giovedì 22 dicembre 2016

La risposta al contagio

Decorazione all’ingresso della Kaiser Wilhelm-Gedächtniskirche (Chiesa memoriale dell’imperatore Guglielmo) sulla piazza dell’attentato.
Decorazione all’ingresso della Kaiser Wilhelm-Gedächtniskirche
(Chiesa memoriale dell’imperatore Guglielmo) sulla piazza dell’attentato.

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di Enzo Bianchi
La lucida follia omicida ha seminato morte al cuore dell’Europa, in quella Berlino che nel 1989 era diventata il simbolo della caduta di ogni muro e della riconciliazione tra due mondi confinanti ma ideologicamente agli antipodi. E ha colpito in prossimità della festività religiosa più sentita in occidente, forse l’unica ancora capace di richiamare tutti i membri di una società secolarizzata a sentimenti di pace e di bontà. Ma stiamo attenti a leggere la simbolica di questo atto terroristico in chiave di scontro religioso. L’attentato di Berlino è molto più simile a quello di Nizza nel luglio scorso – non solo per le modalità di esecuzione – che non ai tanti perpetrati contro obiettivi dichiaratamente cristiani. L’attentatore, infatti, ha scelto un luogo e un momento che garantissero al contempo un numero potenzialmente elevato di vittime e una forte valenza simbolica, capace di sconvolgere i sentimenti occidentali: a Nizza i festeggiamenti civili legati alla laicità per eccellenza, quella rappresentata dalla triade libertà-fraternità-uguaglianza, patrimonio universale di cui l’illuminismo e la rivoluzione francese si sono fatti gli araldi per antonomasia. A Berlino la calamita per l’attentatore non è stato il Natale in sé, ma la sua commercializzazione diffusa: non certo la celebrazione del mistero cristiano dell’incarnazione, bensì la sua riduzione – sovente lamentata anche dagli stessi cristiani – a gioioso mercato di doni e di regali, di profitti e di buoni sentimenti a basso prezzo.
Ben diversi, e quelli sì manifestamente anticristiani, sono stati altri atti di terrore, altri tragici massacri, come quello contro un inerme anziano prete francese intento a celebrare messa o le stragi di cristiani in Egitto compiute all’uscita dei fedeli dalla messa di Natale o tra le navate di una chiesa durante le celebrazioni liturgiche in giorno di domenica.
Il terrore e la morte seminati a Berlino suscitano allora, assieme all’orrore, due tipi di riflessioni quanto mai urgenti, l’una concernente i cittadini europei indistintamente e l’altra particolarmente cogente per i cristiani. Colpire a morte il maggior numero di persone mentre vivono un momento di festa condivisa – come a Parigi, Nizza o Berlino – vuole minare alle radici la convivenza civile, fatta di quotidianità, di lavoro e di svago, di semplicità dello stare insieme e di coesione nei momenti difficili: è quell’Europa sociale e solidale che condivide alcuni valori di fondo e che in questi ultimi anni è stata gravemente ferita da un crisi non solo economica ma anche e soprattutto di etica. È l’Europa dell’integrazione e delle garanzie sociali, delle libertà individuali e dei diritti comuni, dei doveri civili e delle lotte per la giustizia e la pace: un’Europa che purtroppo vediamo sfarinarsi giorno dopo giorno, in arroccamenti egoistici e in calcoli particolaristici. L’unica risposta degna della storia e delle tradizioni europee ed erede sapiente delle tragedie che hanno attraversato il nostro continente è quella che rifiuta le armi della guerra e della violenza e che si affida alla responsabilità dei propri cittadini e alla loro capacità di dialogo civile: continuare in ciò che i nostri principi considerano giusto non è testardaggine, ma paziente e feconda resistenza contro quanto troppo spesso abbiamo sperimentato come mortifero. Come ha coraggiosamente ribadito ieri la cancelliera tedesca: “Continueremo a vivere uniti, aperti, liberi … continueremo a essere un paese ospitale”.
Nella chiesa luterana della memoria, adiacente al luogo della strage, cristiani, musulmani e persone non religiose si sono ritrovate insieme in un silenzio che esprime un convinto no alla follia della violenza cieca che uccide e semina terrore: senza tentazioni di vendetta, ma saldi nei valori della convivenza civile segnano la vittoria sull’odio irrazionale, sulla disumanità che oggi sembra imporsi. Non bastano ragioni economiche per fare l’Europa: ci sono ragioni etiche e spirituali, di umanesimo vissuto che ne costituiscono l’ossatura e possono renderla un corpo unito, vivo, ospitante.
E qui si innesta la riflessione che coinvolge più da vicino i cristiani: dopo aver a lungo rivendicato le “radici cristiane dell’Europa”, si fa sempre più urgente l’impegno a discernere tra secolari sedimenti culturali e istanze radicalmente evangeliche, tra consuetudini che hanno conservato solo l’esteriorità di un’appartenenza e prassi quotidiane di carità cristiana, tra immagini oleografiche e stereotipate e cura concreta per il prossimo e il bisognoso. Nei giorni precedenti la strage, papa Francesco con candore per nulla ingenuo ebbe a dire: “Parlo sempre di poveri e di misericordia, ma non è una malattia!”. Non di malattia si tratta ma di eco schietta del vangelo. Per un cristiano, infatti, malattia è non vedere i poveri, epidemia è non usare misericordia, contagio è chiudere il cuore di fronte al bisognoso. Questa è la risposta che la fede e le opere cristiane possono dare anche oggi a un’Europa ferita nei suoi sentimenti più profondi.

Pubblicato su: Avvenire