lunedì 19 dicembre 2016

Per fare scienza ci vuole fede.

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Per gentile concessione delle Edizioni Lindau, pubblichiamo alcuni stralci del nuovo saggio di Rodney Stark False testimonianze. Come smascherare alcuni secoli di storia anticattolica, arrivato in questi giorni in libreria (leggi anche la nostra intervista all’autore dopo l’uscita del volume negli Stati Uniti). Il testo originale è corredato da numerose note in cui Stark riporta con scrupolo le fonti a cui fanno riferimento le sue affermazioni e citazioni, e che qui non sono riprodotte per ragioni di spazio.
La scienza si sviluppò soltanto nell’Europa cristiana perché soltanto l’Europa medievale credeva che la scienza fosse possibile e auspicabile. E alla base di questa convinzione c’era la sua immagine di Dio e della creazione. Affermazione clamorosamente pronunciata, nel 1925, di fronte a un selezionato pubblico di studiosi: si trattava delle Lowell Lectures, tenute a Harvard dal grande filosofo e matematico inglese Alfred North Whitehead (1861-1947), che spiegava come la scienza si fosse sviluppata in Europa grazie alla diffusa «fede nelle possibilità della scienza […], derivante dalla teologia medievale». L’affermazione sconcertò non solo i presenti, ma in generale gli intellettuali occidentali non appena vennero pubblicati i testi delle conferenze. Come poteva questo pensatore celebre in tutto il mondo, coautore con Bertrand Russell del fondamentale Principia Mathematica (1910-13), non sapere che la religione è l’inflessibile nemica della scienza? In realtà, Whitehead sapeva bene che non era così!
Whitehead aveva riconosciuto che la teologia cristiana era stata essenziale per l’ascesa della scienza, esattamente come le teologie non-cristiane avevano represso l’avventura scientifica nel resto del mondo. Spiegava:
«Il più grande contributo del medievalismo alla formazione del movimento scientifico [fu] l’incrollabile convinzione […] che ci fosse un segreto, un segreto che può essere svelato. In che modo questa convinzione si è radicata così profondamente nella mente europea? […] Dovette derivare dall’insistenza medievale sulla razionalità di Dio, concepito come dotato dell’energia personale di Jehovah e della razionalità di un filosofo greco. Ogni dettaglio fu indagato e ordinato: la ricerca all’interno della natura poteva portare soltanto alla giustificazione della fede nella razionalità».
Ovviamente Whitehead stava semplicemente riassumendo quello che era stato detto da un buon numero di grandi scienziati del passato. Descartes giustificava la sua ricerca delle «leggi» della natura basandosi sul fatto che queste leggi devono esistere poiché Dio è perfetto e dunque «agisce ove possibile in un modo costante e immutabile». Insomma, l’universo funziona in base a regole o leggi razionali. Il grande scolastico medievale Nicola d’Oresme diceva che la creazione divina «è molto simile a quella di un uomo che costruisce un orologio e lo lascia andare, perché continui il suo moto da solo». Inoltre, poiché Dio ci ha dato la ragione, dovremmo essere in grado di scoprire le regole da lui stabilite.


Il dovere di scoprire il segreto
Anzi, molti scienziati del passato si sentivano moralmente obbligati a cercare di scoprire questi segreti, esattamente come aveva sottolineato Whitehead. Il grande filosofo inglese concludeva le sue osservazioni facendo notare come le immagini di Dio e della creazione, presenti in molte religioni non-europee e soprattutto asiatiche, fossero troppo impersonali o troppo irrazionali per aver alimentato la scienza. In natura, qualsiasi particolare «evento potrebbe essere dovuto alla decisione di un dispotico e irrazionale» dio, o potrebbe essere stato causato da «qualche impersonale, imperscrutabile origine delle cose». Non c’è la stessa fiducia che si ha nella intelligibile razionalità di un essere personale. Si dovrebbe tener presente che, date le comuni origini, il concetto giudaico di Dio è idoneo a favorire la scienza quanto il concetto cristiano. Ma, in questo periodo, in Europa gli ebrei erano una minoranza piccola, sparpagliata e spesso perseguitata e dunque non contribuirono all’ascesa della scienza, anche se gli ebrei hanno primeggiato in campo scientifico sin dal momento della loro emancipazione nel XIX secolo.
