martedì 31 gennaio 2017

Washington, domenica scorsa la brezza soave di Elia


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di Federica Paparelli, da La Croce quotidiano del 31 gennaio 2017

Cambia il vento, per il mondo prolife, e suona come le parole di Mike Pence, vicepresidente USA...

  Secondo un sondaggio del Marist College for Public Opinion, quasi tre americani su quattro, compresa una maggioranza pro-choice, sono favorevoli ad imporre restrizioni alla pratica dell’aborto. L’idea, quindi, che l’aborto debba essere “on demand”, cioè in qualsiasi momento della gravidanza, anche al nono mese, non trova grande sostegno neanche fra la popolazione che si dice pro-choice: in base a quanto riportato dal sondaggio, commissionato dalla Fondazione Cavalieri di Colombo, un’istituzione cattolica che opera negli Stati Uniti e nel mondo dal 1882, solo il 26% di chi è favorevole all’aborto appoggia posizioni così estreme. Eppure non sembrerebbe così, a guardare la risonanza mediatica che ha avuto la marcia “femminista” del giorno seguente l’inaugurazione presidenziale: “il mio corpo, la mia scelta”, gridavano dai teleschermi gruppi di marciatrici con in testa cappellini di dubbia eleganza. Potrebbe essere un ritratto credibile della società americana se non fosse che, da 44 anni a questa parte, gli stessi media sistematicamente mancano di riportare l’altra faccia della medaglia: la March for Life, un evento che ogni anno dal 1974 ad oggi, in occasione dell’anniversario della sentenza Roe v. Wade che ha legalizzato l’aborto negli USA, raccoglie nella capitale americana centinaia di migliaia di persone. E anche quando lo riportano, è una guerra di numeri, anche perché non esistono stime ufficiali, dal momento che il National Park Service - la polizia incaricata di sorvegliare il Washington Mall dove si tiene la marcia – da anni non rilascia più informazioni di questo tipo, con l’intenzione di mitigare le controversie, ma ottenendo l’effetto esattamente opposto: l’anno scorso, il New York Times titolava “Centinaia sfidano la neve alla March for Life”, mostrando un’obiettività pari solo a quella della Pravda. Quest’anno, però, è stato impossibile ignorarla. Per la prima volta nella sua storia, la marcia che celebra e difende la vita ha accolto sul palco degli oratori nientemeno che il vice-presidente Mike Pence, appena preceduto da Kellyanne Conway, consigliere speciale del Presidente Trump. L’invio di una rappresentanza così significativa dell’amministrazione Trump ha letteralmente costretto i media pro-aborto a dedicare un qualche spazio all’evento. Una mossa consapevole quella del Presidente americano, il quale un paio di giorni prima, in un’intervista del canale ABC News, aveva 
rimproverato il cronista che lo provocava chiedendogli se aveva sentito dalla Casa Bianca la protesta “femminista”: “No, non l’ho sentita. C’era molta gente, ma avrete molta gente anche venerdì [alla March for Life, n.d.r.]. Non so se ci saranno più o meno persone, alcuni dicono che saranno di più. Tutta gente pro-life e dicono che la stampa non ne parla”. L’ABC ha cancellato questo scambio dalla trascrizione dell’intervista, ma è stato ritrasmesso da numerosi network, rimbalzando anche sui social media. Il risultato è stato, secondo il Media Research Center, che la marcia per la vita ha ricevuto uno spazio mediatico 129 volte superiore rispetto all’anno scorso. Ogni anno la marcia ha un tema diverso, “The power of one”, il potere del singolo, era quello di quest’anno. È il potere che ognuno di noi ha di fare la differenza nella lotta a difesa dei più deboli, nella propria famiglia, a scuola, fra gli amici, nel posto di lavoro: l’esempio più eclatante, quello del deputato Henry Hyde, che nel 1976 propose e fece approvare un provvedimento legislativo che impedisce ai fondi federali di essere impiegati direttamente per pratiche abortive. Ed anche, e forse è l’aspetto più importante, l’impatto che può avere nel mondo anche il più piccolo di noi, quanta differenza può fare nella vita delle persone che un bambino nasca o meno. “Lo sapevate che Steve Jobs era stato adottato?” ha detto dal palco la presidente del comitato organizzatore, Jeanne Mancini. “Pensate a quanto diversa sarebbe la nostra vita senza i nostri iPhone.” Un messaggio potente, che porta a riflettere su quanto insostituibile sia ogni essere umano. L’intervento della Conway, cattolica, donna di successo, madre di quattro figli e aderente alla March for Life fin dall’età della ragione, ha preso spunto da uno dei capisaldi della cultura civile americana: “Non è un caso se il primo dei diritti elencati nella Dichiarazione d’Indipendenza americana è proprio quello alla vita”. Un messaggio di solidarietà il suo, di vero femminismo: “Ogni donna che si trova ad affrontare una gravidanza inaspettata deve sapere che non è sola. Non è giudicata. Anche lei è protetta, accudita e celebrata. Voglio essere chiara: ti sentiamo, ti vediamo, ti rispettiamo e non vediamo l’ora di lavorare insieme a te”. Parole che correggono di molto i toni dello stesso presidente Trump, il quale, in una delle sue prime interviste dopo l’annuncio della candidatura, aveva fatto uno scivolone dichiarando di ritenere necessaria una punizione per le madri che abortiscono. Il vice-presidente Pence si è invece rivolto agli 800mila presenti (secondo EWTN, 700mila secondo la CNN) con una verità incontrovertibile: “Oggi, grazie a voi e alle migliaia presenti in marce simili in tutto il Paese, la vita è tornata a vincere in America”. Lo provano l’elezione di una maggioranza pro-life al Congresso, insieme a quella di un Presidente che all’indomani del suo insediamento ha ripristinato le disposizioni di Mexico City (dalla città in cui furono annunciate la prima volta dal presidente Reagan nel 1984): una policy che sottrae tutti i fondi governativi alle ONG che sponsorizzano l’aborto 
nel mondo. Perché le organizzazioni perdano il contributo federale basta anche solo il fatto di proporre l’aborto come opzione, anche se poi non siano esse stesse ad eseguirlo. Una norma coraggiosa, ovviamente osteggiata dalle associazioni che si autonominano paladine dei diritti umani, così umani che il bambino concepito non è considerato persona e non ha diritti. Una normabavaglio, la definiscono, perché impedisce - giustamente - di propagandare l’aborto a spese del contribuente americano. Se vogliono diffondere la cultura di morte nel mondo, che lo facciano con i soldi di qualcun altro, il governo non glielo impedisce di certo. Pence ha poi continuato rinnovando la promessa elettorale di tagliare completamente i fondi federali a sostegno dell’aborto e delle cliniche abortiste, per dirottare il mezzo miliardo di dollari verso i Community Health Centers, che non eseguono aborti. Secondo l’associazione pro-life Alliance Defending Freedom, nel territorio statunitense sono state identificate 13.540 cliniche che offrono servizi per la salute delle donne, salute intesa in senso olistico, e che potrebbero essere potenziali destinatarie dei fondi oggi riservati alle sole 665 cliniche di Planned Parenthood, un numero risibile in proporzione, giustificato solo dall’intensa attività di lobbying condotta dal colosso abortista in otto anni di amministrazione Obama. In ultimo, il vicepresidente ha annunciato per questa settimana la nomina di un giudice conservatore alla Corte Suprema, il quale dovrà prendere il posto del compianto Antonin Scalia, scomparso nel febbraio dello scorso anno, uomo di fede, difensore della vita e della famiglia. Una nomina chiave, specialmente considerando i rischi a cui è esposta la libertà religiosa e di espressione in America in questi ultimi anni. Nella parte conclusiva del suo intervento, il cattolico Pence ha usato parole certamente ispirate dal suo personale cammino di fede: “Fate che questo sia un movimento conosciuto per l’amore, non la rabbia. Fate che questo movimento sia conosciuto per la compassione, non lo scontro. Quando si tratta di questioni del cuore, non c’è niente di più forte della dolcezza. Credo che continueremo a conquistare i cuori e le menti della generazione in arrivo se prima i nostri cuori si spezzeranno per le giovani madri e per i loro nascituri, e se ognuno di noi farà tutto ciò che può per venir loro incontro là dove sono, con generosità e non con giudizio. Per guarire la nostra terra e riportare una cultura della vita dobbiamo continuare ad essere un movimento che coinvolge tutti, si occupa di tutti e mostra rispetto per la dignità e il valore di ogni persona”. Il valore di “ogni” persona: in un Paese squarciato dagli slogan di “Black lives matter” (le vite dei neri hanno valore), a cui si oppongono in risposta quelli di “Blue lives matter” (le vite dei poliziotti hanno valore), queste parole risuonano di un significato particolare. Un significato che venerdì abbiamo portato sugli striscioni lungo la Constitution Avenue fino alla Corte Suprema, nonostante le sferzate del vento freddo, per qualche 
istante anche baciati dal sole. Cantando, pregando, non urlando. Un popolo formato da adulti, giovani, bambini, famiglie, passeggini, sedie a rotelle, laici, religiosi, ricchi, poveri, cattolici, ortodossi, anglicani, musulmani, uomini, donne, femministe e non femministe. La pace comincia dal rispetto per la vita, tutta quanta, tutta intera. “From womb to tomb”, dal grembo alla tomba.

