mercoledì 30 novembre 2016

L’aborto nella società di oggi.

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Una questione sempre aperta
L'Osservatore Romano
(Lucetta Scaraffia) Che l’aborto non sia un intervento qualsiasi — e tanto meno un momento di affermazione della libertà della donna — non lo dicono solo i suoi oppositori, ma lo stesso corso della storia. Ne abbiamo due esempi recenti. Qualche giorno fa la lettera di Papa Francesco Misericordia et misera, che estendeva anche al dopo giubileo la facoltà per tutti i sacerdoti di assolvere da questo peccato, è stata da molti letta come una cancellazione del peccato stesso, confondendo così la misericordia verso il peccatore con la cancellazione del peccato. Certo, era un equivoco nato soprattutto dal fatto che ormai gran parte delle persone ignora che esiste una gerarchia fra i peccati, e quindi prassi diverse per la loro assoluzione. Ma una reazione così vivace faceva anche capire che, pure in società dove l’aborto è ormai legale ed è assicurato dall’assistenza sanitaria da quasi cinquant’anni, il disagio si sente ancora e il perdono del Papa — che secondo alcuni si sarebbe adeguato così alla “modernità” — non sarebbe stato inutile né irrilevante.
Ma in questi giorni un altro problema ci mette di nuovo sotto gli occhi la realtà: in Francia i socialisti, al governo, hanno presentato una proposta volta a considerare i siti internet e gli altri centri che diffondono informazioni contrarie all’interruzione di gravidanza «con scopo dissuasivo» colpevoli di «ostruzione all’interruzione volontaria di gravidanza» e quindi passibili di essere oscurati.
Giustamente, con parole equilibrate e nobili, Georges Pontier, presidente della conferenza episcopale francese, ha ricordato che «questa proposta di legge mette in questione i fondamenti della nostra libertà» e soprattutto ha fatto presente che questi siti vengono a sostituirsi a una funzione prima esercitata dallo stato, cioè quella di garantire un’occasione di riflessione alle donne che volevano ricorrere all’aborto. Lo stato infatti ha abolito l’obbligo di lasciar passare almeno una settimana fra la prima consultazione e l’intervento, e quindi — scrive Pontier — «le donne non trovano più un sostegno ufficiale ai propri interrogativi di coscienza» perché il loro travaglio morale e psicologico diventa così legalmente inesprimibile. I siti in questione danno soprattutto assistenza a donne che hanno abortito e hanno bisogno di esprimere i loro problemi rispetto all’esperienza che hanno vissuto, ma certo sono anche pronti ad ascoltare donne dubbiose circa questa scelta. Qualche volta si tratta di gruppi che confondono l’assistenza con il militantismo — lo si sa — e qualche volta non riconoscono con sufficiente delicatezza il travaglio della donna in occasione di questa decisione, ma certo non obbligano nessuno.
Il disagio rivelato da questa proposta di legge, ancora una volta, rivela come l’aborto non si possa considerare un’operazione come le altre, né un diritto di autodeterminazione come gli altri. Bisogna quindi avere il coraggio di lasciare aperto il problema, non permettere che venga messo a tacere il dubbio e soprattutto che la sofferenza delle donne non venga sottovalutata, da nessuna delle parti in causa.

L'Osservatore Romano

Giovedì della I settimana del Tempo di Avvento. Commento audio.

Nel Giappone degli shogun.



(Silvia Guidi) «Per un newyorkese trapiantato come me il silenzio è merce rara» dice un Martin Scorsesesorridente, felice e rilassato, parlando di Silence il suo ultimo film, ambientato nel Giappone degli shogun Tokugawa e delle loro violentissime persecuzioni contro chi si convertiva alla fede cristiana. Il sorriso radioso ha un motivo preciso: il regista, insieme a sua moglie e le due figlie, al produttore del film e sua moglie, accompagnati dal prefetto della Segreteria per la comunicazione, monsignor Dario Edoardo Viganò, è appena stato ricevuto da Papa Bergoglio. Francesco ha raccontato ai presenti di aver letto Silenzio, il libro di Shusaku Endo da cui è stata tratta la sceneggiatura, parlando poi dell’apostolato dei gesuiti in Giappone (dove lui stesso sognava di andare in missione) e del Museo dei 26 martiri a Nagasaki. 
Scorsese ha portato al Papa due quadri legati al tema dei kirishitan, i cristiani nascosti del Paese del Sol levante. Con Silence, il tema deilapsi — letteralmente gli “scivolati”, quelli che non ce l’hanno fatta a reggere alla durezza della persecuzione e hanno abiurato la loro fede, ampiamente trattato nella Chiesa dei primi secoli — approda sul grande schermo, via maestra per raggiungere il cuore della cultura mainstream. Un grande comunicatore come Agostino — se ai tempi del vescovo di Ippona fosse esistito qualcosa di simile al moderno cinema — ne sarebbe stato felice. Ma torniamo a Scorsese. 
Il titolo del film non è solo un omaggio al libro di Endo, ha anche un forte significato spirituale per lei.
Sono sempre stato abituato a vivere in un contesto in cui si intrecciavano le grida dei venditori ambulanti, l’arrotino che cercava clienti per strada, i vicini di casa che litigavano in molte lingue diverse. A Little Italy il silenzio proprio non sapevamo che cosa fosse [ride]Era come un villaggio ottocentesco pieno di caos. Per questo quando ne avevo bisogno mi rifugiavo in una piccola chiesa cattolica. O nel buio di un cinema. Sulla mia generazione ha avuto molto influsso l’esempio di George Harrison, che ci ha fatto capire l’importanza del silenzio e della meditazione; nel mio caso una grande svolta sarebbe poi arrivata nel 1987 a Gerusalemme durante le riprese dell’Ultima tentazione di Cristo. Il silenzio permette di trattenere le cose, capirle, assaporarle, non vederle sfumare via insieme al rumore di fondo. In certe occasioni una stanza vuota può essere il migliore alleato. 

Chi lavora con lei sa che esige un set silenzioso.
Chiedo a tutti di essere il più silenziosi possibile. Il rumore non manca mai in un set; attrezzisti, gente che sposta mobili e pianta chiodi, comparse. Voglio il silenzio della troupe per poter parlare con i miei collaboratori e permettere agli attori di fare bene il loro mestiere. Non mi dispiace se ridono o discutono fra loro, se fa parte del loro modo di lavorare. Ma preferisco che la troupe lavori il più in silenzio possibile per permettere agli attori, che sono gli strumenti del film, di “accordarsi” bene. Dovrebbe essere trattato come uno spazio sacro, il set. In fondo si sta creando insieme qualcosa, no?

Come nel film del 1988, ancora temi come la tentazione, la colpa, la fedeltà alla vocazione messa alla prova dalla brutalità del male. Non dev’essere stato facile tradurre in immagini una sceneggiatura così complessa. Per di più ambientata nel Giappone del Seicento. 
La riprese sono state lunghe e faticose, nei dintorni di Taipei, come..., sì, come una specie di pellegrinaggio. Un lavoro così ti assorbe per mesi: l’attenzione a non sforare con il budget, la lotta continua contro gli imprevisti. Non c’è spazio per nient’altro. 

