lunedì 27 marzo 2017

Le crepe del sogno europeo



di Davide Vairani
Sessant’anni dei Trattati di Roma quale inizio dell’unità europea: che cosa stiamo celebrando in questi giorni? Il ricordo di un evento lontano e sepolto nel tempo o la speranza che davvero si possa costruire un’Europa dei Popoli? L’attentato di matrice islamista a Londra non è che l’ultimo episodio in ordine cronologico che evidenzia le macroscopiche crepe del sogno europeo dei nostri padri fondatori.
Il linguaggio è un termometro fondamentale per cogliere ciò che la gente comune respira. Sovranismo, nazionalismo e populismo non a caso sono i termini che oggi più che mai leggiamo sui media e che in forme e con terminologie forse meno sofisticate si respira nei bar, nei mercati tra la le gente.
Marcello Veneziani in una intervista di qualche giorno fa’ provocava: “Ma non vi infastidisce questo coro assordante e monotono che ogni santo giorno, dappertutto – tv, radio, giornali, istituzioni, partiti e governi – vi dice sempre la stessa cosa contro il Gatto Mammone del Populismo? Attenti al populista, ripetono in coro ovunque, è xenofobo, è sessuofobo, è razzista, ci porta fuori dall’Europa, dal Mercato, dalla Modernità. Poi aggiungono che il populismo si fonda sulla paura quando invece è proprio sulla paura del populismo, sul terrore ideologico e mediatico quotidianamente propagato che si fonda l’Appello Permanente contro l’Orco populista, dall’Olanda alla Brexit, dagli Usa all’Ungheria, dalla Polonia alla Germania, dalla Francia all’Italia”.
Gli “ismi” in politica sono sempre contraddistinti da una connotazione negativa. Qualcuno si è preso anche la briga di contarli. Pare siano cinquantadue, come attesta un libro (“Gli ismi della politica”, a cura di Angelo D’Orsi, collana Norberto Bobbio, casa editrice Viella): da Anarchismo a Liberalismo, da Fascismo a Marxismo, da Comunismo a Terrorismo, da Fondamentalismo a Laicismo, da Antiamericanismo a Pacifismo, da Leghismo e Meridionalismo, da Berlusconismo a Renzismo.
Gli “ismi” presuppongono un’estremizzazione della parola da cui derivano in questo senso gli estremismi che sono sempre del tutto positivi o del tutto negativi. Il suffisso nasce con la civiltà greca ma è nell’ottocento che acquista il significato di astratto, di fazione o di sistema dottrinario: Naturalismo, Realismo, Idealismo. Nei novecento “ismo” indica la degenerazione di un qualcosa d’iniziale, una sua demonizzazione: Consumismo, Materialismo, Keynesismo. Il nostro secolo sembra essere iniziato con la stigmatizzazione di “ismi”: totalitarismi, dogmatismi, revisionismi. Gli “ismi”, come ha detto il filosofo Horkheimer appartenente al Pragmatismo, devono essere superati per giungere a una dimensione autentica della realtà che porta alla vera e unica comprensione. Comunque sia, gli “ismi” ci spiazzano, ci affascinano: perché (comunque la si pensi) non fanno altro che tradurre in parole un sentore comune, una sensazione diffusa, presunta o vera che sia. Traducono un dato sul quale non si può fare finta di niente o – peggio ancora – respingere insultando.
Il punto vero qual è? Che la politica non può permettersi oggi più che mai due estremi: banalizzarli, come fa una certa sinistra, oppure cavalcarli per ottenere più voti, come vediamo da più parti. Non è certamente con la retorica di richiamo a valori comuni che si risolve la questione: di che valori comuni stiamo parlando? Dei tecno-burocrati europei? Della moneta e delle banche che hanno mandato al tappeto milioni di persone e che sono state salvate da questa Unione Europea?