Una ayuda práctica para la TRANSMISIÓN DE LA FE...

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“LA HISTORIA DE LA SALVACIÓN RECITADA,
VERSOS PARA NIÑOS.
DE LOS PATRIARCAS A LAS MATRIARCAS DE ISRAEL”
Una ayuda práctica para la TRANSMISIÓN DE LA FE
de los padres, didáscalos, pastoral infantil y juvenil.
Jesús Cortés es maestro de música de Educación Primaria en un centro público de la Junta de Andalucía. Pertenece a la Primera Comunidad Neocatecumenal de la Parroquia de la Inmaculada de La Línea de la Concepción, Cádiz, es catequista, didáscalo y miembro de la Orquesta del Camino Neocatecumenal.
Historia de la Salvación Recitada es un libro donde a través de sencillas rimas se pueda acercar las figuras de la Historia de la Salvación a los niños. Es una forma más didáctica y amena de llevar la catequesis a los más pequeños.
El libro encierra preciosas historias donde se ve la actuación de Dios en medio de personas con problemas, angustias y sufrimientos. Hay un hilo conductor en todo el libro, un grito que va apareciendo en cada capítulo: “NADA HAY IMPOSIBLE PARA DIOS”. 

En este libro se diseña un sencillo método de trabajo. Se comienza con una poesía sobre la figura de las Sagradas Escrituras. Son pequeñas rimas donde en clave catequética se introduce a los niños en la Historia de la Salvación. Después de dicho poema hay unas preguntas para dialogar con los niños sobre el sentido del texto. Este diálogo va a servir para prepararles a escuchar una lectura de la Palabra de Dios. A continuación hay una catequesis, una reflexión sobre esta figura. En esta catequesis se anuncia el amor de Dios, el amor que Dios nos tiene. Para finalizar los niños tienen que expresar en un dibujo aquello que más les haya gustado. Hay también un material para padres, catequistas, docentes, con homilías del Papa San Juan Pablo II, Benedicto XVI y Francisco acerca de las figuras tratadas.

Este libro nace de la necesidad de ayudar a catequistas, docentes y padres en la preciosa tarea de pasar la fe a la próxima generación. Este libro desarrolla un sencillo, ameno y didáctico método de trabajo. Es necesario que haya un intercambio de experiencias entre dos generaciones: padres e hijos, catequistas y niños. Este libro pretende ser un granito de arena en el campo de la Nueva Evangelización.
El libro ha sido editado por Editorial BUENA NUEVA con prólogo de César Allende.
El libro fue presentado en el Centro Neocatecumenal Diocesano de Jerez el pasado 26 de Diciembre y en el mes de Febrero será presentado en distintas parroquias de Madrid: 3 de Febrero en Santa Catalina Labouré, 27 de Febrero en San Isidro Labrador y 3 de Marzo en San José Obrero de Móstoles.
Los beneficios irán destinados a ayudar a la evangelización llevada a cabo por el CENTRO NEOCATECUMENAL DIOCESANO SANCTA MARIA DE ÁFRICA de Ceuta en las Diócesis de Jerez, Cádiz-Ceuta.
Que todo sea para LA MAYOR GLORIA DE DIOS.
camineo.info

50 ore per 50 anni!

Golden Jubilee Giubileo d'oro Rinnovamento


 I grandi momenti storici meritano una preghiera speciale! Così come è avvenuto in altri momenti della nostra storia, abbiamo pensato di erigere un "Muro di Fuoco" di preghiera a sostegno del Giubileo d’Oro: 50 ore di preghiera per i 50 anni del Rinnovamento negli stessi giorni di quello storico weekend in cui, tradizionalmente, si fissa l’inizio del Rinnovamento Carismatico Cattolico.
Non vogliamo «lasciarci cadere le braccia» (cf Sof 3, 16), anzi sollevarle ancora di più: è meraviglioso pensare che in ogni angolo d’Italia, a livello personale e comunitario, per 50 ore, tutto il RnS rimarrà unito in preghiera per il bene del Rinnovamento!

Indicazioni programma per ogni regione 

Giovanni Bosco e le perle di Gesù Bambino

San Giovanni Bosco e le perle di Gesù Bambino

aleteia

Grande protettore dell’infanzia, san Giovanni Bosco diceva ai ragazzi e ai suoi confratelli: “Non esiste nulla che il demonio tema di più di queste due cose: una comunione ben fatta e le visite frequenti al Santissimo Sacramento: Volete che il Signore ci doni tante grazie? Visitatelo spesso. Volete che il Signore ce ne dia poche? Visitatelo poche volte“.
Le sue ultime raccomandazioni ai suoi figli e alle sue figlie spirituali furono:
Diffondete la devozione a Gesù sacramentato e a Maria ausiliatrice e vedrete quali saranno i miracoli. Aiutate molto i ragazzi poveri, i malati, gli anziani e la gente che più ha bisogno, e otterrete enormi benedizioni e aiuti da Dio. Vi aspetto tutti in Paradiso“.
Il ringraziamento dopo la Santa Comunione
“Dopo la S. Comunione, trattenetevi almeno un quarto d’ora a fare il ringraziamento. Sarebbe una grave irriverenza se, dopo pochi minuti aver ricevuto il Corpo-Sangue-Anima-Divinità di Gesù, uno uscisse di chiesa o stando al suo posto si mettesse, a ridere, chiacchierare, guardare di qua e di là per la chiesa…”
Fare la S. Comunione
“Tutti hanno bisogno di fare la S. Comunione: i buoni per mantenersi buoni, ed i cattivi per diventare buoni. Ma prima di accostarvi a ricevere l’adorabile Corpo di Gesù, dovete riflettere se nel cuore siete pronti. Chi ha peccato e non vuol staccarsi dal suo peccato, anche se si è confessato, non è degno di ricevere il Corpo di Gesù; invece di arricchirsi di grazie, si rende più colpevole e degno di castigo. Se invece ci si è confessati con il chiaro proposito di cambiare, accostiamoci pure al pane degli Angeli. Si badi però che la frequenza ai Sacramenti non è, da sola, sicuro indizio di bontà. […]
Se non potete comunicarvi sacramentalmente, fate almeno la Comunione Spirituale. Di che si tratta? Essa consiste in un ardente desiderio di ricevere Gesù nel vostro cuore”.
Comunione Spirituale: una preghiera
“Gesù mio, ti credo presente nel Santissimo Sacramento dell’altare. Ti amo sopra ogni cosa e ti desidero nell’anima mia. Siccome ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore…
Come già venuto, io ti abbraccio e tutto mi unisco a Te: non permettere che io abbia mai a separarmi da Te. Amen”
Condizioni per fare una buona Comunione
“Per fare una buona Comunione, occorre essere liberi dal peccato mortale. Chi ne avesse anche uno solo, commetterebbe un sacrilegio e, come dice la Sacra Scrittura, “mangerebbe la sua condanna, perché non vuol distinguere il Corpo del Signore dal pane materiale”. […]
Non bisogna poi dimenticare che la Santa Comunione, anche quella quotidiana, preserva sì dai peccati mortali, ma non rende impeccabili.
Cerchiamo perciò di avere il cuore distaccato dai peccati, cerchiamo di migliorare…. e poi non spaventiamoci dei difetti quotidiani: la Santa Comunione, ogni volta che la riceviamo degnamente, li cancella! E ci rafforza per evitarli, in gran parte, per il futuro”.
La Comunione frequente
“Con quale frequenza dovete accostarvi alla santa Comunione? Sentite. Gli Ebrei quando erano nel deserto, mangiavano la manna che cadeva tutti i giorni. Ora, dice il Vangelo che la manna è figura dell’Eucarestia, perciò dobbiamo anche noi mangiarla tutti i giorni, su questa terra, (che è figurata dai 40 anni passati dal popolo ebreo nel deserto). Quando noi saremo giunti alla terra promessa non la mangeremo più perché vedremo e avremo sempre Iddio con noi nella sua essenza.
I primi fedeli si comunicavano tutti i giorni e andavano alla Messa: quei pochi che per qualche motivo non si potevano comunicare, ad un certo punto di essa dovevano uscire. Anche più tardi, ma ancora in quei primi tre secoli, nessuno andava alla Messa senza accostarsi alla santa Comunione.
La santa Chiesa poi, radunata nel santo Concilio di Trento, dichiarò essere suo desiderio che i fedeli andando alla essa si accostassero tutti alla santa Comunione. Difatti se il cibo del corpo si deve pigliare tutti i giorni, perché non il cibo dell’anima? Così dicono Tertulliano e Sant’Agostino.
Ma dunque, voi mi osserverete, avremo tutti ad accostarci propriamente ogni giorno? Vi risponderò che il precetto non c’è di accostarci tutti i giorni. Gesù Cristo lo brama, ma non lo comanda. […]
La gran cosa che io raccomando è questa. Ciascuno tenga la sua coscienza in tale stato da poter far la Comunione tutti i giorni. Vorrei ancora togliere un inganno che è nella mente dei giovani: dicono alcuni che per comunicarsi spesso bisogna esser santi. Non è vero. Questo è un inganno. La Comunione è per chi vuol farsi santo, non per i santi. I rimedi si danno ai malati, il cibo si dà ai deboli. Oh, quanto io sarei fortunato se potessi vedere acceso in voi quel fuoco che il Signore è venuto a portare sulla terra”!
Ancora sulla Comunione frequente
“Riguardo alla frequenza della Comunione ognuno di voi si accordi col suo confessore, e si accosti alla sacra mensa quel numero di volte che gli sarà indicato. Ma il gran punto da non dimenticarsi mai, è di tenere costantemente la coscienza in tale stato da poter fare la Comunione tutti i giorni. Se uno non è capace di perseverare in tale stato di coscienza che gli permetta di andare per otto giorni alla Comunione io non gli consiglio la Comunione così frequente. A questo proposito voglio raccontarvi un fatterello.
Vi era un uomo solito ad andarsi a confessare da San Vincenzo de’ Paoli, ma non gli piaceva questo confessore, perché gli ordinava la frequente Comunione ed insisteva, perché andasse più volte alla settimana. Questo tale, stanco di quell’esigenza, pensò di cambiare confessore e di andare da un altro. Trovatolo, gli disse: “Io ero solito andare da Padre Vincenzo; ma mi ordinava la Comunione quasi tutti i giorni. Ciò non mi piace e son venuto da lei per ricevere il suo consiglio”. Quel confessore non badando al male che faceva, gli rispose: “Basta accostarvisi una volta la settimana”.
Passato un po’ di tempo consigliò al suo penitente di accostarsi solo una volta ogni quindici giorni, per la ragione che avrebbe potuto prepararsi meglio. Finalmente finì col dirgli di comunicarsi una volta al mese. Il povero uomo seguiva questi consigli. E che ne avvenne? Finì con dare un addio alla confessione e abbandonarsi alla vita licenziosa.
Ma agitato dai rimorsi delle sue colpe, fece ritorno a San Vincenzo e gli disse:
“Va male, Padre Vincenzo, va male!”
“E perché, – gli rispose San Vincenzo – o figlio mio, non mi siete più venuto a trovare?. “Perché mi dava fastidio la frequente Comunione e volli cambiar confessore per andarvi più di rado. Ma vedo che, lasciando la Comunione, lascio anche la pietà, divento peggiore ed ho finito per non più andarmi a confessare. Perciò d’ora in avanti voglio seguire il suo consiglio ed accostarmi di frequente alla santa Comunione”.
E si confessò da San Vincenzo, fece le sue cose bene e ridivenne a poco a poco la pia persona che era prima. […]”.
Gesù nell’Eucaristia è fonte di grazia
[…] Una santa vide un giorno sull’altare Gesù bambino il quale reggeva, nel suo vestitino, un numero straordinario di perle preziosissime. Era triste. “Perché sei così triste, mio Signore”? – chiese la santa. “Perché nessuno viene a chiedermi le grazie che ho già qui preparate. Nessuno le vuole. Non so a chi darle…”.

