paolo II visitando la vostra Patria: «Il cristianesimo è diventato il seme della successiva fioritura della cultura georgiana» (Discorso nella Cerimonia di Benvenuto, 8 novembre 1999: Insegnamenti XXII, 2 [1999], 841), e tale seme continua a produrre i suoi frutti. Nel ricordare con gratitudine il nostro incontro in Vaticano dell’anno scorso e le buone relazioni che la Georgia ha sempre mantenuto con la Santa Sede, ringrazio vivamente Lei, Signor Presidente, per il Suo gradito invito e per le cordiali parole di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome delle Autorità dello Stato e di tutto il popolo georgiano.

La storia plurisecolare della vostra Patria manifesta il radicamento nei valori espressi dalla sua cultura, dalla sua lingua e dalle sue tradizioni, inserendo il Paese a pieno titolo e in modo fecondo e peculiare nell’alveo della civiltà europea; nel medesimo tempo, come evidenzia la sua posizione geografica, esso è quasi un ponte naturale tra l’Europa e l’Asia, una cerniera che facilita le comunicazioni e le relazioni tra i popoli, che ha reso possibili nel corso dei secoli sia i commerci che il dialogo e il confronto delle idee e delle esperienze tra mondi diversi. Come recita con fierezza il vostro inno nazionale: «La mia icona è la mia Patria, […] montagne e valli splendenti sono condivise con Dio». La Patria è come un’icona che definisce l’identità, traccia i lineamenti e la storia, mentre le montagne, innalzandosi libere verso il cielo, ben lungi dall’essere una muraglia insuperabile, danno splendore alle valli, le distinguono e le mettono in relazione, rendendole ognuna diversa dalle altre e tutte solidali con il cielo comune che le sovrasta e le protegge.
Signor Presidente, sono trascorsi 25 anni dalla proclamazione dell’indipendenza della Georgia, la quale durante questo periodo, ritrovando la sua piena libertà, ha costruito e consolidato le sue istituzioni democratiche e ha cercato le vie per garantire uno sviluppo il più possibile inclusivo e autentico. Tutto questo non senza grandi sacrifici, che il popolo ha coraggiosamente affrontato per assicurarsi la tanto agognata libertà. Auspico che il cammino di pace e di sviluppo prosegua con l’impegno solidale di tutte le componenti della società, in modo da creare quelle condizioni di stabilità, equità e rispetto della legalità atte a favorire la crescita e ad aumentare le opportunità per tutti.
Tale autentico e duraturo progresso ha come indispensabile condizione preliminare la pacifica coesistenza fra tutti i popoli e gli Stati della Regione. Ciò richiede che crescano sentimenti di mutua stima e considerazione, i quali non possono tralasciare il rispetto delle prerogative sovrane di ciascun Paese nel quadro del Diritto Internazionale. Al fine di aprire sentieri che portino a una pace duratura e a una vera collaborazione, occorre avere la consapevolezza che i principi rilevanti per un’equa e stabile relazione tra gli Stati sono al servizio della concreta, ordinata e pacifica convivenza tra le Nazioni. In troppi luoghi della terra, infatti, sembra prevalere una logica che rende difficile mantenere le legittime differenze e le controversie – che sempre possono sorgere – in un ambito di confronto e dialogo civile dove prevalgano la ragione, la moderazione e la responsabilità. Questo è tanto più necessario nel presente momento storico, dove non mancano anche estremismi violenti che manipolano e distorcono principi di natura civile e religiosa per asservirli ad oscuri disegni di dominio e di morte.
Occorre che tutti abbiano a cuore in primo luogo la sorte dell’essere umano nella sua concretezza e compiano con pazienza ogni tentativo per evitare che le divergenze sfocino in violenze destinate a provocare enormi rovine per l’uomo e la società. Qualsiasi distinzione di carattere etnico, linguistico, politico o religioso, lungi dall’essere usata come pretesto per trasformare le divergenze in conflitti e i conflitti in interminabili tragedie, può e deve essere per tutti sorgente di arricchimento reciproco a vantaggio del bene comune. Ciò esige che ciascuno possa mettere pienamente a frutto le proprie specificità, avendo anzitutto la possibilità di vivere in pace nella sua terra o di farvi ritorno liberamente se, per qualche motivo, è stato costretto ad abbandonarla. Auspico che i responsabili pubblici continuino ad avere a cuore la situazione di queste persone, impegnandosi nella ricerca di soluzioni concrete anche al di fuori delle irrisolte questioni politiche. Si richiedono lungimiranza e coraggio per riconoscere il bene autentico dei popoli e perseguirlo con determinazione e prudenza, ed è indispensabile avere sempre davanti agli occhi le sofferenze delle persone per proseguire con convinzione il cammino, paziente e faticoso ma anche avvincente e liberante, della costruzione della pace.
La Chiesa Cattolica – presente da secoli in questo Paese e distintasi in particolare per il suo impegno nella promozione umana e nelle opere caritative – condivide le gioie e le apprensioni del popolo georgiano e intende offrire il suo contributo per il benessere e la pace della Nazione, collaborando attivamente con le Autorità e la società civile. Auspico vivamente che essa continui ad apportare il suo genuino contributo alla crescita della società georgiana, grazie alla comune testimonianza della tradizione cristiana che ci unisce, al suo impegno a favore dei più bisognosi e mediante un rinnovato e accresciuto dialogo con l’antica Chiesa Ortodossa Georgiana e le altre comunità religiose del Paese.
Dio benedica la Georgia e le doni pace e prosperità!

giovedì 29 settembre 2016

Venerdì della XXVI settimana del Tempo Ordinario, Commento audio.