E quanto è stato facile (o difficile) lavorare con i gesuiti? In fondo sono loro i protagonisti del film, e si tratta di una storia piena di ferite, morali e materiali.
Padre James J. Martin e gli altri sono stati molto attenti, molto accurati e collaborativi. Ci hanno aiutato a evitare ingenuità, errori di ambientazione, errori nel comportamento dei singoli personaggi. Anche ad affrontare un tema delicato come il rapporto tra speranza e disperazione, terrore e forza interiore, caduta e rinascita. In fondo anche ripetere “ho paura, ho paura, ho paura” rivolgendo il pensiero a Dio, mantenendo il dialogo con lui, è pregare. Sono sempre stato affascinato dalle storie che raccontano vincoli di amicizia molto stretti, dai personaggi che hanno tra loro un legame forte, come tra fratelli. 

Come è stato l’impatto con la cultura giapponese, con il suo culto per la bellezza e per l’ordine e le sue contraddizioni?
Mi ha colpito la serietà nel lavoro degli attori giapponesi; non uscivano mai dai loro personaggi, neanche a telecamere spente. Totalmente presenti a loro stessi, totalmente concentrati. La pazienza dei traduttori è stata determinante per comunicare ogni dettaglio e ogni sfumatura. Erano molto fieri del risultato, di far parte di qualcosa che sveglia il nostro sguardo e cambia il modo con cui vediamo le cose. Io sono fiero, oltre che del lavoro con Liam, Adam e gli altri, di far parte di The Film Foundation, che si occupa di restaurare e conservare la nostra memoria di celluloide. Non sono da solo per fortuna, ci sono anche tanti altri registi, da Woody Allen a Steven Spielberg.
L'Osservatore Romano

Visione condivisa. Il Pontefice al Patriarca Bartolomeo per la festa di sant’Andrea (testo in italiano)



Nel quadro del tradizionale scambio di delegazioni per le rispettive feste dei santi Patroni — il 29 giugno a Roma per la celebrazione dei santi Pietro e Paolo e il 30 novembre a Istanbul per la celebrazione di sant’Andrea — il cardinale Kurt Koch guida la delegazione della Santa Sede per la festa del Patriarcato ecumenico. Il porporato, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, è accompagnato dal vescovo segretario Brian Farrell e dal sottosegretario monsignor Andrea Palmieri. 
A Istanbul si è unito alla delegazione il nunzio apostolico in Turchia, l’arcivescovo Paul F. Russell. La delegazione della Santa Sede ha preso parte alla solenne Divina liturgia presieduta da Bartolomeo nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar e ha avuto un incontro con il Patriarca e conversazioni con la commissione sinodale incaricata delle relazioni con la Chiesa cattolica. Il cardinale Koch ha consegnato al Patriarca ecumenico un messaggio autografo di Papa Francesco — di cui ha dato lettura a conclusione della Divina liturgia — accompagnato da un dono. Ecco una nostra traduzione italiana del messaggio pontificio.
A Sua Santità Bartolomeo Arcivescovo di Costantinopoli Patriarca Ecumenico
È per me una grande gioia, Santità, rinnovare la tradizione di inviare una delegazione alla solenne celebrazione della festa di sant’Andrea Apostolo, patrono del Patriarcato Ecumenico, al fine di trasmettere i miei migliori auguri a lei, amato Fratello in Cristo, come anche ai membri del Santo Sinodo, al clero e a tutti i fedeli riuniti per commemorare sant’Andrea. Sono lieto di rispondere in questo modo alla sua consuetudine di inviare una delegazione della Chiesa di Costantinopoli per la solennità dei santi Pietro e Paolo, santi patroni della Chiesa di Roma.
Lo scambio di delegazioni tra Roma e Costantinopoli in occasione delle rispettive feste in onore dei fratelli apostoli Pietro e Andrea è un segno visibile dei vincoli profondi che già ci uniscono. È anche un’espressione del nostro desiderio di comunione sempre più profonda, fino al giorno in cui, Dio volendo, potremo testimoniare il nostro amore reciproco condividendo la stessa mensa eucaristica. In questo cammino verso il ripristino della comunione eucaristica tra noi, siamo sostenuti dall’intercessione non soltanto dei nostri santi patroni, ma anche della schiera di martiri di ogni tempo, che «malgrado il dramma della divisione [...], hanno conservato in se stessi un attaccamento a Cristo e al Padre suo tanto radicale e assoluto da poter arrivare fino all’effusione del sangue» (Papa san Giovanni Paolo II, Ut unum sint, n. 83).
Per i cattolici è fonte di autentico incoraggiamento che al Santo e Grande Concilio che si è tenuto lo scorso giugno a Creta sia stato confermato il forte impegno a ripristinare l’unità dei cristiani. Sempre fedele alla sua tradizione, lei, Santità, è rimasto costantemente consapevole delle difficoltà esistenti per l’unità e non si è mai stancato di sostenere iniziative atte a promuovere l’incontro e il dialogo. La storia dei rapporti tra cristiani, però, è stata tristemente segnata da conflitti che hanno lasciato un’impronta profonda nella memoria dei fedeli. Per questa ragione, alcuni rimangono attaccati agli atteggiamenti del passato. Sappiamo che solo la preghiera, le buone opere comuni e il dialogo possono renderci capaci di superare la divisione e di avvicinarci di più gli uni agli altri.
Grazie al processo di dialogo, negli ultimi decenni cattolici e ortodossi hanno iniziato a riconoscersi a vicenda come fratelli e sorelle e ad apprezzare i doni gli uni degli altri, e insieme hanno proclamato il Vangelo, servito l’umanità e la causa della pace, promosso la dignità dell’essere umano e il valore inestimabile della famiglia, e si sono presi cura dei più bisognosi, come pure del creato, la nostra casa comune. Anche il dialogo teologico intrapreso dalla Commissione mista internazionale ha dato un importante contributo alla comprensione reciproca. Il recente documento su Sinodalità e Primato nel Primo Millennio. Verso una comune comprensione nel servizio all’unità della Chiesa è frutto di un lungo e intenso studio da parte dei membri della Commissione mista internazionale, ai quali estendo la mia sentita gratitudine. Sebbene molte questioni rimangano, la riflessione comune sul rapporto tra sinodalità e primato nel primo millennio può offrire un solido fondamento per discernere modi in cui il primato potrà essere esercitato nella Chiesa quando tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente saranno finalmente riconciliati.
Ricordo con grande affetto il nostro recente incontro ad Assisi con altri cristiani e rappresentanti di tradizioni religiose, riuniti per offrire un appello comune per la pace in tutto il mondo. Il nostro incontro è stata una felice opportunità per approfondire la nostra amicizia, che trova espressione in una visione condivisa sulle grandi questioni che riguardano la vita della Chiesa e dell’intera società.
Santità, sono queste alcune delle mie speranze più profonde, che ho voluto esprimere in spirito di autentica fraternità. Assicurandola del mio ricordo quotidiano nella preghiera, rinnovo i miei migliori auguri di pace, salute e abbondanti benedizioni su di lei e su tutti coloro che sono affidati alle sue cure. Con sentimenti di affetto fraterno e vicinanza spirituale, scambio con lei, Santità, un abbraccio di pace nel Signore.
Francesco
L'Osservatore Romano