Fedeltà alla prova

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(Nicola Gori) Ogni giorno la fedeltà alla vita consacrata viene messa a dura prova dalle sfide del mondo. Per superarle occorrono una solida vocazione e una formazione continua. Lo ribadisce l’arcivescovo José Rodríguez Carballo, segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, in questa intervista a «L’Osservatore Romano» all’indomani della plenaria dedicata alla fedeltà e dell’incontro interdicasteriale sull’aggiornamento del documento Mutuae relationes.
Quali sono le sfide da affrontare nella revisione di questo testo?
Prima di tutto è bene dire che non si tratta di una semplice revisione dell’attuale documento Mutuae relationes, ma di un testo nuovo. Questa era già l’intenzione dei superiori dei due dicasteri direttamente coinvolti per mandato del Papa, almeno finora: la Congregazione per i vescovi e la Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Ma a tale intenzione si deve aggiungere il parere in questo stesso senso di diversi padri della plenaria interdicasteriale che si è svolta proprio il 26 gennaio. Un altro aspetto da considerare è che il nuovo documento terrà conto non soltanto delle relazioni tra pastori e consacrati chierici, ma tra pastori e tutte le forme di vita consacrata, maschile e femminile. Le sfide principali che vedo fanno riferimento a come applicare i principi teologici e giuridici che saranno alla base del nuovo documento — Chiesa di comunione, co-essenzialità tra doni gerarchici e carismatici, la dimensione sponsale della Chiesa e della vita consacrata, la giusta autonomia dei consacrati, la sana tensione tra particolare e universale — alla vita concreta tra i pastori e i consacrati nelle Chiese particolari.
Come si realizza questo passaggio dalla teoria alla prassi?
Penso che dove si giocano veramente le mutuae relationes è nel quotidiano e quindi nel vivere la mistica dell’incontro, come direbbe Papa Francesco, con tutto quello che comporta. Come ha detto il Pontefice ai vicari e delegati per la vita consacrata: «non esistono relazioni mutue lì dove alcuni comandano e altri si sottomettono, per paura o convenienza». Invece ci sono mutuae relationes dove si coltivano la capacità di ascolto, la reciproca ospitalità, l’apertura nel dialogo, la condivisione delle decisioni, il rispetto reciproco, una profonda conoscenza. Un elemento sul quale nella plenaria si è insistito molto, e che si ripeteva molto nelle proposte giunte al nostro dicastero da parte di più di 150 conferenze di superiori maggiori di tutto il mondo, è la necessità di una formazione adeguata nell’ecclesiologia del Vaticano II. In questo senso si chiede che nei programmi di formazione dei seminari diocesani siano previsti corsi obbligatori di teologia della vita consacrata e del suo posto nella Chiesa, e nelle case di formazione dei consacrati si studi la teologia della Chiesa particolare e la missione del vescovo. Per superare incomprensioni reciproche è necessaria una adeguata formazione su questi aspetti e molta creatività per trovare spazi di vero incontro. Un altro elemento sul quale si è pure insistito è di non trattare la vita consacrata nella sua pura funzionalità. La vita consacrata va apprezzata prima di tutto dagli stessi consacrati e poi anche dai vescovi e sacerdoti diocesani, per quello che è: come segno e profezia. Infine, non si potrà dimenticare un elemento importante che può causare qualche tensione: la questione delle alienazioni da parte dei consacrati e la questione della proprietà. In questo secondo caso sono fondamentali le convenzioni.
Come verrà elaborato il nuovo documento? 
Questo è ancora da decidere, prevediamo una commissione mista dei due dicasteri. Quello che sembra molto chiaro è la volontà che si attui una metodologia sinodale, prima di tutto tra le due Congregazioni e poi con le conferenze dei superiori generali e con i vescovi. Inoltre la plenaria ha chiesto che si elabori un documento con indicazioni pratiche e pastorali, oltre ai principi teologici e canonici. Per questo consideriamo molto importante ascoltare i protagonisti delle mutuae relationes: vescovi e consacrati.
Durante la plenaria avete parlato della fedeltà. Quali gli aspetti principali trattati?
Prima di tutto abbiamo constatato che nella grande maggioranza i consacrati vivono con gioia la fedeltà alla loro vocazione. C’è molta santità nella vita consacrata, come ha ricordato il Papa. Una fedeltà che porta non pochi consacrati a testimoniare la loro fede e vocazione fino allo spargimento del sangue. I martiri consacrati che ogni anno danno la vita per Cristo sono la prova migliore della vitalità e della santità della vita consacrata. Non ho dubbi nell’affermare che la vita consacrata nel suo insieme è un corpo che gode di buona salute. Abbiamo poi trattato degli elementi che aiutano la fedeltà e di quelli che la ostacolano. Infine abbiamo riflettuto sul doloroso tema degli abbandoni e segnalato alcune iniziative per prevenirli.
Quali sono le cause principali di questo fenomeno? 
Non è facile individuarle: non sempre quelle indicate nei documenti che ci inviano per ottenere la dispensa dai voti sono le principali. Spesso vengono indicati problemi di tipo affettivo, seguiti dalle difficoltà nel vivere gli altri voti o la stessa vita fraterna in comunità. Io credo, però, che la prima causa abbia a che fare con la dimensione spirituale o di fede. Quando parliamo di fede non si tratta soltanto dell’adesione alla dottrina, ma di una fede vissuta, che tocca e cambia il cuore e quindi porta a una vita cristiana autentica e, come conseguenza, a una vita consacrata conforme a quanto uno ha abbracciato con la professione. A volte si confonde la fede con la religiosità. L’esperienza ci dice che uno può essere molto religioso e debole nella fede. La fede parte da un vero incontro con Cristo e porta a rafforzare questo incontro durante tutta la vita. Nella vita cristiana e consacrata si danno per scontati diversi aspetti riguardanti la fede ai quali si dovrebbe prestare molta più attenzione. Anche riguardo la spiritualità si dovrebbe fare più attenzione. Non va confusa con il semplice devozionismo, ma deve essere incarnata per diventare figli del cielo e della terra, mistici e profeti, discepoli e testimoni. Se la fede è debole, la spiritualità non è solida e nella vita fraterna in comunità ci sono problemi, facilmente la prima opzione si indebolisce e può venire meno, finendo con implicazioni affettive che fanno sì che prima o dopo si lasci da parte detta opzione. Quindi io sono dell’opinione che le principali cause siano la fragilità nell’esperienza di fede e nella vita spirituale, le difficoltà non risolte nella vita fraterna in comunità e, come conseguenza, problemi di tipo affettivo.
Quali fattori condizionano la fedeltà?
Si deve tener presente, prima di tutto, un dato che proviene dall’antropologia attuale: l’uomo e la donna di oggi hanno paura a impegnarsi definitivamente; si vuole lasciare sempre una “finestra aperta” per “imprevisti”, cadendo nell’ambivalenza che impedisce di vivere la vita nella sua pienezza. Questo ha molto a che fare con il contesto culturale e sociale in cui viviamo. La nostra è una società liquida che promuove una cultura liquida nella quale una relazione si costruisce a partire dai vantaggi che ognuna delle parti possa ottenere dall’altra e quindi dura quando durano i vantaggi; una cultura frammentata dove non c’è posto per i “grandi racconti” e dove si vuole portare avanti una vita à la carte, che spesso ci fa diventare schiavi della moda; una cultura del benessere e dell’autorealizzazione che facilmente ci fa passare dall’homo sapiens all’homo consumens producendo un grande vuoto esistenziale. A tutti questi condizionamenti vanno aggiunti quelli che provengono dal mondo giovanile, una realtà molto complessa dove, a giudicare da recenti inchieste, la cosiddetta generazione millennial, che succede alla generazione x, viene caratterizzata dall’indifferenza verso la religione e la poca conoscenza della Chiesa e della vita consacrata. In questo contesto, anche se a un certo momento alcuni si “convertono” e fanno opzione per detta forma di sequela, magari manca loro una vera motivazione, per cui nei momenti di difficoltà si cede alla tentazione di andarsene. Un ultimo elemento da tener presente è la stessa vita consacrata che può cadere nel discorso puramente estetico: si formulano alti ideali, ma poi la vita dei consacrati magari non testimonia la bellezza e la bontà di tale forma di sequela Christi. Così la vita consacrata non risponde più alla sua missione profetica, come chiede Papa Francesco, o, secondo le parole di Metz, alla sua missione di essere «terapia di shock per la grande Chiesa». La fedeltà viene condizionata anche dalla non sufficiente chiarezza identitaria consacrata. Non indifferente è la mancanza di un progetto di vita ecologico dove ci sia una vera armonia tra vita spirituale, vita fraterna e missione evangelizzatrice.
Si possono conoscere alcuni dati circa gli abbandoni?
Se il Papa parla di «emorragia» vuol dire che il problema è preoccupante, non soltanto per il numero ma anche per l’età in cui si verificano, la grande parte tra i 30 e 50 anni. Le cifre degli abbandoni negli ultimi anni restano costanti. Negli anni 2015 e 2016 abbiamo avuto circa 2300 abbandoni all’anno, compresi i 271 decreti di dimissione dall’istituto, le 518 dispense dal celibato che concede la Congregazione per il clero, i 141 sacerdoti religiosi incardinati pure et simpliciter in diverse diocesi e le 332 dispense dai voti tra le contemplative. Durante la plenaria ci siamo soffermati su tre constatazioni: l’elevato numero di chi lascia la vita consacrata per incardinarsi in una diocesi, il numero non indifferente delle contemplative che lasciano la vita consacrata e il numero di quelli che la abbandonano (225 casi) dicendo che mai hanno avuto vocazione. Si deve constatare che il più alto numero di abbandoni si ha tra le religiose, fatto almeno in parte spiegabile in quanto sono la grande maggioranza dei consacrati.
Cosa si può fare per aiutare chi è nel dubbio o per prevenire questi abbandoni?
Personalmente penso che si debba puntare prima di tutto sul discernimento, in modo che chi non è chiamato a questa forma di sequela Christi non abbracci questa vita. Nel discernimento si deve curare insieme la dimensione umana, affettiva e sessuale, la dimensione spirituale e di fede e anche quella intellettuale. Si deve prestare attenzione alle motivazioni, senza lasciarsi condizionare dalla tentazione del numero e della efficacia, come ci ha ricordato Papa Francesco. La vita consacrata non è per tutti e non tutti sono per la vita consacrata. Si deve inoltre fare molta attenzione a coloro che passano da un seminario o da un istituto a un altro. Non è possibile un discernimento adeguato senza un accompagnamento appropriato, offerto da persone capaci di trasmettere la bellezza del carisma in un determinato istituto e che siano esperte nel cammino della ricerca di Dio, per poter accompagnare gli altri in questo itinerario. Molte vocazioni si perdono lungo la strada per mancanza di un adeguato accompagnamento umano, spirituale e vocazionale. Poi è fondamentale curare la formazione, a partire dalla formazione permanente, humus di quella iniziale. Questa a sua volta dovrà essere: una formazione personalizzata e in chiave di processo; evangelicamente esigente ma non rigida; umana e motivatrice, inculturata; una formazione alla fedeltà; una formazione a un’affettività sana e feconda.
L'Osservatore Romano