Parola di vita Ottobre 2016

In cammino per rilanciare la famiglia



Famiglia
di Federico Cenci
Tutte le espressioni della società civile possono dare il proprio contributo per uscire dalla paura diffusa data dall’incertezza del futuro e rilanciare l’istituto familiare. Parte da questo assunto la Settimana della Famiglia, che si tiene a Roma dal 2 all’8 ottobre con una serie di eventi diffusi su tutta la Capitale, dalla Tenuta della Mistica alle università, dal Campidoglio alle periferie.
Organizzata dal Centro per la pastorale familiare della diocesi insieme al Forum delle associazioni familiari del Lazio, la Settimana della Famiglia ha lo scopo di “accendere i riflettori sulla vita delle famiglie, sul loro cammino, sui loro bisogni”.
Intervistato da ZENIT, l’incaricato per la pastorale familiare della diocesi di Roma, mons. Andrea Manto, spiega che questa iniziativa affonda le radici “in un combinato disposto” di due documenti che costituiscono un importante sprone.
Si tratta dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia e della Lettera alla Cittàche il card. Agostino Vallini nel novembre 2015 ha scritto per sollecitare “una rinascita civile, spirituale e morale di Roma”. Rinascita “a cui i laici cattolici dovevano concorrere affinché si uscisse dall’empasse derivata dagli scandali di Mafia Capitale e da una sorta di anemia spirituale”.
Di qui l’idea di mons. Manto di coinvolgere il Forum delle associazioni familiari in una settimana di eventi, inserita significativamente all’interno del Giubileo della Misericordia, dedicati alla famiglia.
Il responsabile diocesano non esita a parlare di “piccolo miracolo”, perché – afferma lui stesso – “dopo la risposta entusiasta del Forum e di altre realtà associative che hanno voluto aderire, in soli tre mesi siamo riusciti a creare un’iniziativa davvero considerevole”.
Già un incoraggiante riconoscimento per l’impegno profuso è arrivato ieri, nel corso dell’Udienza generale, quando Papa Francesco in piazza San Pietro ha acceso una fiaccola, “simbolo dell’amore delle famiglie di Roma e del mondo intero”, che precede l’inizio della Settimana.
Fiaccola che illumina e irradia d’amore. Metafora di ciò che rappresenta la famiglia per l’umanità. “In questo senso – dice mons. Manto – Roma esprime anche la sua vocazione universale, in quanto Chiesa chiamata a presiedere nell’amore e nella carità, sulla scorta dell’Amoris Laetitia”.
Scorrendo la lista degli eventi che caratterizzano la Settimana, balza agli occhi l’attenzione nei confronti di quelle “periferie spirituali” care proprio a Papa Francesco. Non mancano tavole rotonde per discutere su come accompagnare le donne vittime di trauma post-aborto, su come tener saldi i legami tra genitori e figli all’interno delle famiglie separate, su come sostenere i nuclei familiari che vivono momenti di crisi sotto l’aspetto affettivo, lavorativo o economico.
“L’intento della nostra iniziativa è proprio di dirigersi verso le ‘periferie’ – spiega mons. Manto – quelle dell’anima e quelle geografiche, con iniziative diffuse su tutto il territorio della diocesi”.
Il prelato sottolinea “la buona notizia di questo evento”, ossia che “la grande famiglia che è la Chiesa si stringe insieme per supportare le famiglie che affrontano i problemi concreti, per renderle protagoniste, per ‘aiutarle a diventare ciò che sono’ nel progetto di Dio”, aggiunge parafrasando San Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio.
Che la famiglia come istituzione stia vivendo una fase di profonda crisi è inutile negarlo. Uno degli elementi che lo testimoniano è il basso indice di natalità del Paese. Le 488mila nascite del 2015 rappresentano un record negativo dall’Unità d’Italia. Venerdì 7 ottobre una conferenza sarà dedicata proprio al tema delle “culle vuote”.
Secondo mons. Manto c’è bisogno “di un intenso lavoro culturale per promuovere tra i giovani il valore della vita, poiché l’accoglienza della vita a tutto tondo, specialmente quella più fragile, quella del migrante, dell’anziano è condizione primaria di civiltà e di pace sociale tra i popoli”. Indispensabile in tal senso è anche “una politica incentrata sul sostegno alla maternità, al lavoro giovanile, alla conciliazione tra lavoro e famiglia”.
Di qui la necessità che tutti gli attori sociali contribuiscano per rilanciare la cellula primaria della società. Eloquente che nel corso della Settimana verranno premiate le aziende family friendly, che si impegnano a garantire ai loro dipendenti flessibilità degli orari lavorativi.
La Chiesa, in quanto attore sociale, si impegna a “far scoprire la bellezza della famiglia da un punto di vista sociale ed ecclesiale”, rileva mons. Manto, “giacché la famiglia è la prima forma naturale di welfare, il luogo in cui si apprende il dialogo e la socialità, ma è anche domus ecclesiae, quella Chiesa domestica che riflette l’amore di Cristo”.
L’appello di mons. Manto ai fedeli romani è a partecipare agli eventi, a promuovere questa iniziativa e, soprattutto, a stare in comunione attraverso la preghiera. Di qui l’invito alla Messa conclusiva di sabato 8 ottobre, nella Basilica di San Paolo Fuori le Mura, presieduta dal card. Vallini.
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Per il programma completo dell’iniziativa: http://www.settimanadellafamiglia.it/

Un futuro per Aleppo

Foto di Ameer Alhalbi (Afp/Getty Images)

Nuovo tweet del Papa: "Il Signore ha affidato agli arcangeli il compito di difendere gli esseri umani." (29 settembre 2016)