Una realtà NELLA Chiesa e DELLA Chiesa

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di Chiara Sanmorì

Il nuovo libro di Kiko Argüello Annotazioni (1988-2014), uscito a settembre in Spagna nella prestigiosa collana Biblioteca de Autores Cristianos e dall’ 11 novembre in Italiano (Cantagalli Edizioni), segue e completa idealmente il precedente volume Il Kerigma. Nelle baracche con i poveri (San Paolo, 2013).
Se nel primo libro infatti il fondatore del Cammino Neocatecumenale, insieme a Carmen Hernández, raccontava le vicende che l’avevano portato dall’esperienza di annuncio di Cristo tra i poveri di Palomeras Altas, ad essere uno strumento del rinnovamento della Chiesa secondo il Concilio Vaticano II, in questa più recente pubblicazione vivono i pensieri più intimi, le meditazioni, le preghiere, le invocazioni più segrete e personali che svelano la profonda spiritualità, i tormenti e le gioie di quest’anima grande che, in qualche modo, si consegna non solo ai fratelli del Cammino, ma a tutta quell’umanità sofferente e ferita cui ha dedicato la vita, in un gesto definitivo di totale donazione di sé.
Un consegnarsi anche doloroso, quasi imbarazzato, come l’Autore ha avuto modo di sottolineare anche nel corso della presentazione del libro organizzata dall’Editore al Teatro Olimpico di Roma (25 novembre), ma dettato dalla precisa convinzione, che ha guidato tante “imprese” della sua vita (l’evangelizzazione anche nei paesi più remoti e difficili, la fondazione di seminari “Redemptoris Mater”, una vasta produzione pittorica monumentale, la composizione di una sinfonia catechetica sulla sofferenza degli innocenti), di “mai lasciare di fare il bene per paura della vanità” (n.451).
Chi cercasse quindi in questo libro il racconto di un’esperienza di vita, oppure una raccolta organica di temi spirituali ne sarebbe inevitabilmente deluso. Se l’ordine scelto è quello cronologico, dal 1988 al 2014, gli eventi vissuti dall’autore solo raramente e in modo assolutamente occasionale emergono dalle sue parole: una convivenza importante, un concerto, l’approvazione definitiva degli Statuti da parte di Benedetto XVI, i continui viaggi, le persecuzioni, le persone incontrate, rimangono sullo sfondo, ridotte a volte a semplici accenni. Qui protagonista è l’anima stessa di Kiko, in un continuo colloquio con se stesso e con il Signore, una sorta di diario spirituale redatto senza pensare alla sua pubblicazione e quindi particolarmente “vero”.
Sotto questo profilo i 506 frammenti che compongono il libro si prestano meglio ad essere meditati giornalmente, piuttosto che letti d’un fiato, “un sorso che si gusta adagio” come efficacemente scrive nella bella Prefazione l’Arcivescovo di Valladolid, presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, il Cardinale Blásquez Pérez.
Ciò che colpisce nell’esperienza spirituale di quest’uomo straordinario è la profonda consapevolezza della propria miseria ed il desiderio infinito di amore verso Cristo che si scontra, dolorosamente, con la pochezza della propria anima. «Sono annientato dalla tua santità sopra il mio essere peccatore. – scrive nel 1998 – Il tuo amore appare sopra di me e mi distrugge, mi annienta , mi crocifigge. Signore, abbi pietà di me!» (n.300). Spesso, come molti mistici, tra i quali mi viene in mente la stessa Madre Teresa di Calcutta, le parole di Kiko mostrano il tormento della “notte oscura”, del sentirsi come abbandonati ed infinitamente lontani dall’Amato, uno spasimo che si trasforma a volte in poesia «C’è un amore che fa dolere il cuore, c’è un dolore che è pieno d’amore…È l’assenza. (…) Siamo nel deserto abbracciati a Te, Signore e in Te a tutti fino all’infinito. Assenza di Dio» (n.353).
Rincorre quest’uomo che molto, moltissimo ha realizzato, in un paradosso tutto cristiano, la “santa umiltà di Cristo”. Che non è finta modestia, un atteggiarsi ipocrita, ma è essenzialmente obbedienza alla Volontà di Dio, accettazione delle ingiustizie e delle calunnie perché «Tutto ciò in cui c’è Dio è umile» (n.5) e perché «Sali a Dio scendendo i gradini dell’umiltà» (n.9), fino a contemplare in essa la bellezza di Dio «Perché la bellezza è umile? Che mistero! Perché l’umiltà è bellissima? Ti ho visto Signore. Sì, Tu eri in quella donna abbandonata nel corridoio di un ospedale. Ti vidi nella strada buttato tra cartoni e spazzatura. Oh, santa umiltà di Cristo, chi ti potrà trovare! Ti trovai e mi toccasti il cuore, e non fui più lo stesso (…).» (n.473).
E veramente la vita di questo pittore di successo, destinato alla gloria del mondo, ad una carriera da artista, è stata rivoluzionata in modo sorprendente dall’incontro con Cristo, trasformandosi in zelo per l’evangelizzazione e per l’annuncio dell’amore di Dio all’umanità sofferente «Benedetto sia il tuo nome, Signore. Benedette la tua tenerezza e misericordia. [Il Signore] viene ad incendiare la terra. Il mio spirito arde, brucia in Te, Dio mio. Geme il mio cuore vedendo ovunque il tuo nome vilipeso e l’uomo sfruttato, colpito, ingannato in una società che vuole crocefiggerti di nuovo. Superstizione, magia, idolatria. Si assassina il pudore nei giovani. Aborto, omosessualità, sesso libero. Tutto ciò che è santo viene insultato e presentato come pernicioso. (…)» (n.268).
In questo consiste lo spirito profetico che la Chiesa ha riconosciuto ufficialmente e ribadisce ancora nelle parole del Cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, intervenuto alla presentazione del libro, al carisma del Cammino Neocatecumenale. Quello cioè di aver contribuito a realizzare, attraverso l’ispirazione di un’esperienza via via disvelatasi agli iniziatori, e non pertanto in un cammino studiato “a tavolino”, il rinnovamento voluto dal Concilio Vaticano II ed in particolare quel ruolo di “formazione permanente” dei laici, attraverso la riscoperta del dono del Battesimo che si attua attraverso la celebrazione Eucaristica e della Parola, vissute in piccole comunità «Parola, Liturgia e Comunità, tripode santo su cui poggia la nostra vita cristiana» (n.316), tripode che regge il mondo e di cui il Concilio stesso ben 54 volte aveva parlato.
Un carisma profetico quindi che affianca e sostiene il carisma del magistero proprio del papa e dei suoi collaboratori, come ha efficacemente sottolineato il Card. Müller nella sua prolusione, al servizio della Chiesa e di tutta l’umanità, volto al bene comune che è l’annuncio del Kerigma, del mistero cioè della morte e resurrezione di Cristo.
Dio nella sua grande e provvidenziale “fantasia” non lascia soli e senza risposte gli uomini di fronte alle sfide della storia ed ai grandi cambiamenti, anzi stravolgimenti, che la realtà propone. Sempre ha accompagnato e sempre accompagnerà la sua Chiesa attraverso questi strumenti suscitati dallo Spirito e la guida sicura dei Pastori, come del resto Gesù stesso aveva promesso: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt. 28,20).
In tal senso questa eredità spirituale che Kiko lascia ai Neocatecumenali ed alla Chiesa tutta, non fa che sottolineare la dimensione ecclesiale e non personalistica di questo Cammino (non un “kikianismo” quindi, ma una realtà NELLA Chiesa e DELLA Chiesa) ed in tal modo ne garantisce la sopravvivenza, oltre il limite terreno dei suoi stessi ideatori che sono e furono, come loro stessi tengono a sottolineare, “servi inutili” di Cristo
La Croce quotidiano