Al contrario, molte religioni estranee alla tradizione giudaico-cristiana non ipotizzano alcuna creazione. Ritengono che l’universo sia eterno, senza inizio o scopo; non essendo mai stato creato, non ha creatore. In base a questo punto di vista, l’universo è un supremo mistero, incoerente e (forse) arbitrario. Per coloro che la pensano così, le uniche vie verso la conoscenza sono la meditazione o l’ispirazione: non c’è nulla su cui ragionare. Ma se l’universo è stato creato secondo norme razionali da un creatore perfetto e razionale, allora dovrebbe svelare i suoi segreti alla ragione e all’osservazione. Di qui l’ovvia verità che la natura è un libro fatto per essere letto.
L’obiettivo di Keplero
Naturalmente i cinesi «avrebbero respinto con scherno una simile idea, in quanto troppo ingenua per la impercettibilità e la complessità dell’universo così come da loro concepito», spiegava Joseph Needham (1900-95), illustre storico di tecnologia cinese dell’università di Oxford. Quanto ai greci, anche molti di loro consideravano l’universo eterno e non creato – Aristotele bollava l’idea «che l’universo sia spuntato a un certo punto nel tempo […] come impensabile». Anzi, di certo nessuna delle tradizionali divinità greche sarebbe stata capace di crearlo. Ma, peggio ancora, i greci insistevano nel trasformare il cosmo, e più in generale gli oggetti inanimati, in esseri viventi. Di conseguenza attribuivano molti fenomeni naturali a motivi, non a forze inanimate. Pertanto, secondo Aristotele, i corpi celesti si muovevano in cerchio per la loro tendenza a farlo e gli oggetti cadevano a terra «per la loro innata attrazione verso il centro del mondo».
Nel caso dell’islam, la concezione ortodossa di Allah è contraria alla ricerca scientifica. Nel Corano non si accenna minimamente al fatto che Allah abbia messo in moto la sua creazione e poi l’abbia lasciata andare da sola. Semmai si ipotizza che spesso intervenga nel mondo e cambi le cose a suo piacimento. Pertanto, nel corso dei secoli molti dei più autorevoli studiosi islamici hanno ritenuto che tutti i tentativi di formulare le leggi naturali siano blasfemi, in quanto sembrerebbero negare la libertà d’azione di Allah. E dunque, la loro immagine di Dio e dell’universo ostacolò gli sforzi scientifici di cinesi, antichi greci e musulmani.


Fu soltanto perché credevano in un Dio, creatore intelligente di un universo razionale, che gli europei perseguirono i segreti della creazione. Keplero affermava: «L’obiettivo principale di tutte le investigazioni del mondo esterno dovrebbe essere scoprire l’ordine razionale e l’armonia che Dio gli ha dato e che ci ha rivelato nel linguaggio della matematica». Analogamente, nelle sue ultime volontà il grande chimico Robert Boyle (1627-91) scriveva ai membri della Royal Society di Londra augurando loro di continuare ad avere successo nel «lodevole tentativo di scoprire la vera natura delle Opere di Dio».
Due metodi diversi
Forse l’aspetto più notevole dell’ascesa della scienza non è che i primi scienziati cercassero le leggi naturali, fiduciosi della loro esistenza, ma che le abbiano trovate! Si potrebbe dunque sostenere che l’affermazione secondo cui l’universo ebbe un Progettista Intelligente, sia la più fondamentale di tutte le teorie scientifiche e che sia stata sottoposta con successo a prove empiriche più e più volte. Perché, come in un’occasione fece notare Albert Einstein (1879-1955), sull’universo la cosa più incomprensibile è che sia comprensibile: «A priori, ci si aspetterebbe un mondo caotico che la mente non può cogliere in alcun modo […] Quello è il “miracolo” che viene costantemente avvalorato a mano a mano che la nostra conoscenza si amplia». E quello è il “miracolo” che dimostra una creazione guidata da intenzione e razionalità.