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2016 - Inserto Origami
di ENZO BIANCHI
Dalla Siria, dove infuria una guerra spietata, e precisamente da Aleppo, la città dove la morte è una presenza che si impone a partire dall’odore dei morti sotto le macerie provocate dalla pioggia di “bombe intelligenti”, ci giunge questa fotografia: uomini in fuga che stringono bambini neonati, alla ricerca di un riparo in cui queste vite non siano spente da altre armi. Li stringono al petto e il loro volto ci appare pieno di apprensione e di commozione, mentre altri sulla strada sembrano solo protestare per la condizione in cui sono immersi.
Ma questa foto ci intriga, desta in noi domande profonde, non ci commuove soltanto. Guardandola, la prima sensazione che ci invade è la meraviglia: vita e morte si affrontano a duello, eppure la vita fragilissima di questi neonati ci assicura che la vita vince la morte. È così sulla nostra terra da migliaia di anni, nonostante le contraddizioni alla vita si susseguano e sembrino prossime a regnare. No, la vita, anche la vita fragile di un neonato, ha davanti a sé la promessa di una pienezza, e chi custodisce, salva, si cura di questa vita, lo fa certamente per compassione, ma sostenuto dalla speranza che c’è un domani per questi neonati, c’è un futuro per questa terra.
Nell’umanità c’è la capacità di riprendersi, di ricominciare, di combattere contro la morte, una speranza contro ogni speranza. Dice un proverbio, una scheggia della sapienza popolare monferrina: “I poveri sperano sempre, perciò hanno un futuro; i ricchi sono contenti del presente, perciò non hanno un futuro”. E così sappiamo che mentre le nostre società segnate da senescenze, e ormai da senescenze precoci, non vogliono avere figli, non fanno figli, non vogliono puntare sul futuro, ad Aleppo, tra le bombe e sotto le case che crollano, il futuro è invocato, sperato semplicemente come vita umana: i figli ne sono un segno.
Sempre c’è duello tra vita e morte, e da tale combattimento nasce una domanda: dico sì alla vita o lascio che la morte regni?
Pubblicato su: La Stampa

mercoledì 28 settembre 2016

SANTI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE. Commento al Vangelo.


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COME ANGELI CHIAMATI A VEDERE IL CIELO APERTO DEL NOSTRO DESTINO DALLE FERITE DELLA NOSTRA CARNE
Vedere il cielo aperto è il desiderio più intimo di ogni uomo. Anche a noi oggi, così simili a Giacobbe in quella notte di angoscia, impaurito, solo, ramingo e in fuga dalla storia, appare una scala. È la Croce di Cristo, ben piantata nella nostra vita e che ci schiude il Cielo, garanzia di un fondamento sicuro e di un orizzonte certo. La storia non scorre senza senso, ma "guarda" in alto; ogni avvenimento è "contemporaneo" del Cielo, mentre lo viviamo qui sulla terra è "trascritto" lassù come una primizia della vita beata. Per questo Gesù ci dice che vedremo cose "più grandi": non dobbiamo cercarle chissà dove, esse sono le nostre cose di ogni giorno, impregnate dell'amore di Dio che le strappa alla corruzione e le incastona come gemme nel Cielo. Non manca nulla alla nostra vita. Potremmo morire ora, sazi di giorni e di beni, esattamente come siamo e con quello che abbiamo vissuto, perché Lui, come con Natanaele, ci ha "conosciuto" da sempre, e solo lui ci ha "visto" senza malizia anche se peccatori, in uno sguardo di eterna misericordia che tutto riveste di santità. Ogni cosa che ci appartiene infatti è un frammento di Cielo, una primizia di quella che sarà la vita beata nella sua intimità. E, con la fede che Dio ci dona nella Chiesa, possiamo vedere ora, in questo istante, che tutto è già compiuto: non manca nulla a nessun secondo della nostra vita. Potremmo morire ora, in questo istante, sazi di giorni e di beni, esattamente come siamo e con quello che abbiamo vissuto. Anche se ci sembra di non aver concluso nulla, di essere ancora dispersi nella precarietà degli affetti, del lavoro, della salute: in Lui ogni lembo di terra che calpestiamo è uno spicchio di Cielo, ogni fallimento diviene un successo, ogni debolezza una forza da trasportare le montagne, ogni morte è trasformata in vita. La fede ci apre gli occhi sulla grandezza della nostra vita, perché in essa è stata deposta la scala che svela il destino autentico, la comunione e l'intimità con Colui che è disceso dal Cielo per raggiungere il nostro presente e, attraverso la Parola e i sacramenti, farlo contemporaneo del Cielo, per prenderci ora, e sederci accanto a Lui alla destra del Padre.
Non c'è bisogno di sforzarsi e inventarsi cose speciali; non si tratta di esperienze da mozzare il fiato. La "cosa più grande", infatti, è restare nella volontà di Dio. Giacobbe dormiva quando ha contemplato il Cielo aperto, Natanaele era seduto sotto il fico quando è stato visto da Gesù. L'incontro tra questi due sguardi che uniscono il Cielo alla terra si dà quindi nella semplicità della gratuità. Quando si entra nei fatti concreti e forse insignificanti della propria storia. Perché il miracolo più grande è vivere in pienezza, come un pezzo di Cielo le cose che ci umiliano, i momenti in cui ci sembra di sprecare la vita, senza sussulti. E' più grande stare nel Getsemani con Gesù e offrirsi con Lui al Padre mentre vorremmo altro, che qualsiasi altra cosa. E' più grande restare crocifissi in una situazione, o un tempo di aridità, di grigiore e impotenza che qualunque altro servizio si potrebbe fare. E' la cosa più grande perché solo chi ha scoperto che Gesù, nonostante i propri peccati, lo ha visto senza malizia, può adagiarsi in pace nella storia crocifissa che la carne rifiuta.E' questa la notizia che gli Arcangeli annunciano salendo e scendendo la scala del Cielo. La loro missione definisce quella della Chiesa, e anticamente i vescovi erano chiamati angeli. Come Michele, per combattere il drago e distruggere le sue menzogne; come Gabriele, per annunciare la notizia che Dio si è fatto carne per salvare ogni carne; come Raffaele, per sanare ogni rapporto nella comunione strappata alla concupiscenza. Anche noi siamo chiamati ad essere angeli che mettono a disposizione la propria carne perché Cristo giunga sulla soglia di ogni uomo; come quella di Santo Stefano, consegnata alla tempesta di pietre dei nemici, mentre il suo volto diveniva proprio come quello di un angelo, sul quale risplendeva la bellezza dell'amore di Cristo. Come sul nostro, mentre consegniamo la vita e perdoniamo, nel martirio quotidiano che offre a tutti la scala che conduce al paradiso. Nell'iconografia Gesù è raffigurato anche mentre sale su una scala per lasciarsi crocifiggere; la Chiesa suo corpo vive allo stesso modo: contemplando la scala che giunge sino al Cielo, vi sale ogni giorno per distendere le braccia dei suoi figli sulla Croce. Nel marito che sale questa scala per la moglie, nella madre che vi ascende per accogliere suo figlio, in ogni cristiano che vive amando così Dio si fa prossimo ad ogni sofferenza, prende carne umana per far santa ogni vita.