Gesù guarda ciascuno di noi





Gesù non guarda le «statistiche» ma ha attenzione per «ognuno di noi». Uno per uno. Lo «stupore dell’incontro con Gesù», quella meraviglia che coglie chi lo guarda e si rende conto che il Signore già aveva «fisso il suo sguardo» su di lui, è stata descritta da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta martedì 31 gennaio. 
È stato proprio lo «sguardo» il filo conduttore della meditazione che ha preso le mosse dal brano della lettera agli Ebrei (12, 1-4) nel quale l’autore, dopo aver sottolineato l’importanza del fare «memoria», invita tutti: «Corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su Gesù». Raccogliendo tale suggerimento, il Pontefice ha preso in esame il vangelo del giorno (Marco, 5 21-43) per vedere «cosa fa Gesù».
Il particolare più evidente è che «Gesù è sempre in mezzo alla folla». Nel brano evangelico proposto dalla liturgia «la parola “folla”» è ripetuta per ben tre volte. E non si tratta, ha sottolineato il Papa, di un ordinato «corteo di gente», con le guardie «che gli fanno la scorta, affinché la gente non lo toccasse»: piuttosto è una folla che avvolge Gesù, che «lo stringe». E lui «è rimasto lì». E, anzi, «ogni volta che Gesù usciva, c’era più folla». Forse, ha detto Francesco con una battuta, «gli specialisti delle statistiche avrebbero potuto pubblicare: “Cala la popolarità del Rabbi Gesù”». Ma «lui cercava un’altra cosa: cercava la gente. E la gente cercava lui: la gente aveva gli occhi fissi su di lui e lui aveva gli occhi fissi sulla gente».
Si potrebbe obbiettare: Gesù volgeva lo sguardo «sulla gente, sulla moltitudine». E invece no, ha precisato il Pontefice: «su ognuno». Perché proprio questa è «la peculiarità dello sguardo di Gesù. Gesù non massifica la gente: Gesù guarda ognuno». La prova si trova, a più riprese, nei racconti evangelici. Nel vangelo del giorno, per esempio, si legge che Gesù chiese: «Chi mi ha toccato?» quando «era in mezzo a quella gente, che lo stringeva». Sembra strano, tant’è che gli stessi discepoli «gli dicevano: “Ma tu vedi la folla che si stringe intorno a te!”». Sconcertati, ha detto il Papa provando a immaginare la loro reazione, hanno pensato: «Ma questo, forse, non ha dormito bene. Forse si sbaglia». E invece Gesù era sicuro: «Qualcuno mi ha toccato!». Infatti, «in mezzo a quella folla Gesù si accorse di quella vecchietta che lo aveva toccato. E la guarì». C’era «tanta gente», ma lui prestò attenzione proprio a lei, «una signora, una vecchietta».
Il racconto evangelico continua con l’episodio di Giàiro, al quale dicono che la figlia è morta. Gesù lo rassicura: «Non temere! Soltanto abbi fede!», così come in precedenza alla donna aveva detto: «La tua fede ti ha salvata!». Anche in questa situazione Gesù si ritrova in mezzo alla folla, con «tanta gente che piangeva, urlava nella veglia dei morti» — all’epoca, infatti, ha spiegato il Pontefice, era usanza «“affittare” donne perché piangessero e urlassero lì, nella veglia. Per sentire il dolore...» — e a loro Gesù dice: «Ma, state tranquilli. La bambina dorme». Anche i presenti, ha detto il Papa, forse «avranno pensato: “Ma questo non ha dormito bene!”», tant’è che «lo deridevano». Ma Gesù entra e «resuscita la bambina». La cosa che salta agli occhi, ha fatto notare Francesco, è che Gesù in quel trambusto, con «le donne che urlavano e piangevano», si preoccupa di dire «al papà e alla mamma “Datele da mangiare!”». È l’attenzione al «piccolo», è «lo sguardo di Gesù sul piccolo. Ma non aveva altre cose di cui preoccuparsi? No, di questo».
In barba alle «statistiche che avrebbero potuto dire: “Continua il calo della popolarità del Rabbi Gesù”», il Signore predicava per ore e «la gente lo ascoltava, lui parlava ad ognuno». E come «sappiamo che parlava ad ognuno?» si è chiesto il Pontefice. Perché si è accorto, ha osservato, che la bimba «aveva fame» e ha detto: «Datele da mangiare!».
Il Pontefice ha continuato negli esempi citando l’episodio di Naim. Anche lì «c’era la folla che lo seguiva». E Gesù «vede che esce un corteo funebre: un ragazzo, figlio unico di madre vedova». Ancora una volta il Signore si accorge del «piccolo». In mezzo a tanta gente «va, ferma il corteo, resuscita il ragazzo e lo consegna alla mamma».
E ancora, a Gerico. Quando Gesù entra nella città, c’è la gente che «grida: “Viva il Signore! Viva Gesù! Viva il Messia!”. C’è tanto chiasso... Anche un cieco si mette a gridare; e lui, Gesù, con tanto chiasso che c’era lì, sente il cieco». Il Signore, ha sottolineato il Papa, «si accorse del piccolo, del cieco».
Tutto questo per dire che «lo sguardo di Gesù va al grande e al piccolo». Egli, ha detto il Pontefice, «guarda a noi tutti, ma guarda ognuno di noi. Guarda i nostri grandi problemi, le nostre grandi gioie; e guarda anche le cose piccole di noi, perché è vicino. Così ci guarda Gesù».
Riprendendo a questo punto le fila della meditazione, il Papa ha ricordato come l’autore della lettera agli Ebrei suggerisca «di correre con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su Gesù». Ma, si è chiesto, «cosa ci succederà, a noi, se faremo questo; se avremo fisso lo sguardo su Gesù?». Ci accadrà, ha risposto, quanto è capitato alla gente dopo la resurrezione della bambina: «Essi furono presi da grande stupore». Accade infatti che «io vado, guardo Gesù, cammino davanti, fisso lo sguardo su Gesù e cosa trovo? Che lui ha fisso il suo sguardo su di me». E questo mi fa sentire «grande stupore. È lo stupore dell’incontro con Gesù». Per sperimentarlo, però, non bisogna avere paura, «come non ha avuto paura quella vecchietta di andare a toccare l’orlo del manto». Da qui l’esortazione finale del Papa: «Non abbiamo paura! Corriamo su questa strada, sempre fisso lo sguardo su Gesù. E avremo questa bella sorpresa: ci riempirà di stupore. Lo stesso Gesù ha fisso il suo sguardo su di me».