Le strategie di Satana: la tattica di Caino

Le strategie di Satana, parte 3: la tattica di Caino


“Se non vuoi andare a Messa, perché vorresti andare in paradiso?” Non è una domanda peregrina – punta alle radici più profonde del benessere spirituale.
Nella Parte 1 e nella Parte 2 di questa serie abbiamo visto come Satana usi la nostra debolezza e le nostre ferite per portarci ad abbracciare profonde abitudini di peccato. Consideriamo la “tattica di Caino”, con la quale Satana ruba la nostra chiamata più elevata e la nostra gioia più grande, ovvero adorare degnamente Dio.
Nel quarto capitolo della Genesi, Caino e Abele offrono un sacrificio a Dio. Quello di Abele viene accettato, quello di Caino no. Caino rifiuta di ricevere la correzione divina, e uccide in preda alla rabbia il fratello Abele.
Qual è la morale di questa storia? Rifiutando la correzione divina, respingendo la chiamata a offrire la degna adorazione dovuta a Dio, il nostro cuore viene avvelenato. Forse non siamo inclini al fratricidio come Caino; nella nostra epoca, la tattica di Caino opera in modo più sottile.

Alla base del peccato di Caino c’è il caparbio “Sia fatta la MIA volontà!” al momento di offrire il sacrificio. Rifiuta di imparare il dovere e la gioia della degna adorazione. Siamo sicuri di essere tanto diversi da lui?
Quando ero ordinato da poco, una persona mi disse: “Sei nuovo, quindi non sai ancora che nel corso del tempo inserirai delle tue aggiunte e sottrazioni personali alla Messa, per renderla più tua”. Visto che ero un novello sacerdote, ricordai facilmente che prima dell’ordinazione mi avevano fatto giurare di non “personalizzare” affatto la Messa. Ho giurato di offrire la preghiera pubblica identificabile della Chiesa in base alle disposizioni della Chiesa fondata da Cristo. Se avessi “personalizzato” la Messa, non sarebbe stata la Messa – sarebbe stata la mia preghiera privata resa pubblica, mascherata da Messa. Non è quello che merita Dio, né quello di cui la gente ha bisogno.
L’esempio di Caino ci insegna perché non osiamo stare sull’altare dichiarando “Sia fatta la MIA volontà!” C’è altro: la strategia satanica di Caino ci farebbe razionalizzare la nostra adorazione “di serie B”. Ci farebbe razionalizzare la nostra rassegnazione a una predicazione povera, una musica banale, paramenti logori, chiese brutte e rituale trascurato. Ci farebbe insistere ostinatamente sulla necessità di abbassare il livello per raggiungere tutti, che i nostri giovani hanno rifiutato per due generazioni.
Parliamo dell’Eucaristia come “fonte e culmine della vita cristiana”, ma quando soccombiamo alla strategia di Caino i nostri giovani non ci credono, perché noi non crediamo in noi stessi. Se credessimo senza riserve che l’Eucaristia è la fonte e il culmine della vita cristiana non comprometteremmo i riti e non ci adageremmo su un’adorazione apatica e vuota. Adoreremmo sapendo che il destino del mondo e lo stato della nostra anima dipendono da quello. San Bernardo di Chiaravalle ha detto: “Otterrai di più da un’unica Messa che dal distribuire tutti i tuoi beni ai poveri e compiere pellegrinaggi a tutti i luoghi più santi del cristianesimo”. Come sarebbe la nostra domenica mattina se ci credessimo davvero? E come sarebbe il resto della nostra vita?
San Giovanni Maria Vianney, che vestiva di stracci, dormiva sul pavimento e si nutriva di patate, quando si trattava degli oggetti da usare a Messa non riusciva a trovare niente che fosse abbastanza bello. Che differenza dallo spirito di Caino!
È iniziato l’Avvento, un periodo caratterizzato dall’accensione delle candele a simboleggiare il bisogno che la luce venga nella nostra oscurità. La strategia di Caino ha oscurato i nostri cuori? Ci ha derubati della gioia dell’adorazione? Ci ha resi insensibili all’appello di Gesù a unirsi a Cristo nel suo Santo Sacrificio? Ci ha fatto insistere sulla nostra volontà piuttosto che sul comandamento di Cristo?
Monsignor Fulton Sheen ci mostra la strada da seguire: “Immaginate Cristo Sommo Sacerdote che lascia la sagrestia del cielo per l’altare del Calvario. Ha già indossato le vesti della nostra natura umana, il manipolo della nostra sofferenza, la stola del sacerdozio, la casula della Croce. Il calvario è la sua cattedrale; la roccia del Calvario è l’altare; il sole che diventa rosso è la lampada del santuario; Maria e Giovanni sono gli altari laterali viventi; l’Ostia è il Suo Corpo; il vino è il Suo Sangue. Si erge come Sacerdote, e tuttavia è prostrato come Vittima. La Sua Messa sta per iniziare”.
Se avessimo inscritta questa visione nella nostra anima prima, durante e dopo ogni Messa, la stategia satanica di Caino non avrebbe potere su di noi. Non preferiremmo nulla alla gloria di Dio offertaci nella Messa e assicurata per noi in Paradiso. Speriamo che in questo Avvento possiamo vedere l’epoca della nostra illuminazione, rinunciando allo spirito di Caino e offrendo a Dio l’adorazione che merita.
 Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti

ERANO LE 4 DI POMERIGGIO...

Erano le 4 di pomeriggio quando Andrea incontrò Gesù. Nulla fu mai più come prima

Hai avuto occhio Andrea - pescatore e figlio di Giona come Pietro - a riconoscere per primo che quell'uomo era Dio!
Ma come hai fatto?

-E' salito sulla mia barca e siamo andati a pescare insieme...-

Come a dire: - Dio lo trovi sulla tua strada -


***


Il 30 novembre nel Martirologio romano si legge: Festa di sant’Andrea, Apostolo: nato a Betsaida, fratello di Simon Pietro e pescatore insieme a lui, fu il primo tra i discepoli di Giovanni Battista ad essere chiamato dal Signore Gesù presso il Giordano, lo seguì e condusse da lui anche suo fratello. Dopo la Pentecoste si dice abbia predicato il Vangelo nella regione dell’Acaia in Grecia e subíto la crocifissione a Patrasso. La Chiesa di Costantinopoli lo venera come suo insigne patrono. All’apostolo Andrea, infatti, spetta il titolo di Primo chiamato. Ed è commovente il fatto che, nel Vangelo di Giovanni, sia perfino annotata l’ora («le quattro del pomeriggio») del suo primo incontro e primo appuntamento con Gesù. Fu poi Andrea a comunicare al fratello Pietro la scoperta del Messia e a condurlo in fretta da Lui.
La sua presenza è sottolineata in modo particolare nell’episodio della moltiplicazione dei pani. Sappiamo inoltre che, proprio ad Andrea, si rivolsero dei greci che volevano conoscere Gesù, ed egli li condusse al Divino Maestro. Su di lui non abbiamo altre notizie certe, anche se, nei secoli successivi, vennero divulgati degli Atti che lo riguardano, ma che hanno scarsa attendibilità. Secondo gli antichi scrittori cristiani, l’apostolo Andrea avrebbe evangelizzato l’Asia minore e le regioni lungo il mar Nero, giungendo fino al Volga. È perciò onorato come patrono in Romania, Ucraina e Russia.
Commovente è la “passione” – anch’essa tardiva – che racconta la morte dell’apostolo, che sarebbe avvenuta a Patrasso, in Acaia: condannato al supplizio della croce, egli stesso avrebbe chiesto d’essere appeso a una croce particolare fatta ad X (croce che da allora porta il suo nome) e che evoca, nella sua stessa forma, l’iniziale greca del nome di Cristo. La Legenda aurea riferisce che Andrea andò incontro alla sua croce con questa splendida invocazione sulle labbra: «Salve Croce, santificata dal corpo di Gesù e impreziosita dalle gemme del suo sangue… Vengo a te pieno di sicurezza e di gioia, affinché tu riceva il discepolo di Colui che su di te è morto. Croce buona, a lungo desiderata, che le membra del Signore hanno rivestito di tanta bellezza! Da sempre io ti ho amata e ho desiderato di abbracciarti… Accoglimi e portami dal mio Maestro». Frasi oggi riportate in parte nei testi liturgici della festa del 30 novembre.

Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione.
E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: “Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen”. Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. Ed è questo autore a raccontare il martirio per crocifissione. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre.
Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, durante il Concilio Vaticano II, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso, attraverso il Cardinale Agostino Bea.  Un frammento di queste preziose Reliquie è ancora oggi conservate nella nostra Chiesa Parrocchiale di Gallicano.
Il Timone

Cosmolatria

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di Giacomo Biffi 
“Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii.
Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”.
A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso.
Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose.
Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario?…
Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore:
“Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).
“Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31).
“Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).
“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).
“Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).
“Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
“Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).
“Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).
“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).
“Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).
“Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).
“La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).
“Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).
“Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).
“Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).
“Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).
“Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).
“Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).
“Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).
“La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).
“La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).
“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).
Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone.
Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela?
Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando.
Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione.
Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.
“Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).
In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.
“Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38).
“Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).
“Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà.
Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata
Ciò che NON c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. NEPPURE c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa.
Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste.
L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.”

La prefazione del Papa a un libro di carcerati



(Paolo Pastorelli) "Pronto, sono Francesco. Ho pensato che possiamo fare più in fretta se la mia prefazione ve la detto al telefono... Ha carta e penna per scrivere?". Usando un termine abusato dalla politica, si potrebbe dire che Dio è anche Signore della semplificazione. 
Non hanno dubbi, infatti, gli autori che dietro al loro libro ci sia il Suo zampino e non tanto per ragioni evidenti, essendo un testo che, a modo suo, tratta di Lui ma proprio per le modalità con cui l' opera è nata.

Gli indizi sono disseminati lungo il percorso che ha portato a Cristo dentro (Itaca editore), libro firmato da Francesca Sadowski (medico chiavarese, direttore di Fisiosport a Villa Ravenna, presidente di Cdo), Pino Rampolla (fotografo) e don Eugenio Nembrini e che a torto si definirebbe solo fotografico, anche se racconta per immagini il rapporto di alcuni detenuti con la fede, attraverso i loro tatuaggi. «Un giorno Massimiliano - racconta Francesca Sadowski - un detenuto con il quale avevo avuto alcuni incontri, mi fece vedere che aveva corretto il proprio tatuaggio: da "Meglio schiavi all' inferno che padroni in Paradiso" aveva cambiato la scritta in "Meglio schiavi in Paradiso che padroni all' inferno". Mi disse che la prima frase non lo rappresentava più e che nel suo percorso di ricerca di sé, desiderava capovolgere quel messaggio che portava scritto sull' avambraccio». Fu un episodio molto significativo - racconta Francesca - anche tenuto conto della difficoltà in un ambiente come il carcere di «correggere» un tatuaggio, nato da una volontà profonda di invertire il senso della propria vita. Dopo quell' episodio e dopo aver letto tante lettere di Massimiliano e di altri detenuti, Francesca e don Eugenio si sono resi conto che noi stavamo guardando Dio all' opera e che sarebbe stato bello farlo vedere anche agli amici. E così una sera a Roma abbiamo proposto all' amico Pino Rampolla di fotografare i tatuaggi a tema religioso e di aiutarci a raccogliere, dove possibile, le testimonianze di chi aveva impresso sulla pelle e nel cuore la domanda di Dio». E qui arriva la telefonata del Papa a cui era stata chiesta un' introduzione buttando un po' il cuore oltre l' ostacolo. E così quel progetto nato come esperienza personale sul campo, ha preso invece le fattezze di un libro, che pagina dopo pagina racconta, con il linguaggio delle immagini, la faticosa ricerca di redenzione di uomini e donne che hanno commesso errori e che hanno visto nella fede l' ancora a cui aggrapparsi. Crocifissi, volti di Cristo, effigi di Maria, è ricco il campionario di preghiere incise sulla pelle, indelebili richieste di aiuto, che narrano in un intensissimo racconto comune la difficoltà di essere uomini e quindi fragili.
La Stampa

L'Udienza generale di Papa Francesco. Pregare per i vivi e per i morti.



L'Udienza generale di Papa Francesco. "Il ricordo dei fedeli defunti non deve farci dimenticare anche di pregare per i vivi, che insieme con noi ogni giorno affrontano le prove della vita"