Una mamma non è una fallita

Mary Cassat - A Kiss For Baby Anne: ca 1897
Mary Cassat – A Kiss For Baby Anne: ca 1897


dal blog di Costanza Miriano

Qualche giorno fa ha fatto molto discutere la lettera che “una mamma lavoratrice che non ce l’ha fatta” ha scritto a Beppe Severgnini (si può leggere QUI). Una  lettrice del blog ha provato a risponderle.
Cara mamma,
mi chiamo M., ho due figlie, faccio l’ostetrica ed abito a Londra in quanto ho sposato un inglese. Ho letto la tua lettera e vorrei risponderti da mamma a mamma, esprimendo cosa ho imparato come donna, mamma e figlia, per cui parlo a titolo personale e non mi faccio portavoce delle donne italiane. Premetto che io non volevo fare la giornalista per cui non scrivo bene come te e soprattutto mi scuso in anticipo perché la tua lettera tocca molti punti ed è difficile rispondere a tutti. 
Innanzitutto non devi sentirti una fallita perché nella tua vita hai fatto non una, ma quattro cose incredibili: i tuoi figli! Questo ha un valore immenso di per se’ e di cui dovresti essere fiera ogni secondo. Noi mamme diamo tutte noi stesse ai figli fin dall’inizio: ci prendono il corpo, lo trasformano, ti devi abituare ad un ritmo che non è più il tuo e a sopportare un dolore viscerale (sia nel partorirli che nel lasciarli andare prima del tempo). Dopo il parto della mia prima figlia ero così fiera di me stessa che guardando ogni altro uomo pensavo: tu sarai anche un super uomo in carriera, ma quello che ho fatto io vale miliardi di volte in più. E io penso che basti vivere a fianco di un uomo con 37.2 di febbre per capire che non sarebbe in grado di sostenere un travaglio per più di 30 secondi. Non è una critica al genere maschile, è la semplice constatazione che siamo fatti diversamente. Mio marito è un gran sportivo e spesso mi fa notare come in quasi tutti gli sport le prestazioni femminili siano al di sotto di quelle maschili. Questo per me non è un di meno per le femmine, perché la nostra natura e’ così. Sarebbe un di meno se le donne non potessero partecipare a certe competizioni perché donne.
Io penso che quando si parla di parità ci sia molta confusione. Io non voglio essere come un uomo, sono donna e sono fiera di esserlo! Voglio essere però rispettata ed essere trattata equamente tanto quanto un uomo, perché come ogni essere umano anche io ho i miei pregi e le mie qualità. È stato giusto lottare per avere il diritto di voto come gli uomini, per l’equità degli stipendi e per molte altre cose. E tanto é ancora da conquistare: non avere l’ansia di una gravidanza se hai un lavoro precario, non doversi togliere la fede quando si va ad un colloquio di lavoro, poter aver un orario ridotto quando si hanno i figli piccoli e molto altro.
Invece io non lotterei per le quote rosa. Ma a me non interessa avere un posto in consiglio di amministrazione perché sono donna, io lo voglio perché me lo merito. E se non me lo merito perché non posso dedicare al lavoro tutto il mio tempo e’ giusto che lo abbia qualcun altro, uomo o donna che sia. Per cui probabilmente le femministe hanno sbagliato lottando per un mondo in cui la donna possa essere come l’uomo. Io non sono un uomo perché mentre lavoro sto pensando a cosa mettere in tavola la sera, alla pila di panni da stirare e nel momento libero faccio la spesa online, mentre mio marito pensa solo al lavoro o al massimo a chi ha vinto la tappa del Giro d’Italia. Ma sopratutto io non riuscirei a sostenere orari estremi di lavoro e dovermi alzare 2 o 3 volte la notte per i miei figli (già faccio fatica a sopravvivere ai turni ospedalieri, ma ero così anche prima dei figli!). È vero che alcune donne dedicano meno energie al lavoro perché le loro energie le mettono in altro. E da un punto di vista imprenditoriale é giusto che venga premiato chi è nella condizione di spendere più energie per il lavoro.
