giovedì 13 ottobre 2016

La paura dell’altro (e di se stessi)



Anticipiamo stralci dell’intervista del direttore di «Tracce» sul prossimo numero del mensile.
(Davide Perillo) «È una luce. L’unica, in fondo al tunnel lungo e buio che stiamo attraversando. Ma è una luce misteriosamentebrillante». Lo dice due volte in due frasi, quando parla di Papa Francesco e del loro incontro ad Assisi, il mese scorso.
Novantun anni il mese prossimo, ebreo di origini, polacco di nascita e cosmopolita di vocazione (ha vissuto tra Varsavia, Londra e Tel Aviv, prima di mettere radici a Leeds, Gran Bretagna), Bauman è uno degli intellettuali più famosi — e prolifici — del mondo. Un uomo in grado di fotografare il mondo e chi lo abita nel dettaglio, fino in fondo, con uno sguardo acuto e insieme carico di empatia. Come quello che sta rivolgendo, da tempo, al fenomeno dell’immigrazione. Meglio, ai migranti, che minano le nostre certezze e diventano un bersaglio facile su cui scaricare un’insicurezza sorda, profonda, impossibile da arginare con le soluzioni proposte da una politica fatta di muri e uomini forti. 
Partiamo da lì, allora. Che cosa è questa «insicurezza esistenziale»? Da dove nasce? 
Kant, l’esploratore più infaticabile dei misteri del modo unicamente umano di stare al mondo — alla cui sapienza noi tutti, in qualche modo, siamo debitori, eredi entusiasti o disperati —, nella Critica della ragion pratica ha scritto una frase celebre: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me». Il “cielo stellato” indica ciò che è oltre la portata umana, la nostra capacità di affronto; e la “legge morale” indica i dilemmi tra cui gli umani sono condannati a scegliere. Ma più di un secolo prima di queste parole, Blaise Pascal aveva approfondito proprio quella straziante e terrorizzante inadeguatezza: «Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall’eternità che la precede e da quella che la segue, il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell’infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, ora piuttosto che allora. Chi mi ci ha messo? Per volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?». Per arrivare a concludere: «Essendo incapaci di eliminare la morte, la miseria e l’ignoranza, gli uomini hanno deciso, per essere felici, di non pensare a tali cose». Ecco, il problema è che, per quanto tentiamo con accanimento di seguire questa decisione, riflessione e pensiero restano ostinatamente parti ineliminabili della nostra condizione. Per questo l’“insicurezza esistenziale” è scolpita indelebilmente nel modo di essere al mondo dell’uomo. È lì il luogo da dove vieni e da dove non puoi scappare.
Il primo riflesso di questa insicurezza è la “paura dell’altro”. Lei ha spiegato molto bene perché gli «stranieri alle porte» ci fanno così paura. Ma non pensa che al fondo ci sia anche la paura di interrogarci su noi stessi? L’altro che bussa alla mia porta mi interpella inevitabilmente su chi sono io, che idea ho della vita, dei rapporti, di ciò che vale... Tirare su muri è anche un modo per evadere da questa questione?
Il sentimento di “insicurezza” deriva da una miscela di incertezza e ignoranza: ci sentiamo umiliati perché inadeguati al nostro compito, e la conseguenza è il crollo della stima e della fiducia in noi stessi. È qualcosa che riguarda tutti. Ora, “gli altri” — in particolare quelli che classifichiamo come sconosciuti, estranei o stranieri — sono particolarmente fecondi nel rafforzare un sentimento del genere.
Perché? 
Ciò che trasforma gli stranieri in pericoli — pericoli spaventosi, terrificanti, proprio per la loro riprovevole impossibilità a essere identificati — è l’assenza di una conoscenza reale delle loro intenzioni e del loro codice di comportamento. Ci mancano le competenze che servono per affrontarli in modo adeguato e per rispondere alle loro mosse. In più, c’è proprio quell’altro fattore cruciale che osservava lei prima. Gli stranieri — soprattutto i migranti, i nuovi venuti — tendono a mettere in questione quello che “noi”, i nativi, siamo, almeno nel regno dell’opinione (ovvero nel sapere in cui crediamo, ma su cui non riflettiamo). Ci spingono, anzi, quasi ci obbligano a spiegare in che modo perseguiamo gli obiettivi della nostra vita. A rendere ragione di convinzioni e comportamenti che per noi sono ovvi, evidenti e perciò auto-esplicativi. Facendo così, quindi, disturbano. Sconvolgono la nostra tranquillità spirituale e intaccano la nostra sicurezza, così necessaria per un’azione decisa. A quanti di noi piace una situazione del genere?
In «Conversazioni su Dio e l’uomo» lei dice che «il momento della nascita dell’incertezza è stato il momento della nascita della moralità. E dell’io morale, cosciente di procedere su una fune. Condannando gli uomini alla scelta, (...) Dio li ha invitati a prendere parte all’opera della creazione». Non è che, davanti a problemi così grandi, si svela pure che abbiamo paura di questo “invito”? In sostanza, abbiamo paura della nostra libertà? E se sì, perché?