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Con la catechesi di oggi concludiamo il ciclo dedicato alla misericordia. Ma le catechesi finiscono, la misericordia deve continuare! Ringraziamo il Signore per tutto questo e conserviamolo nel cuore come consolazione e conforto.
L’ultima opera di misericordia spirituale chiede di pregare per i vivi e per i defunti. Ad essa possiamo affiancare anche l’ultima opera di misericordia corporale che invita a seppellire i morti. Può sembrare una richiesta strana quest’ultima; e invece, in alcune zone del mondo che vivono sotto il flagello della guerra, con bombardamenti che giorno e notte seminano paura e vittime innocenti, questa opera è tristemente attuale. La Bibbia ha un bell’esempio in proposito: quello del vecchio Tobi, il quale, a rischio della propria vita, seppelliva i morti nonostante il divieto del re (cfr Tb 1,17-19; 2,2-4).
Anche oggi c’è chi rischia la vita per dare sepoltura alle povere vittime delle guerre. Dunque, questa opera di misericordia corporale non è lontana dalla nostra esistenza quotidiana. E ci fa pensare a ciò che accadde il Venerdì Santo, quando la Vergine Maria, con Giovanni e alcune donne stavano presso la croce di Gesù. Dopo la sua morte, venne Giuseppe di Arimatea, un uomo ricco, membro del Sinedrio ma diventato discepolo di Gesù, e offrì per lui il suo sepolcro nuovo, scavato nella roccia. Andò personalmente da Pilato e chiese il corpo di Gesù: una vera opera di misericordia fatta con grande coraggio (cfr Mt27,57-60)! Per i cristiani, la sepoltura è un atto di pietà, ma anche un atto di grande fede. Deponiamo nella tomba il corpo dei nostri cari, con la speranza della loro risurrezione (cfr 1 Cor 15,1-34). È questo un rito che permane molto forte e sentito nel nostro popolo, e che trova risonanze speciali in questo mese di novembre dedicato in particolare al ricordo e alla preghiera per i defunti. 
Pregare per i defunti è, anzitutto, un segno di riconoscenza per la testimonianza che ci hanno lasciato e il bene che hanno fatto. È un ringraziamento al Signore per averceli donati e per il loro amore e la loro amicizia. La Chiesa prega per i defunti in modo particolare durante la Santa Messa. Dice il sacerdote: «Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli, che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace. Dona loro,Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, la beatitudine, la luce e la pace» (Canone romano). Un ricordo semplice, efficace, carico di significato, perché affida i nostri cari alla misericordia di Dio. Preghiamo con speranza cristiana che siano con Lui in paradiso, nell’attesa di ritrovarci insieme in quel mistero di amore che non comprendiamo, ma che sappiamo essere vero perché è una promessa che Gesù ha fatto. Tutti risusciteremo e tutti rimarremo per sempre con Gesù, con Lui.
Il ricordo dei fedeli defunti non deve farci dimenticare anche di pregare per i vivi, che insieme con noi ogni giorno affrontano le prove della vita. La necessità di questa preghiera è ancora più evidente se la poniamo alla luce della professione di fede che dice: «Credo la comunione dei santi». È il mistero che esprime la bellezza della misericordia che Gesù ci ha rivelato. La comunione dei santi, infatti, indica che siamo tutti immersi nella vita di Dio e viviamo nel suo amore. Tutti, vivi e defunti, siamo nella comunione, cioè come un’unione; uniti nella comunità di quanti hanno ricevuto il Battesimo, e di quelli che si sono nutriti del Corpo di Cristo e fanno parte della grande famiglia di Dio. Tutti siamo la stessa famiglia, uniti. E per questo preghiamo gli uni per gli altri.
Quanti modi diversi ci sono per pregare per il nostro prossimo! Sono tutti validi e accetti a Dio se fatti con il cuore. Penso in modo particolare alle mamme e ai papà che benedicono i loro figli al mattino e alla sera. Ancora c’è questa abitudine in alcune famiglie: benedire il figlio è una preghiera; penso alla preghiera per le persone malate, quando andiamo a trovarli e preghiamo per loro; all’intercessione silenziosa, a volte con le lacrime, in tante situazioni difficili per cui pregare. Ieri è venuto a messa a Santa Marta un bravo uomo, un imprenditore. Quell’uomo giovane deve chiudere la sua fabbrica perché non ce la fa e piangeva dicendo: “Io non me la sento di lasciare senza lavoro più di 50 famiglie. Io potrei dichiarare il fallimento dell’impresa: me ne vado a casa con i miei soldi, ma il mio cuore piangerà tutta la vita per queste 50 famiglie”. Ecco un bravo cristiano che prega con le opere: è venuto a messa a pregare perché il Signore gli dia una via di uscita, non solo per lui, ma per le 50 famiglie. Questo è un uomo che sa pregare, col cuore e con i fatti, sa pregare per il prossimo. E’ in una situazione difficile. E non cerca la via di uscita più facile: “Che si arrangino loro”. Questo è un cristiano. Mi ha fatto tanto bene sentirlo! E magari ce ne sono tanti così, oggi, in questo momento in cui tanta gente soffre per la mancanza di lavoro; penso anche al ringraziamento per una bella notizia che riguarda un amico, un parente, un collega…: “Grazie, Signore, per questa cosa bella!”, anche quello è pregare per gli altri!. Ringraziare il Signore quando le cose vanno bene. A volte, come dice San Paolo, «non sappiamo come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). E’ lo Spirito che prega dentro di noi. Apriamo, dunque, il nostro cuore, in modo che lo Spirito Santo, scrutando i desideri che sono nel più profondo, li possa purificare e portare a compimento. Comunque, per noi e per gli altri, chiediamo sempre che si faccia la volontà di Dio, come nel Padre Nostro, perché la sua volontà è sicuramente il bene più grande, il bene di un Padre che non ci abbandona mai: pregare e lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi. E questo è bello nella vita: prega ringraziando, lodando Dio, chiedendo qualcosa, piangendo quando c’è qualche difficoltà, come quell’uomo. Ma il cuore sia sempre aperto allo Spirito perché preghi in noi, con noi e per noi.

Concludendo queste catechesi sulla misericordia, impegniamoci a pregare gli uni per gli altri perché le opere di misericordia corporale e spirituale diventino sempre più lo stile della nostra vita. Le catechesi, come ho detto all’inizio, finiscono qui. Abbiamo fatto il percorso delle 14 opere di misericordia ma la misericordia continua e dobbiamo esercitarla in questi 14 modi. Grazie.

Messaggio del Santo Padre per la 54.ma Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni

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Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]
Il 7 maggio 2017, IV Domenica di Pasqua, si celebra la 54.ma Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni sul tema: Sospinti dallo Spirito per la missione. Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Francesco invia per l’occasione ai Vescovi, ai sacerdoti, ai consacrati ed ai fedeli di tutto il mondo:
Messaggio del Santo Padre - Sospinti dallo Spirito per la missione
Cari fratelli e sorelle,
negli anni scorsi, abbiamo avuto modo di riflettere su due aspetti che riguardano la vocazione cristiana: l’invito a “uscire da sé stessi” per mettersi in ascolto della voce del Signore e l’importanza della comunità ecclesiale come luogo privilegiato in cui la chiamata di Dio nasce, si alimenta e si esprime. Ora, in occasione della 54a Giornata Mondiale (...)