Io lavoro in un ambiente quasi esclusivamente femminile per cui forse la mia esperienza è diversa. Però mentre ero incinta della mia secondogenita c’è stata la possibilità di fare un salto di carriera. Ovviamente non ci ho nemmeno provato perché dovevo andare in maternità di lì a poco e perché non volevo impegnarmi troppo. Il posto lo ha vinto una mia collega non sposata. Mi è spiaciuto? Un po’ si perché magari è un treno che non ripassa più, ma sono più che contenta di averlo fatto per la mia famiglia. Lei aveva più tempo ed energie da dedicare al lavoro ed è giusto che sia stata scelta lei. Non ci vedo nulla di male. Magari un’altra donna avrebbe comunque provato a prendere la posizione offerta e sarebbe riuscita a gestire lavoro e famiglia, perché ognuna di noi ha i suoi talenti. Io vorrei chiedere il part time e non si può dirigere un reparto essendo presente solo 3 giorni su 7. Conosco tante donne che spendono molte più energie di me per il lavoro e hanno famiglie stupende. Io sapevo che non ce l’avrei fatta e per questo mi son tirata indietro subito.
Vorrei semplicemente dirti che come mamma io faccio quello che posso, cerco di farlo al meglio e soprattutto di non colpevolizzarmi troppo perché penso che le mie figlie risentano più di una mamma “triste” e “colpevole” che di una mamma che a volte non c’è. A causa dei turni in ospedale spesso al mattino non le porto all’asilo, la sera vanno a letto che non sono tornata e alle volte la notte si alza solo il papà se loro piangono. Il mio lavoro è così, include Natale e ferragosto per cui le mie figlie dovranno abituarsi, così come lo ha fatto mio marito. Ma io spero che siano fiere che la loro mamma non sia li mentre aprono i regali sotto l’albero perché sta facendo nascere un bambino.
Io non ho mai pianto quando le ho lasciate all’asilo (nemmeno la prima volta in assoluto) per andare al lavoro, anche perché a me il mio lavoro piace e spero che loro vedano in me questa passione. Non mi sento in colpa se le lascio con qualcuno per andare dall’estetista o dalla parrucchiera perché mi dico che se io mi sento bene e bella si rifletterà anche su di loro. Forse è una giustificazione stupida, ma quando arrivo a livelli di monociglio imbarazzante ogni giustificazione vale! E se devo cucinare la cena è anche quello un modo per dimostrare loro il mio amore, perché va bene giocare insieme, ma la pancia vuota non piace a nessuno, tanto meno ai bambini. Cerco di non farmi prendere dall’ansia di essere una super mamma, cosa che mi accade spesso guardando i figli degli altri che sono sempre vestiti meglio, più educati, più tutto dei miei. Ma poi è questo ciò che rende un bambino felice, o una mamma brava? Ogni mamma fa quello che può, e come mi ha detto un’amica “l’erba del vicino sembra sempre più verde”.
È realtà’ quotidiana che io non ce la faccia a fare tutto, ma di questo me ne ero accorta anche prima dell’avere dei figli, loro lo rendono semplicemente più evidente. Ma il mio valore personale sta in quello che riesco a fare? Non penso. Allora o chiudo un occhio sulla casa un po più sporca e sul fatto che cucino pasta in bianco o chiamo una donna delle pulizie e prendo un piatto pronto (io sostengo che il signor Rana e’ il mio  miglior amico!). E sai cosa ho notato? I miei figli mi vogliono bene allo stesso modo e così anche mio marito. Ciò che invece alla mia famiglia non piace è quando io non sto bene con me stessa e mi lamento e tratto tutti un po’ male.
L’ultima cosa la dico come figlia di una mamma poco presente. Ho dei rimpianti sia per il tempo che non ho speso con mia mamma, sia per le attività extra che non ho mai fatto nonostante lo desiderassi. Questi rimpianti fanno parte della mia storia e di come sono io. Nel diventare grande e soprattutto da quando sono mamma ho in un certo senso perdonato mia mamma per l’esserci stata poco. Ho capito che lei ha fatto quello che ha potuto, che ha fatto certe scelte (a volte anche sbagliate) partendo dal fatto che voleva il mio bene. Poi guardando i miei coetanei di allora, quelli che facevano le attività extra, non penso siano migliori o più felici di me. Io non sono solo figlia delle buone o cattive azioni di mia madre, perché la vita è una cosa molto più grande. Anche se il rapporto e la presenza della madre sono fondamentali per una buona crescita, non sono tutto e questo dá speranza a me come mamma (altrimenti i miei figli sarebbero come già fregati in partenza) e spero anche ai miei figli.
Un abbraccio,
M.

