giovedì 26 gennaio 2017

In presa diretta



S’intitola "In viaggio" (Piemme) l’ultimo libro di Andrea Tornielli presentato nel pomeriggio del 26 gennaio a Roma in un incontro moderato da Maurizio Molinari, direttore della «Stampa», e a cui partecipa Alexander Avdeev, ambasciatore di Russia presso la Santa Sede. Anticipiamo quasi per intero l’intervento del sostituto della Segreteria di Stato.
(Angelo Becciu) Il libro è il racconto in presa diretta dei viaggi apostolici del Santo Padre in questi quasi quattro anni di pontificato. L’autore merita il giusto riconoscimento per essere riuscito a cogliere gli aspetti simbolici delle visite apostoliche e per l’abilità con cui è stato in grado di far trasparire, dalla cronaca degli eventi, lo stile sobrio e profetico di Papa Francesco. A dire il vero, l’autore si è concentrato sui viaggi internazionali, con l’eccezione della prima trasferta del pontificato, quella singolare e significativa nell’isola di Lampedusa, dove il Papa si volle recare decidendo in pochissimi giorni il viaggio. Lo decise dopo essere stato profondamente colpito dalle notizie dei barconi di migranti rovesciatisi nel Mar Mediterraneo, quegli abissi divenuti la tomba di migliaia di bambini, di tante nostre sorelle e fratelli.
Francesco, dal 2013, come avevano fatto i predecessori, ha aggiunto il suo tocco personale ai viaggi apostolici, anch’egli senza rinunciarvi. Il Santo Padre cerca di acconsentire, tra i tanti inviti che riceve, specialmente a quelli provenienti da Paesi per i quali ritiene che la sua presenza possa essere di aiuto e di incoraggiamento, perché stanno vivendo una transizione difficile o perché sono appena usciti da periodi di guerre civili e di conflitti interreligiosi. Si comprendono in quest’ottica il viaggio in America latina nel 2015, i viaggi in Asia e Africa, come pure quelli finora compiuti nel continente europeo e le preferenze accordate ai martoriati Balcani o all’isola greca di Lesbo, porto d’approdo di migliaia di rifugiati e migranti, molti dei quali sfollati da zone di guerra e da situazioni su cui troppo spesso noi abbiamo fatto finta di non vedere.
Una delle costanti, direi irrinunciabili, per l’attuale successore di Pietro, anche quando viaggia, è il contatto continuo e per quanto possibile libero con la gente. Nel libro vengono ricordate le ragioni che spinsero Francesco a non utilizzare la cosiddetta papamobile con i vetri antiproiettile, sulla quale erano saliti i suoi due immediati predecessori. Il Papa, alla vigilia della partenza per il viaggio apostolico in Brasile nel luglio 2013 — la sua prima trasferta internazionale motivata dalla giornata mondiale della gioventù già a suo tempo stabilita da Benedetto XVI — volle scegliere il mezzo sul quale avrebbe viaggiato tra la folla, un mezzo aperto, che gli permettesse in ogni istante il contatto diretto con le persone, il contatto tra il pastore e il suo popolo.
Permettetemi ora alcuni brevi ricordi personali sul viaggio che ritengo essere stato uno dei più significativi del pontificato. Mi riferisco a quello del novembre 2015 nella Repubblica Centrafricana, terza e ultima tappa — rimasta in forse fino all’ultimo — di una trasferta in Africa che aveva dapprima toccato il Kenya e l’Uganda. In tanti avevano provato a dissuadere Francesco, facendo presente i rischi a cui sarebbe andato incontro nella capitale di un paese ancora teatro di episodi cruenti di guerriglia, con rapimenti e uccisioni. Ricordo bene che il Papa disse chiaramente di non essere preoccupato per eventuali pericoli che riguardassero la sua persona. Ma di esserlo, invece, per eventuali rischi riguardanti la folla di fedeli presenti alle cerimonie pubbliche o le persone radunate lungo le strade per accoglierlo e salutarlo. Come pure si disse preoccupato del pericolo per chi viaggiava con lui, per il suo seguito composto dai più stretti collaboratori della curia, i cerimonieri, il personale di sicurezza, i giornalisti.