L'Osservatore Romano

Bisogno di guarigione interiore?

Hai bisogno di guarigione interiore? Ricorri a questi santi




di Margarita Garcìa
Qual è lo scopo delle nostre ferite (non solo quelle fisiche)? La scrittrice Alba Eden, che ha subito abusi sessuali durante l’infanzia, ha trovato la risposta a questa domanda nell’esempio di alcuni santi, che hanno contribuito a sanare le crepe della sua anima.
“Il perdono testimonia che l’amore è più forte del peccato”, sostiene la scrittrice Alba Eden, autrice di Mi paz os doy (Diana, 2014), che, nel processo di guarigione dagli abusi sessuali subiti durante la sua infanzia, si rese conto che doveva chiedere la grazia di perdonare sua madre, con la quale aveva un rapporto molto difficile.
In questo percorso di perdono e di guarigione, Eden si è sempre sentita accompagnata dai santi. Ma per trarre beneficio dalle grazie che riceviamo attraverso la loro intercessione, sostiene l’autrice, abbiamo bisogno, in primo luogo, di “riconoscere le nostre crepe”.
I santi, che tendiamo a immaginare come perfetti, lo sono davvero, perché “nella loro vita hanno permesso a Dio di perfezionarli e di purificarli”. Ed è questo che i santi hanno insegnato ad Eden: “Che ogni sofferenza ci permette di arrivare ad essere come Colui che ha sofferto sulla croce”.
Le vite di questi “amici di Dio” mostrano – come ha sperimentato l’autrice stessa – che il Signore vuole guarire le nostre ferite. E, cosa ancora più importante, vuole guarirci attraverso di esse, in modo che tutto ciò che abbiamo subito possa servire ad avvicinarci di più a Lui”.


Non solo nel dolore questi santi si sono uniti ancora di più a Cristo, dando un senso alle loro ferite, ma hanno dimostrato che è possibile perdonare chi ci ha ferito. Anche se, come dice Benedetto XVI, per fare questo “serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono”.

San Sebastiano: Unire le nostre ferite a quelle di Cristo

C’è un amore che soffre, sostiene Eden, che ha portato alcuni santi a identificarsi così tanto in Cristo e nella Sua passione, al punto da mostrare nel proprio corpo ferite e stigmi, come le sante Caterina da Siena, Margherita da Cortona o Gemma Galgani. Tutte loro sperimentarono una “grande gioia per le loro sofferenze, in unione con Cristo”.
Perché Dio ha permesso che alcuni santi partecipassero così strettamente alla Passione di Gesù?
Da un lato, tutti i cristiani sono chiamati a “completare” con le proprie sofferenze, per la loro redenzione, la Passione di Cristo. E a dichiarare, come San Paolo, “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”.
Ne è un esempio San Sebastiano. Solitamente rappresentato trafitto da frecce, la cosa più interessante di questo santo non è che subì torture terribili, ma che poté sopravvivere ad esse. Santa Irene si prese cura di lui e ne guarì le ferite. “Sebastiano deve aver capito che Dio lo aveva curato per compiere una missione”, spiega Eden.
E questa missione fu incontrare Diocleziano, l’imperatore che ordinò il martirio suo e di migliaia di cristiani, per avvertirlo che la sua anima era in pericolo.
Diocleziano, vedendolo vivo, ordinò che fosse flagellato a morte. Per Eden Sebastiano rappresenta “un’allegoria di ciò che accade a chi ha subito abusi sessuali: di tanto in tanto rivive le proprie sofferenze, traumi e ferite come un ‘secondo martirio’, come è successo a San Sebastiano”.
Tuttavia, rivivere periodicamente il proprio dolore “permette alla persona di avere un’idea migliore di chi essa sia e di cosa gli sia successo. In questo modo la sofferenza si avvicina ancora di più alla redenzione e ci guarisce”.

S. Giuseppina Bakhita: Recuperare in Dio la nostra identità

Questa santa africana ricorda nei suoi scritti come, con una pistola e un coltello puntati verso di lei, non fu in grado di gridare né di dire il suo nome. Racconta Eden che la paura estrema portò S. Giuseppina Bakhita a dimenticare il nome le misero i suoi genitori e a ricordarsi solo Bakhita, come la chiamavano i suoi rapitori. Ebbe una perdita di identità, cosa condivisa da molte vittime di traumi infantili.
Bakhita fu trattata come una merce: in sei anni, fu venduta più volte. Questo comportava venire esposta nuda davanti agli acquirenti, esperienza che, indubbiamente, rese più profonde le sue ferite interiori.
Ma ciò che ha permesso a Bakhita di raggiungere la santità non è stata l’esperienza della schiavitù, ma la consapevolezza di essere redenta, sostiene Eden. Ebbe una gioventù fatta di abusi e sofferenze, ma la sua vita adulta è un grande esempio di guarigione e di perdono.
Ricevette la fede durante una di queste vendite, quando alcune suore si presero cura di lei su ordine dei padroni. Da quel momento imparò, poco a poco, l’amore del Padre, che gli permise di “trovare la propria identità all’interno della famiglia di Dio“, scrive Eden. Fu proprio in questa famiglia che poté incontrare un Padre che l’amava e una fede che le permise di perdonare i propri aguzzini.

Sant’Ignazio di Loyola: Affidiamo i nostri ricordi a Dio

I ricordi (tutti, che siano ben impressi nella nostra memoria o meno) sono il fondamento della nostra identità. E di fronte ad eventi traumatici come la perdita di una madre in giovane età o a una ferita di guerra (come accadde a S. Ignazio di Loyola), la nostra mente cerca di nascondere la memoria degli eventi più dolorosi; ma che li ricordiamo o meno, questi “rimangono in noi”, continua Eden.
Sant’Ignazio decise dunque di affidare a Dio la sua memoria, la sua libertà, la sua mente e tutto il suo essere… Tutto ciò che del passato non si poteva cambiare, che sarebbe rimasto lì e che comunque lo rese ciò che era. Sant’Ignazio si abbandonò alla provvidenza di Dio e riconobbe che, nella sua vita, ci furono dei momenti bui.


Pertanto, per fare un primo passo nel perdonare noi stessi, chi ci ha fatto del male o addirittura Dio (perché a volte non capiamo che Egli permetta il dolore), possiamo seguire l’esempio del santo, che “ha scoperto che lo Spirito Santo è riuscito ad utilizzare tutte le esperienze che lo avevano formato per condurlo all’amore di Cristo”. I ricordi non sono dei nemici ma, come ha spiegato Benedetto XVI, “la memoria e la speranza sono inseparabili” e, di conseguenza, “prendersela con il proprio passato non dà alcuna speranza, anzi, distrugge le nostre fondamenta emotive”.