Le origini (cristiane) dell’Islam...

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L’Islam e il cristianesimo hanno delle connessioni storiche e delle tradizioni in comune, benché ovviamente a livello teologico e dottrinale vi siano diversi punti di inconciliabilità. Entrambe sono nate in Medio Oriente, si considerano monoteistiche e vengono classificate come religioni abramitiche, cioè rivendicano Abramo (in arabo ابراهيم, Ibrahim) come parte della propria storia sacra.
Ebrei e cristiani sono considerati dai musulmani “popoli del libro”, cioè fedeli di quelle religioni che fanno riferimento a testi che lo stesso Islam ritiene di origine divina: la Torah per gli ebrei, l’Injil (Vangelo) per i cristiani, l’Avesta per gli zoroastriani e i Veda per gli induisti.

Muhammed (محمد) visse in Arabia tra il VI e il VII sec. Ebbe numerosi contatti con ebrei e cristiani, parte di un più vario insieme di comunità monoteistiche con cui il profeta maturò alleanze politico-militari alternate a periodi di conflittualità. Nel suo Ashtiname – o Testamento – Muhammad indicò come fondamentale la tutela dei cristiani. Riportiamo una piccola parte della lettera, “firmata” in calce dallo stesso Muhammad con l’impronta della sua mano:


Questa lettera è indirizzata agli ambasciatori dell’Islam, come alleanza data ai seguaci del Nazareno in Oriente e Occidente, a quelli vicini e lontani, agli arabi e agli stranieri, al noto e all’ignoto. 
Questa lettera contiene il giuramento dato loro, e chi disobbedisce ciò che vi è scritto, sarà considerato un disobbediente e un trasgressore a quella Fede alla quale egli è comandato. 
Ogni volta che monaci, fedeli e pellegrini si riuniscono, sia in una montagna o valle, o tana, o luogo frequentato, o semplice, o la chiesa, o in luoghi di culto, in verità Dio è su di loro e li protegge, e protegge le loro proprietà e la loro morale, anche da me stesso, dai miei amici e dai miei assistenti, perché sono dei soggetti sotto la mia protezione. 
A nessuno è permesso di saccheggiare i pellegrini, o distruggere o rovinare una delle loro chiese, o case di culto, o di prendere una qualsiasi delle cose contenute all’interno di queste case e portarlo alle case dell’Islam. 
Le loro chiese devono essere onorate e non devono esserci impedimenti nella costruzione di luoghi di preghiera o la riparazione dei loro conventi.
Spetta a ognuno della nazione dell’Islam non contraddire e a rispettare questo giuramento fino al Giorno della Resurrezione e della fine del mondo.

Sono stati scritti saggi estremamente ricchi e approfonditi sulla molteplicità di rapporti tra i primi musulmani e i monoteisti a loro contemporanei. Non mi dilungherò dunque nella descrizione di tale affascinante seppur complesso argomento. È però interessante conoscere meglio quali siano, al di là delle influenze delle comunità giudeo-cristiane con cui entrò in contatto Muhammad, le convergenze storiche e di tradizione tra le due fedi. Quali siano, cioè, le radici cristiane dell’Islam.

Per usare le parole della celebre orientalista ed islamologa danese Patricia Crone, “le nuove religioni non sono mai il frutto assoluto della mente dei profeti, perché è impossibile spazzare via la cultura delle civiltà precedenti”. L’Islam non fece eccezione. Dal diciannovesimo secolo gli studiosi europei (soprattutto tedeschi, ma anche italiani, francesi, ungheresi e britannici) iniziarono ad esaminare il Corano con lo stesso approccio riservato al Vecchio e al Nuovo Testamento. Ci si iniziò a chiedere dunque se fosse l’ebraismo oppure il cristianesimo ad aver contribuito maggiormente allo sviluppo della teologia islamica come a noi nota.
Nel suo libro The Origin of Islam in Its Christian Environment [Edinburgh, 1925], Richard Bell scrisse: “Sia l’ebraismo che il cristianesimo svolsero un ruolo importante nella formazione della dottrina dell’Islam. È pacificamente riconosciuto che queste due fedi abbiano spiritualmente preparato il terreno per la ricezione del messaggio islamico in Arabia. È difficile stabilire una predominanza di influenza dell’una o dell’altra fede. Perché le stesse hanno tantissimo in comune, e dobbiamo ricordarci che vi erano diverse forme di cristianesimo considerabili in una posizione intermedia tra la Chiesa Ortodossa del VII sec. e l’ebraismo da cui nacque. Ed è proprio in Oriente, lungo i confini dell’Arabia, che queste correnti giudaiche del cristianesimo sono state a lungo preservate nella loro forma. Alcuni elementi coranici ed islamici che possono apparire squisitamente ebraici, potrebbero in realtà essere stati diffusi da canali nominalmente cristiani. Ma resta comunque impossibile negare l’ampia influenza esercitata dall’ebraismo”.

Nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, Dante incontra un uomo col corpo lacerato e con le interiora da fuori, che descrive così: «Or vedi com’ io mi dilacco! vedi come storpiato è Mäometto!» (XXVIII, vv. 30-31). Dante colloca Mäometto ed ‘Ali tra i seminatori di discordia, rimproverando loro non tanto di professare una falsa religione, quanto di aver provocato la separazione della comunità degli uomini. Come diversi altri cristiani medievali, anche Dante Alighieri tendeva a vedere nell’Islam una forma scismatica del cristianesimo, piuttosto che una religione nemica.

Uno dei principi fondamentali dell’Islam è l’unicità assoluta (in arabo Tawhid, ﺗﻮﺣﻴﺪ) che rende inaccettabile per la fede islamica (come anche per l’ebraismo) il concetto di Trinità. Nell’Islam Gesù è considerato Messia, profeta e messaggero di Dio da rispettare e amare, ma non è Figlio dell’Altissimo, né tantomeno viene riconosciuta a lui alcuna divinità; lo Spirito Santo invece è identificato con l’angelo Gabriele (in arabo Jibril, جبريل) che – benché non abbia alcun attributo di divinità – è incaricato di trasmettere la Rivelazione ai profeti.
Ma al netto di questi e molti altri aspetti intrinsecamente diversi tra Islam e cattolicesimo (che provocano a mio avviso una difficile conciliabilità teologica, dottrinale e soteriologica tra le due fedi), vi sono alcune riflessioni che vanno fatte in merito alla considerazione che il Corano ha di “coloro che vi hanno preceduto“, locuzione con cui il libro sacro dell’Islam si riferisce a cristiani ed ebrei (cfr. “O voi che credete, vi è prescritto il digiuno come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto. Forse diverrete timorati” – Sura 2:183).
In particolare, come accennato inizialmente, Torah e Vangelo vengono considerati mandati da Dio. Sono diversi i versetti che lo dimostrano:
– “Abbiamo dato il Libro a Mosè, e dopo di lui abbiamo inviato altri messaggeri” (Sura 2:87)
– “Ha fatto scendere su di te il Libro, con la verità, a conferma di ciò che era prima di esso. E fece scendere la Torâh e l’Ingîl in precedenza, come guida per le genti” (Sura 3:3)
– “Facemmo scendere la Torâh, fonte di guida e di luce” (Sura 5:44)
– “Facemmo camminare sulle loro orme Gesù figlio di Maria, per confermare la Torâh che scese prima di lui. Gli demmo il Vangelo, in cui è guida e luce, a conferma della Torâh che era scesa precedentemente: monito e direzione per i timorati. Giudichi la gente del Vangelo in base a quello che Allah ha fatto scendere … Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità” (Sura 5:46-48)
Un altro aspetto degno di riflessione è la considerazione che il Corano riserva a Maria, alla cui figura è dedicata l’intera sura 19 (è inoltre citata molte volte nella sura 3).