In un documentato capitolo del libro, l’autore racconta del prezioso lavoro svolto dietro le quinte per assicurare una tregua in grado di reggere almeno durante quel giorno e mezzo di visita papale a Bangui. I capi delle fazioni in lotta vennero contattati e accettarono di accordarsi. A colpirmi molto, appena arrivati all’aeroporto della capitale centrafricana, fu la straordinaria accoglienza della gente. Tutta la città si era riversata sulle strade per acclamare il pellegrino di Roma intenzionato ad aprire con l’anticipo di una settimana la prima porta santa del giubileo straordinario della Misericordia in quel paese poverissimo e dimenticato da tutti.
Da tutti, ma non dal Papa. Ricordo la commozione della presidente del governo di transizione, Catherine Samba-Panza. E l’accoglienza che tributarono non soltanto a Francesco, ma a tutti noi, i bambini del campo profughi: sguardi, gesti, segni, parole che ci dicevano: «Grazie per essere venuti fin qui, sfidando tutto e tutti! Vi vogliamo bene e non siamo un Paese così pericoloso come ci hanno descritto!». Prima della messa celebrata dal Santo Padre allo stadio Barthélemy Boganda di Bangui, i responsabili delle fazioni Seleka e Anti-Balaka vennero in sacrestia per mettere nelle mie mani la tregua siglata perché la consegnassi a Francesco. Il giorno prima il Papa aveva aperto la porta santa e spiegato perché Bangui, la dimenticata Bangui, quel giorno fosse diventata «la capitale spirituale del mondo».
E quanto all’importanza dei gesti che accompagnano la parola, nella conversazione con l’autore che apre questo libro, il Santo Padre ha spiegato: «In alcune circostanze non posso parlare senza gesti. Non mi basta leggere un testo, devo anche fare qualcosa. In Kenya, nel novembre 2015, allo stadio di Kasarani, con i giovani: dovevo parlare contro il tribalismo, contro i conflitti derivanti dall’appartenenza alle diverse tribù. Ho detto parlando a braccio che il tribalismo si vince con l’orecchio, chiedendo al fratello perché è così e sapendolo ascoltare. Si vince con il cuore, con il dialogo e con la mano tesa al dialogo. Poi ho invitato alcuni giovani ad avvicinarsi e ho chiesto ai presenti — credo fossero circa settantamila — di alzarsi in piedi tenendosi tutti per mano, come segno contro il tribalismo: siamo un’unica nazione e i nostri cuori devono essere come le nostre mani che si stringono. Anche le autorità presenti, compreso il presidente Uhuru Kenyatta, hanno compiuto questo gesto... Sempre per rimanere ai gesti: è stato bello accogliere sulla papamobile l’Imam di Bangui, quando ho salutato gli abitanti del quartiere musulmano radunati in un piccolo stadio. È un piccolo segno scendere dall’aereo, in Armenia, a Gyumri, insieme al catholicos, fianco a fianco, come si addice a due fratelli. A volte i gesti, anche piccoli, dicono più di tante parole».
Il Papa viaggia per annunciare il Vangelo, per confermare i fratelli nella fede, per promuovere la convivenza, la fraternità tra religioni, etnie e popoli diversi. Non rappresenta una potenza terrena, non ha poteri, non ha interessi di tipo economico o strategico. Il Papa viaggia per incoraggiare processi positivi in atto, per innaffiare — anche soltanto un poco — semi di speranza. E agisce attraverso i suoi rappresentanti nei vari paesi del mondo per favorire la pace, le soluzioni negoziate, il dialogo.
Talvolta — e anche questo è documentato nel libro — il suo contributo, sempre umile, intessuto di preghiera e affidato alle circostanze stabilite dal Signore della storia, porta a piccoli o anche a più significativi risultati. Talvolta è destinato a rimanere per il momento soltanto un piccolo segno, un seme, una testimonianza, una fiammella nella notte buia dell’odio, del terrore, della guerra, dell’incomprensione. Nello già citato colloquio con l’autore, Francesco, parlando di tutti i suoi viaggi e della fatica fisica e psicologica che questi comportano, dice: «Porto sempre con me volti, testimonianze, immagini, esperienze... Una ricchezza inimmaginabile, che mi fa sempre dire: ne è valsa la pena».

L'Osservatore Romano