Santa Maria Goretti: Il perdono è più forte di qualsiasi peccato

Il Catechismo dice: “Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione”. Secondo Eden, questo non significa che il perdono non comporti sofferenza, ma che l’unione con Cristo esige un martirio interiore. Uno di quei martiri che testimonia che il perdono è possibile è Santa Maria Goretti, “martire della castità”.
Goretti resistette più volte ai tentativi di abuso da parte di Alessandro, il giovane vicino di casa della famiglia Goretti. Un giorno, con in mano un punteruolo, la costrinse ad arrendersi per salvarsi la vita; la Goretti rispose che lui sarebbe andato all’inferno se l’avesse violata. Si preoccupò dunque per l’anima di Alessandro. Il giorno successivo la Goretti morì per le ferite ricevute, perdonando il suo assassino ed esprimendo il desiderio di vederlo in Cielo insieme a lei.
La castità trova la sua massima espressione nella misericordia: il perdono esercitato da un cuore ferito fa sì che il corpo assomigli sempre più al Cristo risorto.
Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista

Pensieri pericolosi... riconoscerli per difendersi

dizionario-pensiero-pericolosoi

di Costanza Miriano
È qualche giorno che vorrei recensire il Dizionario elementare del pensiero pericoloso pubblicato da poco da IdA, Istituto di Apologetica, e in vendita anche sul sito de Il Timone: pensavo di aprirlo, farmi un’idea e scrivere velocemente qualcosa, ma niente. Ci sono sprofondata dentro. Voce dopo voce, pagina dopo pagina, non riesco a smettere di leggere, perché non c’è un argomento che non mi interessi.
Dopo il Dizionario di apologetica, l’IdA ha pubblicato questo altro prezioso strumento, scegliendo un campione del pensiero contemporaneo che è in contrasto con la dottrina cattolica, o anche che presenta solo alcuni aspetti problematici, pur avendo dei meriti culturali o anche teologici.
Da Theodor Adorno a Elemire Zolla, scorrere l’indice è un’avventura avvincente, e si attraversa  una lunga lista di voci, oltre duecento, una più interessante dell’altra. Giuseppe Alberigo, Allende, Augias, Tonino Bello, Enzo Bianchi, Bonhoeffer, Emma Bonino, Cacciari, Darwin, De Andrè, Dossetti, Dario Fo, Freud, Galimberti, Kant, Lacan, Levi Montalcini, Madonna (!), Martini, Marx, Melloni, Milani, Mishima, Odifreddi, ONU (sì, anche le organizzazioni, Save The children, Femen, Greenpeace, Unicef, WWF sono nella lista), Pasolini, Pivano, Quinzio, Saviano, Scalfari, Soros, Teilhard de Chardin, Vattimo, Veronesi e mi fermo qui, ma è solo un assaggio di un grande campione.
L’intento non è quello di demonizzarli – ci sono persone preziosissime per la Chiesa come Raniero Cantalamessa – ma dirisvegliare una capacità critica nell’ascoltare tutto, e nel giudicare, non le persone, ma le idee, è appena il caso di precisare. “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”, dice San Paolo. Infatti di ogni personaggio vengono riportate alcune affermazioni critiche, viene evidenziato l’errore, e poi viene affermata la verità secondo la dottrina.
Ma la cosa più bella per me è leggere l’elenco degli autori, alcuni dei quali amici in carne ed ossa, altri amici solo di carta. La loro lucidità e intelligenza e capacità mi rende orgogliosa di pensarla come loro. È questa la bellezza del libro: sentirsi parte di una comunità che condivide un pensiero, un patrimonio, un deposito comune. È vero che abbiamo duemila anni di storia alle spalle, ma a volte è bello anche sapere che la comunione di pensiero, di cultura, di eredità, è con dei vivi, meglio ancora se sono persone a cui puoi telefonare o scrivere. E se sfogliando i giornali, guardando la tv, andando in libreria ci si sente dei pazzi che vanno contromano in autostrada, tra queste pagine si ritrova finalmente la piacevole sensazione di quelli che hanno imboccato la strada per il verso giusto. Ogni tanto ci si deve pur riposare…

Chi ben comincia...

Manicardi, nuovo priore di Bose: sì alla possibilità di divorziare e risposarsi, come gli ortodossi


http://www.iltimone.org/

Nell’articolo del 2015 Tra un Sinodo e l'altro, la battaglia continua, il vaticanista Sandro Magister riportava la posizione del monastero di Bose riguardo alla questione della Comunione ai divorziati risposati, per bocca dell'allora vice priore della comunità Luciano Manicardi, da pochi giorni nuovo priore al posto di Enzo Bianchi:
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Il vicepriore di Bose, Luciano Manicardi, in una dotta intervista all'Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose, invoca che anche la Chiesa cattolica, come già fanno le Chiese ortodosse, ammetta lo scioglimento di un matrimonio e quindi la possibilità delle seconde nozze non solo per la morte di uno dei coniugi ma anche semplicemente per la "morte dell'amore”.

Ecco cosa dice sul punto il vice di Enzo Bianchi:

«Nella Relatio synodi si fa riferimento alla “diversità della disciplina matrimoniale delle Chiese ortodosse” che prevede la possibilità di nuove nozze non solo in caso di vedovanza ma anche di divorzio, accompagnate da un percorso penitenziale e, in ogni caso, non oltre la terza volta (cf. anche la Relatio ante-disceptationem 3f). Se al momento pare difficile l'importazione nella Chiesa cattolica del modello ortodosso che prevede anche il riconoscimento di giuste cause di divorzio (nel mondo ortodosso, infatti, fin dal canone 9 di Basilio di Cesarea ripreso dal Concilio in Trullo del 691-692, si prende come eccezione vera l'eccezione matteana all'indissolubilità matrimoniale che troviamo in Mt 5, 32 e 19, 9), tuttavia, dal momento che la Chiesa cattolica già prevede la possibilità di nuove nozze sacramentali in caso di morte di un coniuge, riconoscendo così un fallimento irreversibile del primo matrimonio che non infrange il principio della indissolubilità, si può pensare che essa possa giungere ad accogliere la possibilità di nuove nozze di fronte all'evidenza di fallimenti irreversibili dovuti alla morte dell'amore, alla morte della relazione, alla trasformazione della vita insieme in un inferno quotidiano. Certo, unitamente a una disposizione penitenziale e alla volontà di un re-inizio serio in una nuova unione. E questo come misura pastorale ed “oikonomica” che narra la misericordia di Dio, il suo amore più forte della morte, e va incontro con compassione all'umana fragilità. Di certo questa soluzione, prospettata da un teologo come Basilio Petrà, che stupisce di non aver visto annoverato tra gli esperti del sinodo del 2014, avrebbe conseguenze sul piano ecumenico in quanto rappresenterebbe un indubbio avvicinamento di posizioni con la prassi di altre Chiese.