Ovviamente, l’ascesa della scienza causò qualche conflitto con la Chiesa cattolica, così come con i primi protestanti. Il che però non sminuisce minimamente il ruolo essenziale della concezione cristiana di Dio nel giustificare e motivare la scienza; riflette semplicemente il fatto che molti leader cristiani non colsero le importanti differenze tra scienza e teologia per quanto riguarda il campo di applicazione e il modo di procedere. Ovvero i teologi cristiani cercavano di dedurre la natura e le intenzioni di Dio dalle Scritture; gli scienziati cercavano di scoprire la natura della creazione di Dio con mezzi empirici. In linea di principio i due tentativi non entrano in conflitto, ma, in pratica, talvolta i teologi hanno avuto la sensazione che una posizione scientifica fosse un attacco alla fede (e in effetti alcuni scienziati moderni hanno attaccato la religione, seppure su basi false). Inizialmente, si ebbe un’accesa disputa perché i teologi, sia protestanti che cattolici, erano restii ad accettare che la Terra non fosse il centro dell’universo (…). Sia Lutero che il papa respinsero la tesi copernicana, e tentarono di sconfiggerla, ma i loro sforzi ebbero un impatto limitato e non furono mai molto vigorosi.
Sfortunatamente questo modesto conflitto è stato trasformato in un evento di enorme portata da coloro che volevano dimostrare a tutti i costi che la religione è un’acerrima nemica della scienza, facendo di Galileo un eroico martire della fede cieca. Voltaire scriveva: «Il grande Galileo, all’età di ottant’anni, trascorreva tristemente i suoi giorni nei torrioni dell’Inquisizione, perché aveva dimostrato con prove incontestabili il moto della Terra». Il polemico Giuseppe Baretti (1719-1789) aggiungeva che Galileo fu «torturato per aver detto che la Terra si muove».
Il Dialogo dei massimi sistemi
È vero che Galileo fu convocato dall’Inquisizione romana e accusato di insegnare l’eresia secondo cui la Terra si muove – attorno al Sole o in qualche altro modo. E fu obbligato a ritrattare. Ma non fu mai imprigionato né torturato; fu condannato a comodi arresti domiciliari, dove morì a 78 anni. Ma soprattutto, a metterlo nei guai con la Chiesa non furono tanto le sue opinioni scientifiche quanto la sua arrogante doppiezza. Ecco cosa accadde.
Molto prima di diventare papa Urbano VIII (regnò dal 1623 al 1644), mentre era ancora cardinale, Maffeo Barberini conobbe e provò simpatia nei confronti di Galileo. Nel 1623, quando pubblicò Il Saggiatore, Galileo dedicò il libro al Barberini (lo stemma della famiglia Barberini compariva sul frontespizio del libro) e si diceva che il nuovo papa si fosse rallegrato dei molti feroci insulti diretti contro svariati studiosi gesuiti. (…)
È importante collocare la questione di Galileo nel contesto storico. All’epoca, la Riforma aveva una posizione di sfida nell’Europa settentrionale, la Guerra dei Trent’Anni infuriava e la Controriforma cattolica era al culmine. In parte in risposta alle accuse protestanti secondo cui la Chiesa non si atteneva alla Bibbia, i limiti della teologia consentita furono ristretti, cosa che portò a una maggiore interferenza della Chiesa nelle dispute accademiche e scientifiche. Urbano e gli altri ecclesiastici di spicco non avevano tuttavia alcuna intenzione di calcare la mano sugli scienziati; al contrario proponevano scappatoie per evitare i conflitti tra scienza e teologia separando i due campi. (…)
E questo era esattamente quello che il papa chiedeva a Galileo: che, nelle sue pubblicazioni, ammettesse che «nella scienza naturale non si possono ottenere conclusioni definitive. Nella sua onnipotenza, Dio poteva causare un fenomeno naturale in svariati modi e pertanto era arrogante per qualsiasi filosofo sostenere di aver identificato l’unica soluzione». Sembrava un’agevole scappatoia. E vista la propensione di Galileo ad attribuirsi falsamente il merito di invenzioni altrui, come il telescopio, e di verifiche empiriche che probabilmente non aveva mai fatto, come lasciar cadere pesi dalla torre di Pisa, non sembra che adeguarsi alle richieste del papa avrebbe violato il suo standard etico. Ma sfidare il papa in un modo piuttosto offensivo era assai più in linea con l’ego di Galileo.