Charles de Foucauld, il «fratello» di tutti



(Laura Badaracchi) A cento anni dalla sua morte, avvenuta il 1° dicembre 1916 nel deserto algerino di Tamanrasset, il beato Charles de Foucauld ha ancora un messaggio attualissimo da comunicare: «Anzitutto, il fulcro del suo carisma, che è la vita quotidiana di Nazaret come testimonianza del Vangelo nella semplicità, nell' impegno del lavoro, mantenendo sempre al centro l' umanità che ci lega gli uni agli altri, perché siamo tutti fratelli», ricorda padre Andrea Mandonico, 61 anni, della Società delle Missioni africane, istituto missionario nato nel 1856 a Lione. Dal 2012 è vicepostulatore della causa di canonizzazione di frère Charles, a cui lo lega una profonda sintonia: «Mentre frequentavo il liceo in Seminario a Crema, un compagno mi passò un libretto su di lui. 
Rimasi colpito: la sua esperienza mi suggeriva come vivere la fede. Su di lui è incentrata la mia tesi di dottorato in teologia spirituale». Il secondo aspetto del beato che parla agli uomini e alle donne del terzo millennio «è la vicinanza al prossimo. Amare Dio e il prossimo sono due aspetti inscindibili. Lui si è fatto vicino al popolo tuareg in Algeria, emarginato e povero, e suggerisce a noi oggi una vicinanza agli ultimi per vedere in loro la presenza di Gesù e in chiunque si affaccia alla nostra porta la presenza di Gesù. Fra l' altro, anche i musulmani vivono la regola dell' elemosina e dell' amore al povero». In terzo luogo, Charles de Foucauld «ci ha lasciato l' eredità del dialogo: è stato un uomo che ha dialogato con tutti, perché il dialogo smonta i pregiudizi reciproci e avvicina fino a trasformarsi in amicizia per vivere la fraternità. 
Lui l'ha vissuto fino alle estreme conseguenze: venne ucciso in una razzia. Ma era convinto dell' urgenza di stringere rapporti di fraternità e vincere la paura che ci separa gli uni dagli altri». Il bisogno di dialogo e amicizia emerge costantemente anche nelle oltre 7mila lettere (pubblicate quasi tutte in francese, non in italiano) scritte dal Beato Charles, che voleva essere «fratello universale e vivere in amicizia con tutti: giudei cristiani e musulmani», rimarca padre Mandonico, che sta tenendo per il secondo anno consecutivo un seminario su de Foucauld al Centro studi dialogo interreligioso della Pontificia Università Gregoriana, sul tema "Cristianesimo e islam: una fraternità possibile?". 
A dare il via libera alla beatificazione, il 13 novembre 2005, la guarigione inspiegabile della signora Giovanna Pulici, originaria di Desio. «Aveva un tumore osseo in fase terminale, alla fine degli anni Settanta. Curata a Milano, fu mandata a casa dai medici perché non c' era più nulla da fare. Il marito, grande devoto di frère Charles, gli disse: "Pensaci tu". La donna guarì improvvisamente, il giorno di Pasqua era in chiesa a ringraziare il Signore con sua famiglia». Molti anni dopo, nel 2000, il marito con le figlie era a Roma per l' Anno Santo: «Ha visto passare una piccola sorella di Gesù per strada e l' ha fermata chiedendole: "Quando vedremo fratel Carlo canonizzato?". 
Lei rispose che ancora non era beato, perché per far andare avanti la causa occorreva la certificazione di un miracolo. E lui: "Il miracolo ce l' ho io"». Lo stesso padre Andrea è stato impegnato nella raccolta della testimonianza, del dossier medico di Giovanna e della sua cartella clinica. E riferisce che proprio in occasione del centenario della morte di frère Charles «dalla Francia alcuni vescovi hanno inviato al Santo Padre lettere per chiedergli la canonizzazione anche senza un secondo miracolo, per la fama di santità». Oggi circa 20 associazioni e congregazioni fanno parte della famiglia spirituale del beato e si ispirano al suo carisma. 
Contemplazione, condivisione, universalità (Antonella Fraccaro) 
Le tre «espressioni di cura», scuola di fraternità sulle orme di frère Charles Contemplazione, condivisione, universalità: tre condizioni di vita, tre espressioni di cura. È così che desideriamo raccontare l' esperienza al seguito di frère Charles. Nate circa 40 anni fa, nella diocesi di Treviso, in ascolto degli appelli del Concilio Vaticano II, abbiamo voluto rispondere ai bisogni del tempo, formate dalla Parola e dai documenti della Chiesa. Una delle prime scelte che hanno segnato la nostra vita di donne religiose è stata quella di lavorare all' esterno della fraternità, per condividere "con" la gente la fatica e la bellezza della vita ordinaria (cercare casa, lavoro, far quadrare i conti a fine mese). Dalla spiritualità di Charles de Foucauld abbiamo assunto tre aspetti: la preghiera e la contemplazione, l' accoglienza e la condivisione, l' evangelizzazione secondo lo spirito di Gesù a Nazareth, vissuti in comunione con la Chiesa locale. 
Nel 2007 il nostro istituto religioso è stato riconosciuto come il ventesimo gruppo della grande Famiglia spirituale Charles de Foucauld. Siamo attualmente presenti con 11 fraternità locali in alcune Chiese del nord Italia e in Francia. La prima espressione di cura ereditata in questi anni dall' esperienza di frère Charles è la contemplazione. La meditazione del Vangelo e l' adorazione eucaristica silenziosa ci aiutano a guardare con gli occhi di Dio i piccoli e grandi eventi che accadono ogni giorno. Così scriveva Charles: la fede «fa vedere tutto sotto un' altra luce: gli uomini come immagini di Dio, che bisogna amare e venerare come ritratti del Beneamato… e le altre creature come cose che devono tutte quante, senza eccezione, aiutarci a ritrovare il cielo». Viviamo le nostre giornate animate da questo spirito, nel confronto fraterno, per discernere la volontà di Dio nelle diverse situazioni della vita, perché le nostre scelte siano il più possibile a servizio dei poveri. 
Lo sguardo contemplativo diventa motivo di fede e di speranza anche per quanti incontriamo, nel posto di lavoro o nelle comunità cristiane in cui siamo inserite. Guardare l' altro come un' immagine di Dio ci permette di vedere in lui o in lei una persona amata e salvata da Dio, da amare anzitutto così com' è. La condivisione è la seconda espressione che ereditiamo dall' esperienza di frère Charles. Quante volte, negli scritti, egli ringrazia per essere stato accolto: dalla vita, anche se essa si è mostrata presto ostile con la perdita precoce di entrambi i genitori; dalla fede, grazie alla religiosità dei familiari e dei fratelli musulmani incontrati nel Sahara e in Marocco. È stato accolto più volte e in diverse situazioni da figure ecclesiali, da amici militari, dal popolo tuareg. 
A sua volta, Charles ha praticato assiduamente l' accoglienza: in Trappa, a Nazareth e nel deserto, dedicando tutto se stesso, fino al termine della sua vita. Giunto da poco a Beni Abbès scriveva: «Questa sera, per la festa del santo Nome di Gesù, ho una grande gioia: per la prima volta dei viaggiatori poveri ricevono l' ospitalità sotto l' umile tetto della Fraternità del Sacro Cuore. Gli indigeni cominciano a chiamarla Khaoua (la Fraternità) e a sapere che i poveri hanno qui un fratello; non solo i poveri, ma tutti gli uomini». Le nostre fraternità sono aperte all' accoglienza, quotidiana e temporanea, e anche quando sono di modeste dimensioni, uno spazio per accogliere persone, di ogni cultura e nazionalità si trova sempre. In alcune nostre fraternità in Italia, dallo scorso anno, in seguito al ripetuto appello di papa Francesco, abbiamo aperto l' accoglienza anche a donne migranti, richiedenti asilo. Sono giovani, provenienti da varie parti dell' Africa, soprattutto dalla Nigeria (Benin City). 
Sono piene di forza di vita, ma nello stesso tempo ferite nella loro esistenza e fecondità, perché cresciute in contesti poveri culturalmente, in condizioni di violenza, di abuso, di sfruttamento. Vivere con loro, condividere la stessa mensa, gli stessi spazi, ha allargato gli orizzonti della nostra accoglienza e ci ha aperto a nuove forme di collaborazione e di gratuità, incoraggiandoci a sviluppare, insieme ad altre realtà civili ed ecclesiali, riflessioni e iniziative volte a offrire a queste donne prospettive di vita e di speranza. 
L' esperienza di una nostra fraternità, in un quartiere di Marsiglia, a prevalenza musulmano e multietnico, ci fa sperimentare che cosa significa essere "straniere tra stranieri". Tocchiamo con mano la bellezza della reciproca ospitalità, dell' ascolto e dell' accoglienza della ricchezza dell' altro, nei gesti di bontà e di cura donati e ricevuti. Sono vie quotidiane, piccole e nascoste, segni di speranza e di pace tra persone di diversa cultura e religione. Fin dalla sua presenza nel Sahara, Charles de Foucauld si era proposto di «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei, idolatri» a considerarlo «come loro fratello, il fratello universale». 
Egli voleva essere «il fratello di tutti gli uomini senza eccezione né distinzione » e desiderava che quanti lo avvicinavano, credenti e non credenti, diventassero, a loro volta, fratelli di altri uomini e donne. L' universalità è la terza prospettiva di vita ereditata al seguito di frère Charles. Per noi, la "fraternità universale" ha trovato, nel corso degli anni, diverse forme di espressione. Frequentare ambiti lavorativi diversi, essere inserite in ambienti sociali, culturali e religiosi differenti (quartieri popolari, rurali e cittadini), vivere in comunione con le comunità cristiane di appartenenza, sono manifestazioni della creatività e originalità dell' esperienza spirituale foucauldiana. L' incontro con la vicenda di frère Charles, fratello universale al seguito di Gesù di Nazareth, sia per ciascuno concreta possibilità per vivere relazioni di cura e benevolenza verso quanti incontriamo: relazioni pienamente umane poiché autenticamente evangeliche.