Inferno, preghiera e conversione: il messaggio di Fatima



Esce in questi giorni da Mondadori il libro di Vincenzo Sansonetti Inchiesta su Fatima. Un mistero che dura da cento anni. Pubblichiamo ampi stralci della prefazione di Vittorio Messori.
Ogni apparizione sembra assomigliare a ogni altra, avendo sempre al centro un appello alla preghiera e alla penitenza e, al contempo, è diversa da ogni altra per l’accentuazione di un aspetto particolare della fede. L’aura che circonda Lourdes è pacata, tanto che è stato notato che in nessun’altra occasione Maria ha tanto sorriso, giungendo sino al punto di avere addirittura riso in tre occasioni. Disse Bernadette: «Rideva come una bambina». E non sapeva, quella piccola santa, che proprio questo avrebbe indotto gli austeri inquisitori della commissione che ne giudicava l’attendibilità a diventare ancora più sospettosi. «Nostra Signora che ride! Suvvia, un po’ di rispetto per la Regina del Cielo!». Alla fine dovettero farsene una ragione: era proprio così. Certo, non si dimentichi che Colei che nella grotta dirà di essere l’Immacolata Concezione assumerà anche un aspetto assai serio, ripetendo gli appelli alla penitenza e alla preghiera per se stessi e per i peccatori. Ma c’è un’aria di serenità, la mancanza di minacce di un castigo, che è forse uno tra gli aspetti che più attirano nei Pirenei le folle che sappiamo.
Misericordia e giustizia
L’atmosfera di Fatima, invece, appare soprattutto escatologica, apocalittica. Anche se con un finale che conforta e rasserena. È evidente che la ragione principale dell’apparizione portoghese è richiamare gli uomini alla tremenda serietà di una vita terrena che altro non è che una breve preparazione alla vita vera, a un’eternità che può essere di gioia ma anche di tragedia. È un richiamo alla misericordia e, al contempo, alla giustizia di Dio.
L’insistenza unilaterale di oggi sulla sola misericordia dimentica l’et-et che presiede al cattolicesimo e che, qui, scorge in Dio il Padre amoroso che ci attende a braccia spalancate e, al contempo, il giudice che peserà sulla sua infallibile bilancia il bene e il male. Ci attende sì un paradiso, ma che occorre guadagnarsi, spendendo al meglio i talenti piccoli o grandi che ci sono stati affidati. Il Dio cattolico non è di certo quello sadico del calvinismo che, a suo insondabile piacimento, divide in due l’umanità: coloro che nascono predestinati al paradiso e coloro che ab aeterno sono attesi dall’inferno. […]  È così, afferma Calvino, che Egli manifesta la gloria della sua potenza. No, il Dio cattolico non ha nulla a che fare con simili deformazioni. Ma non è neppure il bonario permissivista, lo zio tollerante che tutto accetta e tutti egualmente accoglie, il Dio di cui parla soprattutto il lassismo dei teologi gesuiti (che furono condannati dalla Chiesa) e contro i quali Blaise Pascal lanciò le sue indignate Lettres provinciales.
Anche se suona sgradevole alle orecchie di un certo «buonismo» attuale, così insidioso per la vita spirituale, Cristo propone alla nostra libertà una scelta definitiva per l’eternità intera: o la salvezza o la dannazione. Quindi potrebbe attenderci anche quell’inferno che abbiamo rimosso, però al prezzo di rimuovere anche i chiari, ripetuti avvertimenti del Vangelo. In esso c’è sì il commovente invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete travagliati e oppressi e io vi darò ristoro». E tante altre sono le parole e i gesti della sua tenerezza. Eppure, piaccia o no, nei Vangeli vi è anche ben altro. Vi è un Dio che è infinitamente buono e anche infinitamente giusto e ai cui occhi, dunque, un mascalzone impenitente non equivale a un credente in Lui che si è sforzato, pur con i limiti e le cadute di ogni essere umano, di prendere sul serio il Vangelo. […]
L’inferno non è un’invenzione
In quel testo fondamentale dell’insegnamento della Chiesa che è il Catechismo, quello interamente rinnovato, redatto per volontà di san Giovanni Paolo II e sotto la direzione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger (un testo che ha fatto del tut- to suo lo spirito del Vaticano II) gli autori ammoniscono: «Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione». Sono proprio questi appelli (alla responsabilità e alla con- versione) che sono al centro del messaggio di Fatima e che lo rendono più che mai urgente e attuale: certamente ancor più di quando Maria apparve alla Cova da Iria.
Da decenni, ormai, dalla predicazione cattolica sono scomparsi i Novissimi, come li chiama la teologia: morte, giudizio, inferno, paradiso. Una reticenza clericale che ha rimosso, anzi, in fondo rinnegato, il vecchio, salutare adagio che ha salvato tante generazioni di credenti: l’inizio della sapienza è il timor di Dio. Nella storia dei santi, questa consapevolezza di un possibile fallimento eterno ha costituito un pungolo costante per la pratica sino in fondo delle virtù. Sapevano che l’esistenza dell’inferno non è un segno di crudeltà divina bensì di rispetto radicale: il rispetto del Creatore per la libertà concessa alle sue creature, fino al punto di permettere loro di scegliere la separazione definitiva.
Sia nella teologia che nella pastorale di oggi il doveroso annuncio della misericordia non è unito all’annuncio altrettanto doveroso della giustizia. Ma se in Dio convivono in dimensione infinita tutte le virtù, può mancare in Lui quella virtù della giustizia che la Chiesa - ispirata dallo Spirito Santo, ma seguendo anche il senso comune - ha messo tra quelle cardinali? Non mancano teologi, anche rispettati e noti, che vorrebbero amputare una parte essenziale della Scrittura, rimuovendo ciò che infastidisce coloro che si credono più generosi e buoni di Dio. Dicono, dunque: «L’inferno non esiste. Ma, se esiste, è vuoto».
Peccato che la Vergine Maria non sia di questo parere... È vero che la Chiesa ha sempre affermato la salvezza certa di alcuni suoi figli, proclamandoli beati e santi. E la stessa Chiesa non ha mai voluto proclamare la dannazione di alcuno, lasciando giustamente a Dio l’ultimo giudizio. Chi dicesse tuttavia che un inferno potrebbe anche esistere ma che sarebbe vuoto, meriterebbe la replica: «Vuoto? Ma ciò non esclude la terribile possibilità che siamo tu e io a inaugurarlo». Qualcun altro ha ipotizzato che la dannazione sia solo temporanea, non eterna: ma pure questo si scontra con le nette parole del Cristo, che parla più volte di pena senza fine. Dunque, a vari concili non è stato difficile respingere una simile possibilità, senza alcun appoggio nella Scrittura.
«Pregate, pregate molto»
[…] nell’apparizione più importante, quella del 13 luglio 1917, avvenne ciò che suor Lucia narrerà così, nel 1941, nella famosa lettera al suo vescovo:
«Il segreto affidatoci dalla Vergine consta di tre parti distinte, due delle quali sto per rivelare. La prima, dunque, fu la visione dell’inferno. La Madonna ci mostrò un grande mare di fuoco, che sembrava stare sotto terra. Immersi in quel fuoco i demoni e le anime, come se fossero braci trasparenti e nere o bronzee, con forma umana fluttuavano nell’incendio, portate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo, cadendo da tutte le parti simili al cadere delle scintille nei grandi incendi, senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e disperazione, che mettevano orrore e facevano tremare dalla paura...». […] Giacinta, spirando tre anni dopo, ancora bambina di 10 anni e ancora sconvolta per quello che aveva visto in quei pochi istanti, dirà sul letto di morte: «Se solo potessi mostrare l’inferno ai peccatori, farebbero di tutto per evitarlo cambiando vita». […simili visioni dell’inferno non sono affatto isolate nella storia della Chiesa. Scorgere questa terribile realtà è un’esperienza che hanno vissuto molti santi e sante. E la loro credibilità anche psicologica e mentale è stata vagliata con rigore nei processi canonici. Per limitarci alle più note e venerate delle sante ecco, tra le altre, santa Teresa d’Avila, santa Veronica Giuliani, santa Faustina Kowalska. E, tra gli uomini, poteva forse mancare quel san Pio da Pietrelcina, lo stigmatizzato che visse nel soprannaturale come fosse la condizione più naturale, al punto di stupirsi che gli altri non vedessero quel che lui vedeva?
A Fatima, a conferma della centralità nel messaggio del pericolo di perdersi, sta anche il fatto che l’Apparsa insegna ai veggenti una preghiera da ripetere nel rosario dopo ogni decina di Ave Maria. Preghiera che ha avuto una straordinaria accoglienza nel mondo cattolico, tanto che è recitata ovunque si preghi con la corona mariana e che dice: «Gesù mio, perdona le nostre colpe, preservaci dal fuoco dell’inferno e porta in Cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della tua misericordia». Parole, come si vede, tutte centrate sui Novissimi e detta- te ai bambini dalla Vergine stessa. Ciò che soprattutto il cristiano deve implorare è la salvezza dal «fuoco dell’inferno», oltre a chiedere alla misericordia divina una sorta di sconto di pena per chi soffre in purgatorio. Dirà la Madonna, «con aria assai addolorata», come annota suor Lucia: «Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori. Molte anime vanno infatti all’inferno perché non c’è nessuno che preghi e si sacrifichi per loro».
Sotto il suo mantello
Ma torniamo alle ultime righe del resoconto della testimone Lucia, dopo la visione della sorte terribile dei peccatori impenitenti: «Alzammo gli occhi alla Madonna, che ci disse con bontà e tristezza: “Avete visto l’inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarli, Dio vuole istituire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato. Se faranno quel che vi dirò, molte anime si salveranno”». Ecco, dunque, il consolante tocco tutto cristiano, anzi cattolico […]. La verità impone di ricordare che corrono un grave rischio gli uomini immemori della serietà del Vangelo. Ma la misericordia del Cielo è subito pronta a proporre un rimedio: rifugiarsi sotto il mantello di lei, Maria, confidare nel suo Cuore Immacolato, aperto a chiunque chieda la sua materna intercessione. […]
Il peso crescente del peccato è grave, ma sono indicati i rimedi e, soprattutto, l’Apparsa ha in serbo un happy end, con le parole giustamente famose e giustamente fonte di speranza per i credenti. Infatti, dopo avere profetizzato le molte tribolazioni del futuro, Maria annuncia, a nome del Figlio: «Alla fine, il mio Cuore Immacolato trionferà». Perciò la salvezza personale è possibile - ed è sorretta dal Cielo stesso - pur nel dilagare dell’iniquità. Ma possiamo anche sperare nella conversione del mondo, in un futuro imprecisato e che Dio solo conosce, confidando nel cuore della Madre di Cristo, potente avvocata della causa dell’umanità.
A che «servono» le apparizioni? […] Fatima è tra le risposte maggiori, per un mondo che sempre più dimenticava, e oggi ancor più dimentica, il significato vero della vita sulla terra e la sua continuazione nell’eternità. Fatima è un messaggio «duro» che, nel linguaggio odierno, diremmo «politicamente scorretto»: proprio per questo è evangelico, nella sua rivelazione della verità e nel suo rifiuto di ipocrisie, eufemismi, rimozioni. Ma, come sempre in ciò che è davvero cattolico, dove tutti gli opposti convivono in una sintesi vitale, la «durezza» convive con la tenerezza, la giustizia con la misericordia, la minaccia con la speranza. Così, l’avviso che ci è giunto dal Portogallo è, al contempo, inquietante e consolante.
lanuovabq