Nel 1632, Galileo pubblicò il suo atteso Dialogo dei massimi sistemi. Anche se apparentemente l’obiettivo del libro era offrire una spiegazione del fenomeno delle maree, i due sistemi in questione erano quello tolemaico, in cui il Sole gira attorno alla Terra, e quello copernicano, in cui la Terra gira attorno al Sole. I protagonisti del dialogo erano tre, due filosofi e un profano. Era il profano, Simplicio, a esporre le opinioni tradizionali a sostegno di Tolomeo e già il nome era significativo di per sé: tra Simplicio e «sempliciotto» il legame è evidente. Per giunta, consentiva a Galileo di sfruttare la tradizionale tecnica del bersaglio facile per ridicolizzare gli avversari. A dire il vero, Galileo inserì la clausola suggerita dal papa, ma la mise in bocca a Simplicio, sconfessandola.
Cosa rivela il caso Galilei
Il libro suscitò un grande clamore e, comprensibilmente, il papa si sentì tradito, anche se Galileo sembrò non essersi reso conto di questo e continuò ad accusare gesuiti e docenti universitari di essere la causa dei suoi guai. Ciononostante il papa usò il proprio potere per proteggerlo, evitandogli una pesante punizione. Sfortunatamente la sfida di Galileo portò la Chiesa della Controriforma a una generalizzata limitazione della libertà intellettuale, che altrimenti potrebbe non esserci mai stata. Ironia della sorte, gran parte di quello che Galileo descriveva nel suo libro come verità scientifica non lo era affatto; per esempio, la teoria delle maree era assurda, come fece notare Albert Einstein nella prefazione a una traduzione del 1953 del celebre testo di Galileo. (…)
E dunque, cosa rivela il caso di Galileo? Di certo dimostra che potenti organizzazioni spesso abusano del loro potere per imporre le proprie idee, un aspetto negativo certamente non limitato a organizzazioni religiose: in Unione Sovietica, il regime comunista mise fuori legge la genetica di Mendel basandosi sul fatto che tutte le caratteristiche sono causate dall’ambiente. Ma dimostra anche che Galileo non era una sorta di ingenuo intellettuale, vittima di una manciata di bigotti ignoranti; quegli stessi “bigotti” che lasciarono indisturbati decine di altri illustri scienziati, molti di loro residenti in Italia!
Comunque, questo celebre caso non modifica per nulla il fatto che l’ascesa della scienza ebbe le proprie radici nella teologia cristiana. Di certo, pur con tutte le sue prese di posizione, Galileo rimase profondamente religioso (…).
La moderna crociata atea
Anche se il cristianesimo fu essenziale per lo sviluppo della scienza occidentale, questa dipendenza non esiste più. Una volta debitamente messa in moto, la scienza è stata in grado di reggersi da sola e la convinzione, che i segreti della natura cederanno di fronte alla continua ricerca, attualmente è un articolo di fede laica tanto quanto un tempo lo era di fede cristiana. L’ascesa di un establishment scientifico indipendente ha fatto nascere nuove tensioni tra teologia e scienza. Se i Padri della Chiesa erano guardinghi circa le implicazioni della scienza nei confronti della teologia, oggi esiste un gruppo militante di atei, soltanto alcuni dei quali scienziati, che dedicano un notevole impegno ad attaccare la religione in quanto assurda superstizione (…). Non riescono a capire che la scienza si limita al mondo naturale, empirico, e non è in grado di dire nulla su un mondo spirituale, non empirico – tranne negarne l’esistenza.
Sorprendentemente, tra i più illustri di questi atei arrabbiati parecchi pensano che esseri semidivini si siano evoluti in lontani pianeti. Come spiega Richard Dawkins in The God Delusion (L’illusione di Dio, 2006): «Molto probabilmente ci sono civiltà aliene che sono superumane, al punto da essere simili a dio in modi che vanno oltre qualunque cosa un teologo possa immaginare».

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