Alcune osservazioni:
– I musulmani venerano Maria come una delle “donne eccellenti”, insieme ad Asiya (madre di Mosè), a Khadija (prima moglie di Muhammad), e a Fatima (unica figlia sopravvissuta di Muhammad);
– Nel Corano Maria è nominata più volte che nell’intero Nuovo Testamento;
– Uno degli appellativi con cui i musulmani chiamano Maria è al-Sayyidah (السيدة), cioè “signora” o “padrona”. Madonna (dal latino Mea Domina) significhi proprio “mia signora”;
– Nel Corano a Maria viene dato l’appellativo di al-Siddiqah (صِدِّيقة), cioè “colei che è sempre veritiera”, attributo riservato a coloro – dopo i profeti – che vengono considerati più vicini a Dio;
– A lei sono dedicate la moschea “Mary Mother of Jesus Mosque” di Victoria, in Australia, e la “Mosque Maryam” di Chicago.
Appare dunque innegabile una forte permanenza, soprattutto ma non esclusivamente nelle prime comunità di musulmani, delle nozioni religiose cristiane.

Il Corano contiene le rivelazioni che, stando alla narrativa islamica, Dio avrebbe dato a Muhammed tra il 609 e il 632 tramite l’angelo Gabriele. Fu Othmàn ibn Affàn, il terzo califfo ben guidato, a ordinare la raccolta e la sistemazione di tali rivelazioni in un unico testo.
Ma vi sono opinioni contrastanti circa la sua effettiva origine. L’orientalista tedesco Christoph Luxenberg (pseudonimo), nel suo libro Die Syro-Aramäische Lesart des Koran ( “L’interpretazione siro-aramaica del Corano”), sostiene che il testo sacro dell’Islam sia stato fortemente influenzato dalla letteratura e dalla cultura ebraico-cristiana. Il libro, pubblicato nel 2000, ha ricevuto una pesante opposizione da parte di molte autorità politiche di paesi a maggioranza musulmana.

Una delle tesi centrali di Luxenberg è che il Corano provenga da una traduzione in lingua araba di un testo originale in siriaco. Come ricordato da Peter J. Leithart su First Things, alcune parole che non hanno radice araba sarebbero delle arabizzazioni di termini siriaci. Luxenberg citò il Corano stesso per giustificare la sua ipotesi di traduzione in arabo di alcuni temi religiosi pre-esistenti: “Abbiamo reso facile questo [Corano], nel tuo idioma, affinché riflettano” – Sura 44:58
Su Avvenire Lorenzo Fazzini cita lo studioso Joan Van Reeth, che mette a confronto i versetti evangelici in cui Gesù si auto-presenta come inviato del Padre e l’auto-presentazione di ‘Isa (عيسى, il nome arabo di Gesù) nella sura 3: «Il redattore del Corano aveva il testo evangelico davanti a sé, o almeno lo aveva presente in testa, dal momento che il Profeta cita le affermazioni di Gesù con le loro caratteristiche formali proprie. Maometto e la sua comunità conoscevano dell’ebraismo, del cristianesimo, del manicheismo e dello gnosticismo molto più di quello che spesso erano disponibili a riconoscerlo»
Per Fazzini “i residui biblici, sia apocrifi che canonici (tra cui i Salmi), così come di testi cristiani più recenti, sono numerosi nel Corano: il Vangelo dello pseudo Matteo, frammenti delle profezie di Montano e delle sue profetesse, gli scritti siriaci di San Efrem segnalano le contaminazioni che l’islam ha ricevuto dal primo cristianesimo”.
Nel libro The Hidden Origins of Islam: New Research into Its Early History, lo storico Karl-Heinz Ohlig analizza con lo stesso metodo l’iscrizione della Cupola della Roccia, che presenta una quasi totale aderenza alla Shahada, la testimonianza di fede islamica (Testimonio che non c’è divinità se non Dio e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero – أشهد أن لا إله إلا الله وأشهد أن محمدا رسول الله‎ ).
La scritta presente nel santuario islamico di Gerusalemme recita: “Non c’è altra divinità all’infuori di Dio… Muhammed servo di Dio e messaggero”. Luxenberg segnala che Muhammed, solitamente inteso come nome proprio, in arabo ha il significato di “esaltato” o “grandemente lodato”, e che i cristiani siriaci guardavano con scetticismo il Credo di Nicea, preferendo per Gesù il titolo di “servo”, piuttosto che “figlio” di Dio.
L’iscrizione dovrebbe dunque essere letta così, secondo Luxenberg: “Non c’è altra divinità all’infuori di Dio… Sia esaltato il servo di Dio, Suo messaggero”. Dove il riferimento sarebbe a Gesù, figlio di Maria. Ohlig sostiene inoltre che “la concezione di Dio, la Cristologia, l’escatologia e molte altre affermazioni teologiche presenti nel Corano, siano sorte in seno alla tradizione cristiana siriaca”.
Chiunque studi arabo sa benissimo che sì, la radice triconsonantica Ḥ-M-D da cui deriva il nome Muhammad abbia il significato di “lode” in arabo (si consideri l’esclamazione araba alhamdulillah – لله‎‎الحَمْد  – sia lode a Dio, utilizzata anche da ebrei e cristiani arabofoni) e “desiderio” in ebraico. Potrebbe apparire difficilmente difendibile, esclusivamente in base a tale evidenza linguistica, l’ipotesi di Ohlig in merito all’iscrizione di Gerusalemme. Ma la sua posizione globale sull’argomento, benché estremamente minoritaria (se non addirittura singolare), ha comunque il ruolo indispensabile di alimentare il dibattito sull’intricata questione delle origini del testo della spiritualità islamica.