Martedì della IV settimana del Tempo Ordinario. Commento audio al Vangelo

lunedì 30 gennaio 2017

Sale della terra e luce del mondo

Lucerna a navicella con gli Apostoli Pietro e Paolo, Fine del IV - primi anni del V sec. d. C., Bronzo fuso (tecnica a cera persa) con inserzioni e ritocchi a cesello, proveniente da Roma, Domus dei Valerii/Oratorio di Sant'Erasmo conservata a Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
Lucerna a navicella con gli Apostoli Pietro e Paolo, Fine del IV - primi anni del V sec. d. C., Bronzo fuso (tecnica a cera persa) con inserzioni e ritocchi a cesello, proveniente da Roma, Domus dei Valerii/Oratorio di Sant'Erasmo conservata a Firenze, Museo Archeologico Nazionale

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V domenica del tempo ordinario
di ENZO BIANCHI

Brevi note sulle altre letture bibliche

Isaia 58,7-10

In ogni comunità si registrano situazioni di contraddizione alla parola di Dio. Sono ore di oscurità, di nebbia. Continuano le liturgie, si mantengono vive le istituzioni, ma non c’è più autentica missione verso il mondo né sapore nella vita dei credenti. Il profeta Isaia intravede una tale situazione e allora richiama tutti a tornare alla concreta obbedienza alla volontà di Dio. C’è un digiuno, quello del condividere, dello spezzare il pane con il povero, che è più decisivo e autentico di quello dal cibo. C’è un fare misericordia ai bisognosi che è più importante delle liturgie al tempio. Se vi sarà questo comportamento, allora la comunità dei credenti brillerà di luce, riprenderà forza e convinzione, e sarà perciò missionaria nel mondo.

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «13 Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente.
14 Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15 né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16 Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.»

Ai destinatari delle beatitudini (cf. Mt 5,1-12), a quelli a cui è donato il regno dei cieli, Gesù indirizza altre parole, per rivelare la loro identità: sale della terra, luce del mondo, città collocata sopra un monte. Anche queste parole rivelano il motivo delle beatitudini: i discepoli autentici sono felicitati, colmi di beatitudine, perché sono anche portatori di cose buone e necessarie a tutti gli esseri umani. A loro è promessa una ricompensa grande nei cieli, ma già ora hanno una responsabilità, un significato, una missione nella storia umana.
Nella nostra vita ci sono cose essenziali, di cui si ha bisogno, e per gli antichi la luce e il sale erano considerati tali: senza la luce non era possibile la vita e senza il sale la vita sarebbe stata priva di gusto. Ecco allora la prima dichiarazione di Gesù: “Voi siete il sale della terra”. Innanzitutto va messo in risalto il “voi”, che nel vangelo secondo Matteo viene spesso usato da Gesù per indicare non singoli individui alla sua sequela, ma una comunità, un corpo. Si pensi solo all’affermazione: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). Ovvero, nella relazione con il mondo i cristiani devono essere sale e luce, ma nelle relazioni tra loro sono fratelli, ed è proprio questa fraternità vissuta nell’amore intelligente (cf. Mc 9,50) che, come luce, può diffondersi in mezzo a tutta l’umanità.
Ma perché i discepoli possono essere “sale della terra”? Perché nell’antichità, così come oggi, il sale aveva e ha soprattutto due funzioni: dare gusto al cibo e conservare gli alimenti, avendo la capacità di purificare e di impedire la decomposizione. L’immagine è ardita ma riesce a colpire chi ascolta: tutti cerchiamo di dare sapore alla vita, di lottare contro la decomposizione, e i cristiani in particolare sono chiamati ad adempiere questo compito specifico. Chi cucina, sa che mettere il sale nei cibi richiede discernimento e misura, ma è soprattutto consapevole di compiere questa azione per dare gusto. Ebbene, i cristiani devono esercitare tale discernimento e conoscere la “misura” della loro presenza tra gli uomini: solidarietà fino a “nascondersi” come il sale negli alimenti, e misura, discrezione, consapevolezza di essere solo apportatori di gusto. Nell’Antico Testamento è testimoniata anche “l’alleanza del sale” (Nm 18,192Cr 13,5), cioè un patto stipulato spargendo sale, per esprimerne la perseveranza fedele. Insomma, come il sale, la comunità cristiana inocula diastasi nella società, invita a resistere alla decomposizione, al venir meno dell’umanizzazione. Ma Gesù avverte che, per svolgere nel mondo la funzione del sale, occorre essere autentici e non diventare insipidi. Se il sale non mantiene la sua qualità, allora non serve più, ma può essere solo buttato via; così anche la comunità cristiana, se diviene mondana, appiattendosi sul “così fan tutti”, se non è più capace di avere la sua specificità, la “differenza cristiana”, non ha più ragione di essere.
Segue la seconda immagine utilizzata da Gesù: “Voi siete la luce del mondo”. Nel quarto vangelo Gesù stesso dice di sé: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), rivelazione che illumina questa parola del vangelo secondo Matteo. La comunità cristiana è associata al suo Signore e Maestro: non risplende di luce propria, ma la riceve e la riflette. La luce è essenziale per la vita sulla terra: senza il sole, la terra sarebbe un morto deserto. La luce è la vita, per questo Dio è celebrato nelle Scritture mediante questa metafora: egli è fonte della luce (cf. Sal 36,10), è “splendente di luce” (Sal 76,5), è “avvolto in un manto di luce” (Sal 104,2), e perciò il suo insegnamento, le sue parole sono luce. Come suo riverbero, anche i protagonisti di una missione voluta da lui sono luce: Gerusalemme come luogo da cui esce la parola del Signore (cf. Is 60,1-3), il Servo del Signore costituito “luce per le genti” (Is 42,6; 49,6). Per questo anche la comunità di Gesù è detta “luce del mondo”: non è il sole, ma è una realtà illuminata dal “sole di giustizia” (Ml 3,20), dal “sole che sorge dall’alto” (Lc 1,78). I cristiani sono dunque “figli della luce” (Lc 16,8Gv 12,36Ef 5,8; 1Ts 5,5) e devono brillare come stelle annunciando la parola di vita (cf. Fil 2,15-16).
La vocazione di Gerusalemme è dunque ora vocazione della comunità cristiana che, proprio in quanto realtà illuminata dal Signore, può attirare a sé gli sguardi e i cammini di tutta l’umanità (cf. Is 2,1-5; 60). L’immagine della città sul monte, percepibile di lontano quale punto di orientamento, illustra bene la missione della comunità cristiana: illuminare, orientare i cammini dell’umanità. Questa attrazione è un dovere, una responsabilità. Ma si faccia attenzione: non si tratta di assumere un’ostentazione trionfalistica o di risplendere a tal punto da accecare gli altri. Si tratta semplicemente di dimorare là dove Dio ci ha dato di stare, senza preoccuparci troppo: ovvero, di non impedire alla luce ricevuta dal Signore di rifrangersi e ricadere sugli altri. Nessuna ostentazione, come quella di certi ipocriti che Gesù rimprovera (cf. Mt 6,1-2.5.16), nessuna ansietà di convertire o di far vedere ciò di cui siamo capaci, ma la semplice e umile capacità di lasciare che la luce donataci dal Signore si diffonda. Conosciamo bene la tentazione che assale noi credenti: diciamo di voler “dare testimonianza” e così presentiamo agli altri la nostra vita, le nostre opere, le nostre storie, per ricevere consensi e applausi. Come non denunciare l’imperversare negli ultimi decenni della moda, diffusa in molte assemblee ecclesiali, del racconto di sé come testimonianza? No, il discepolo autentico si ignora, non festeggia se stesso o la realtà a cui appartiene, ma celebra il Signore e la sua grazia mai meritata.
Infine, Gesù parla per la prima volta del “Padre vostro che è nei cieli”. È lui che deve essere glorificato, a lui va riconosciuta l’origine di ogni buona azione: quelle azioni compiute dal discepolo di Cristo, quelle opere di misericordia e di giustizia richieste già dal profeta Isaia al popolo di Dio (cf. prima lettura), quando sono viste dagli altri possono causare in loro il riconoscimento dell’amore operante di Dio, che per tutti è il Padre che è nei cieli. Ecco dunque come la chiesa, nella feconda dialettica tra nascondimento e rivelazione, può stare nel mondo senza integralismi e senza essere militante, ma predisponendo tutto puntualmente affinché la parola del Signore operi in lei e tra gli uomini e le donne della terra.
Essere sale e luce non può mai essere per il cristiano e per la comunità cristiana nel suo insieme un dato acquisito una volta per tutte, una garanzia, ma è sempre un evento di grazia che avviene quando c’è obbedienza del credente e della comunità alla parola del Signore Gesù, quando si custodisce e si realizza la parola del Vangelo. Non si dimentichi che i cristiani sono dei “chiamati” (ékkletoi) dal Signore nella sua chiesa (ekklesía), ma questa vocazione può da loro essere mutata in de-vocazione: sì, possiamo ritornare indietro, perdere il sapore, opacizzare e affievolire la luce ricevuta dal Signore.