Avvenire

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Charles de Foucauld e il “mistero di Nazaret”
Vatican Insider 

(Crsitina Uguccioni) Giovedì 1° dicembre ricorre il centenario della morte del beato Charles de Foucauld, figura primaria della spiritualità cristiana recente, un uomo che – ha detto Papa Francesco – «forse come pochi altri, ha intuito la portata della spiritualità che emana da Nazaret»; un uomo il cui carisma – ha osservato il teologo Pierangelo Sequeri – «fu donato e destinato, in anticipo, per questo tempo della Chiesa». 
L’ufficiale, l’esploratore 
Charles de Foucauld nasce a Strasburgo, in Francia, il 15 settembre 1858. Nell’adolescenza subisce l’influsso dello scetticismo religioso e del positivismo scientifico che caratterizzano la sua epoca; ricordando quel tempo, scriverà: «Fin dall’età di 15 o 16 anni tutta la fede era sparita in me».  (...)

martedì 29 novembre 2016

30 Novembre 2016. Sant'Andrea Apostolo.

Referendum.Negri: cattolici proni al pensiero unico dominante

Monsignor Luigi Negri
Negri: cattolici proni al pensiero unico dominante
di Riccardo Cascioli

«Dal punto di vista educativo credo sia il momento più grave nella storia della Chiesa italiana da cento anni a questa parte. E mi colpisce negativamente l’insensibilità del mondo cattolico che accetta di essere ridotto nello spazio dell’assistenzialismo riservatogli dal pensiero unico dominante». Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, ha appena compiuto i 75 anni e, come da codice di diritto canonico, ha inviato la sua lettera di dimissioni. Ma non per questo rinuncia a comunicare la sua preoccupazione educativa che lo ha contraddistinto in tutti gli anni di sacerdozio e di ministero episcopale. E sono la cronaca e la realtà politica a stimolare questa riflessione. Nei giorni scorsi infatti è stata rilanciata la notizia della penetrazione delle sette sataniche nel mondo giovanile: ben 240mila adolescenti sono entrati in contatto con il mondo del satanismo, un dato allarmante, neanche nuovo, e che pure non sembra minimamente scuotere il mondo cattolico. «È un dato che mi è ben noto – dice monsignor Negri – perché già alcuni anni fa come Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna abbiamo pubblicato un libro su nuova religiosità e sette, che metteva in risalto la dimensione preoccupante del fenomeno».
Ma la vostra non era soltanto una indagine conoscitiva…
Infatti abbiamo messo a nudo la sostanziale debolezza del mondo cattolico e della pastorale giovanile ad accompagnare questi giovani nel confronto con quella che è una vera colonizzazione, per dirla con papa Francesco. 
Sono anni che circolano questi dati allarmanti sulla penetrazione del satanismo tra i giovani, ma anche la notizia rilanciata nei giorni scorsi ha registrato un’assenza di reazioni. Si direbbe che quella debolezza è rimasta tale.
La notizia è passata ancora una volta come se non avesse alcun rilievo, come se il mondo cattolico accettasse o comunque non si misurasse con una esperienza così terribile. La realtà è che quella del satanismo è una di quelle situazioni in cui i nostri giovani si imbattono e vengono lasciati soli. 
Sembra che ormai la Chiesa viva un disagio sulle grandi questioni della vita culturale e sociale del nostro Paese. Prevale il silenzio, il non intervento. Come in occasione del referendum sulla riforma costituzionale per cui si andrà alle urne domenica prossima.
È vero, c’è stata forse un po’ di informazione ma c’è stato il silenzio totale su alcune preoccupazioni che la Chiesa e il mondo cattolico non possono non avere in un passaggio nodale come questo che può significare molto in senso negativo per lo sviluppo della nostra vita sociale. Certo che è una scelta non facile perché si devono considerare tutti i fattori che sono in gioco e farli emergere con chiarezza nel dialogo con il nostro popolo. Però è indubbio che siamo di fronte alla eventualità non remota che si creino della condizioni di una vera e propria dittatura, la dittatura del pensiero unico dominante. 
Molti ritengono che in fondo questo sia l’obiettivo del premier Renzi.
A mio modo di vedere il pericolo più grave non è neanche quello di una dittatura di ispirazione catto-comunista per quanto il catto-comunismo nelle vicende politiche sulla famiglia e sulla vita ha dato una terribile prova di sé in questi anni. Per capire la gravità del momento bisogna anche rendersi conto che oggi l’alternativa a questo sono i grillini, che sono ancora peggiori. 
Non sembra che lei abbia molta fiducia in una rinascita dei cosiddetti moderati
La realtà ci dice che non esiste più una alternativa moderata, sembra una stagione inesorabilmente finita. Il rilancio ogni tanto di personaggi come Berlusconi, o i suoi compagni o colleghi o discepoli risulta veramente inconsistente. Nessuno di questi uomini ha la stoffa dello statista ma soprattutto sembra che manchi un discorso reale, che non può essere l’attenuazione del consumismo borghese e laicista. Dovrebbe essere invece un discorso alternativo sul piano della Dottrina sociale della Chiesa. Non ritengo che ciò che rimane del centrodestra sia in grado di un autentico rilancio della dottrina sociale della Chiesa.
Lei parla di Dottrina sociale, ma non sembra che neanche nella Chiesa questa goda di buona salute.
Eppure tocca alla comunità ecclesiale in tutti i suoi livelli e in tutte le sue articolazioni il recupero di una formazione del laicato, di un laicato che in alcune punte espressive non potrà sottrarsi alla responsabilità di entrare nel vivo del problema del bene comune dando il suo contributo originale e significativo. Bisogna formare una nuova classe politica ma non come un problema a sé, ma come termine ultimo di un cammino di educazione del popolo cristiano alla sua identità, al suo ethos, alle sue possibilità di scelte sociali, culturali e politiche. Il magistero della Chiesa negli ultimi decenni, compreso il magistero di papa Francesco, ha sottolineato più volte questa responsabilità educativa. Una Chiesa che non educa è una Chiesa che sostanzialmente accetta l’inesistenza o comunque l’inincidenza a livello culturale, sociale e politico. 
Non sembra però che questa responsabilità educativa originale sia molto percepita, neanche dal mondo cattolico impegnato nel sociale, che sembra anzi appiattito sulla mentalità comune.
Io credo che ci troviamo in una situazione gravissima, il momento più grave nella storia della Chiesa italiana da cento anni a questa parte. Quel che mi colpisce negativamente è che sembra che la maggior parte del mondo cattolico sia insensibile e accetti invece di schierarsi nello spazio che viene concesso da questo pensiero unico dominante, da questo governo unico dominante che ci restringe negli spazi dell’assistenzialismo cattolico. Anche il mondo anti-cattolico vede bene che qualcuno sollevi la struttura delle istituzioni da questi impegni cui non riesce a fare fronte anche solo per difficoltà economiche. Ma l’assistenzialismo finisce per essere una connivenza con il pensiero unico dominante, che certamente non è cattolico e non è neanche aperto al dialogo serio con il cattolicesimo.