È una vecchia e lunga storia... Forse addirittura una costante, visto che le ribellioni contro la libertà, dopo tutto, si ripetono con una sorprendente regolarità; sembra impossibile, ma ogni intrepida lotta contro la schiavitù, l’oppressione e la restrizione della libertà, prima o poi spinge inevitabilmente il pendolo delle disposizioni e delle passioni a svoltare di 180 gradi, incrementando il numero di quanti sono pronti ad accettare — perfino a volere — l’avvento di nuovi “giri di vite”. Così le porte chiuse tendono ad aumentare. È un fenomeno descritto dettagliatamente da Erich Fromm nel suo classico Fuga dalla libertà. Oggi — almeno qui in Occidente e tra le generazioni felici di non aver mai sperimentato in prima persona le delizie di una vita sotto il dispotismo e la tirannia — stiamo vivendo un altro simile giro del pendolo, innescato dagli stessi fattori del passato. Il fatto è che la libertà può arrivare solo in coppia con il peso e con i rischi della responsabilità. A un numero crescente di persone incitate, convinte e istigate da un numero crescente di aspiranti (e spesso vincenti) cacciatori di voti, come i vari Trump, Marianne Le Pen, Orban o Fico, sembra un buon affare barattare il diritto di scelta legato alla responsabilità, troppo pesante per stare a lungo sulle spalle di un individuo, con dei tagli nell’ordine delle libertà personali. Più deboli sono le spalle di ciascun individuo e più pesante è la responsabilità scaricata su di lui con fenomeni come la privatizzazione e commercializzazione delle funzioni sociali, sponsorizzate dallo Stato e rafforzate dai mercati. Il risultato che dobbiamo aspettarci è la crescita di una folla di “uomini e donne forti” che intravedono l’opportunità di profitti elettorali e non aspettano altro che arrendersi a questa tentazione. 
È un rischio pesante...
La verità è che cresce sempre di più il numero delle persone esposte ogni giorno ai rischi, alle trappole e alle imboscate di una vita vissuta sotto le regole del mercato, la cui nostalgia per il “Paradiso perduto” coincide con l’essere liberi dalla scelta; più precisamente, con la cancellazione del dovere di prendersi cura e di contribuire al benessere del mondo e all’ospitalità degli umani che vi abitano. Ma sognare di seguire l’esempio di Ponzio Pilato e di lavarsi le mani nella battaglia tra bene e male, moralità e indifferenza, verità e menzogna, significa rinunciare alla dignità umana. Ovvero (come ci è stato insegnato da Kant e da Pico della Mirandola) proprio a quel preciso “invito di Dio”, rivolto unicamente alla specie umana, a partecipare al completamento dell’atto della creazione. E che, in fondo, è il motivo per cui sono state date agli uomini la ragione, la socialità e la libertà di scelta.
Che cosa può vincere la paura?
Di sicuro, non gli obiettivi a breve termine, i tagli e le soluzioni istantanee. Ecco, in questo mi ha colpito molto l’intervento di Papa Francesco al Premio Carlo Magno. Dopo aver evidenziato l’incremento, l’assimilazione e la pratica quotidiana della “cultura del dialogo” come la strada maestra per la coesistenza pacifica degli uomini — e, al tempo stesso, per una graduale, ma decisa dispersione delle reciproche paure — ha sottolineato la necessità di introdurre l’arte del dialogo a tutti i livelli dell’educazione. Ovviamente, l’educazione è una strategia opposta alle campagne una tantum; va programmata per avere effetti duraturi e preferibilmente irreversibili, ha bisogno di tempo — forse addirittura un tempo che si estende a più generazioni; richiede molta pazienza e una determinazione salda, capace di resistere all’impatto congelante di inciampi, errori e mancanze occasionali, inevitabili. In più, occorre notare che in un’epoca come la nostra, segnata dall’accesso universale ai mezzi d’informazione e da una massiccia, onnipresente pressione di pubblicità e “pubbliche relazioni”, l’educazione non è più (come è sempre stata) un’attività limitata alla scuola; per quanto i programmi scolastici possano essere elaborati con cura, non sono più soli a incidere sulla formazione della mentalità e del carattere. Che abbiano successo sulla pletora dei loro concorrenti è tutt’altro che scontato.
Accennava al Papa, appunto. Negli ultimi tempi ne ha parlato spesso, con ammirazione. Ha detto che per affrontare il problema delle migrazioni «dovremmo studiare e applicare la sua analisi» e «sperare che la sua parola si incarni nelle nostre azioni». Perché? Che cosa la colpisce di lui?
Penso che Francesco sia il regalo più prezioso che la Chiesa cristiana abbia offerto al nostro mondo travagliato, perso nelle sue vie, confuso, mancante di bussola e ormai alla deriva. Ha ridato vigore alla speranza, ormai appassita, di un mondo alternativo e migliore, fatto a misura dei bisogni e dei sogni dell’uomo. Credo sia la sola figura pubblica sulla scena mossa da questo desiderio e in grado di perseguirlo. La sua voce va molto oltre il circolo incestuoso delle élites politiche: raggiunge le masse che i gestori degli altoparlanti non riescono o non si preoccupano di raggiungere, quelle lasciate da sole a trovare una via d’uscita dalla loro attuale incertezza.

L'Osservatore Romano