Mercoledì della XXVI settimana del Tempo Ordinario

Papa Franceso a Shimon Peres: "Lei è saggio e buono, e io sono beato ..."



E' morto Shimon Peres, protagonista della storia d'Israele

(Luis Badilla - ©copyright) Quando il 26 maggio 2014 Papa Francesco visitò nella sua residenza l'allora Presidente Shimon Peres - che nel suo saluto al Santo Padre aveva ringraziato ciò che Francesco aveva fatto fin dall'inizio del suo pontificato per portare la pace tra cristiani ed ebrei e per costruire la pace fra i popoli, sfida che esige "fantasia e ispirazione" - rivolgendosi a lui esclamo:
"Ringrazio Lei per le sue parole e per la sua accoglienza. Con la mia immaginazione e con la mia fantasia vorrei inventare una nuova Beatitudine, che applico a me in questo momento: Beato quello che entra in casa di un uomo saggio e buono. E io mi sento beato".
Il Presidente israeliano sorridendo rispose: "Grazie di vero cuore".
(Video dell'incontro)


***
Shimon Peres: "Due popoli – gli israeliani e i palestinesi – desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Pace fra eguali"

Riproponiamo l'allocuzione che l'ex Presidente Shimon Peres pronunciò in Vaticano l'8 giugno 2014 quando, accogliendo l'invito del Papa durante la sua Visita a Terra Santa, si unì al Presidente palestinese e al Patriarca Bartolomeo per Invocare la pace nel Medio Oriente.

Traduzione in lingua italiana (originale in inglese) - Il Presidente ha aggiunto nel corso della lettura diverse frasi da noi non riportate.
Sua Santità Papa Francesco
Sua Eccellenza Presidente Mahmoud Abbas
(Ringraziamenti)
Sono venuto dalla Città Santa di Gerusalemme per ringraziarvi per questo vostro invito eccezionale. La Città Santa di Gerusalemme è il cuore pulsante del popolo ebraico. In ebraico, la nostra lingua antica, la parola Gerusalemme e la parola “pace” hanno la stessa radice. E infatti pace è la visione stessa di Gerusalemme.
Come si legge nel Libro dei Salmi (122, 6-9):
“Chiedete pace per Gerusalemme.
Vivano sicuri quelli che ti amano.
Sia pace nelle tue mura
sicurezza nei tuoi palazzi.
Per i miei fratelli e i miei amici
Io dirò: “Su di te sia pace”.
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene”.
Durante la Sua storica visita alla Terra Santa, Lei ci ha toccato con il calore del Suo cuore, la sincerità delle Sue intenzioni, la Sua modestia, la Sua gentilezza. Lei ha toccato i cuori della gente – indipendentemente dalla sua fede e nazionalità. Lei si è presentato come un costruttore di ponti di fratellanza e di pace. Noi tutti abbiamo bisogno dell’ispirazione che accompagna il suo carattere e il suo cammino.
Grazie.
Due popoli – gli israeliani e i palestinesi – desiderano ancora ardentemente la pace. Le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori. Noi dobbiamo mettere fine alle grida, alla violenza, al conflitto. Noi tutti abbiamo bisogno di pace. Pace fra eguali. Il Suo invito a unirsi a Lei in questa importante cerimonia per chiedere la pace, qui nei Giardini Vaticani, alla presenza di autorità Ebree, Cristiane, Musulmane e Druse, riflette meravigliosamente la Sua visione dell’aspirazione che tutti condividiamo: Pace.
In questa commovente occasione, traboccanti di speranza e pieni di fede, eleviamo con Lei, Santità, una invocazione per la pace fra le religioni, le nazioni, le comunità, fra uomini e donne. Che la vera pace diventi nostra eredità presto e rapidamente.
Il nostro Libro dei Libri ci impone la via della pace, ci chiede di adoperarci per la sua realizzazione.
Dice il Libro dei Proverbi: “Le sue vie sono vie di grazia, e tutti i suoi sentieri sono pace”. Così devono essere le nostre vie. Vie di grazia e di pace. Non è per caso che Rabbi Akiva ha colto l’essenza della nostra Legge con una sola frase: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Noi tutti siamo uguali davanti al Signore. Noi siamo tutti parte della famiglia umana. Perciò, senza pace noi non siamo completi e dobbiamo ancora compiere la missione dell’umanità. La pace non viene facilmente. Noi dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze per raggiungerla. Per raggiungerla presto. Anche se ciò richiede sacrifici o compromessi. Il Libro dei Salmi ci dice: “Se ami la vita e desideri vedere lunghi giorni, trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontànati dal male e fa il bene, cerca la pace e perseguila”.
Questo significa, che dobbiamo perseguire la pace. Ogni l’anno. Ogni giorno. Noi ci salutiamo con questa benedizione: Shalom, Salam. Noi dobbiamo essere degni del significato profondo ed esigente di questa benedizione. Anche quando la pace sembra lontana, noi dobbiamo perseguirla per renderla più vicina.
E se noi perseguiamo la pace con perseveranza, con fede, noi la raggiungeremo.
Ed essa durerà grazie a noi, a tutti noi, di tutte le fedi, di tutte le nazioni, come è stato scritto: “Essi trasformeranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non si eserciteranno più nell’arte della guerra”.
Lasciatemi concludere con una preghiera:
Colui che fa la pace nei cieli faccia pace su di noi e su tutto Israele e sul mondo intero, e diciamo: Amen.