“Mai lo sforzo di capire, di ragionare sul malessere e sul perché mezza Europa, nonostante questo tam tam ossessivo, poi sceglie i populisti o per disprezzo della politica non va a votare – scrive sempre Veneziani-. Il problema da cui partire non è l’insorgenza di una patologia chiamata populismo, ma la malattia che origina e giustifica il suo espandersi: il fallimento delle democrazie non più rappresentative, il potere usurpato dalle oligarchie, il disagio sociale e civile per l’immigrazione massiccia e clandestina, la decrescita infelice del capitalismo, gli effetti di ritorno della globalizzazione, la retorica del politically correct”.
Sovranismo, nazionalismo e populismo. Se andiamo alla radice di questi termini in realtà scopriamo che non tutto è da buttare (anzi). Il sovranismo, dal francese souverainisme – secondo la definizione che ne dà la l’enciclopedia Larousse – è una dottrina politica che sostiene la preservazione o la ri-aquisizione della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in contrapposizione alle istanze e alle politiche delle organizzazioni internazionali e sovra-nazionali. Oppure – possiamo leggere in un altro dizionario-: “Potere sovrano di una nazione o di una persona non soggetta ad altro potere nelle forme e nei limiti di un diritto riconosciuto: il principio della sovranità delle nazioni; diritti di sovranità; sovranità statale, nazionale”
Nazionalismo: “Dottrina che sostiene la priorità assoluta dell’idea di nazione o del principio di nazionalità in ogni campo. Politica che tende ad attuare tale dottrina”. Oppure: “ideologia o prassi ispirata all’esaltazione del concetto di nazione, che si risolve nell’autoritaria affermazione di valori che trascendono le esigenze della realtà politica e sociale dei paesi stranieri”. Populismo: atteggiamento o movimento politico tendente a esaltare il ruolo e i valori delle classi popolari; spreg. Atteggiamento demagogico volto ad assecondare le aspettative del popolo, indipendentemente da ogni valutazione del loro contenuto, della loro opportunità;
movimento rivoluzionario russo della fine del sec. XIX, che propugnava l’emancipazione delle classi contadine e dei servi della gleba attraverso la realizzazione di una sorta di socialismo rurale; in ambito artistico, raffigurazione idealizzata del popolo, presentato come modello etico positivo.
Il nazionalismo è stato la cornice ideologica di un assetto fondato sul darwinismo sociale all’interno degli Stati, e sul mercantilismo nei rapporti tra essi, in un quadro internazionale caratterizzato dalla crescente globalizzazione degli scambi di merci e capitali, che raggiunse il suo acme alla vigilia della prima guerra mondiale. La convinzione era che la concorrenza mercantile tra gli Stati e il darwinismo sociale costituissero una sorta di “stato di natura” delle cose, sostanzialmente non modificabile ma da sfruttare per mantenere, o portare al potere, una determinata classe sociale, come pure conservare o conquistare una maggiore potenza per la propria nazione. Anche a me non piace il neologismo”sovranismo”, a cui non corrisponde il significato semantico della parola “sovranità” quale potere del popolo nelle democrazie. “Mi si chiede – scrive C.S.Lewis -, cosa è la sovranità. Incredibile dictu et auditu,non mi sono mai posto la domanda. Ho studiato malamente Schmitt e Hobbes, ancora più malamente Kelsen, e sarebbe ora che studiassi forse anche Bodin e Rousseau. Ma al momento mi sono fatto questa idea. Il sovranista è colui che crede che un problema comune richieda un decisore comune di ultima istanza. Lo stato hobbesiano che  fa finire il bellum omnium contra omnes con il suo potere assoluto e indiscutibile, e il sovrano totale schmittiano che decide nello stato di eccezione sono esempi di sovranità. L’alternativa al sovranismo è un insieme di regole comuni, efficaci in quanto comunemente accettate. Il sovranista non può spiegare perché esistono degli stati, e perché esiste il diritto internazionale. Ma una volta accettato che esista il diritto internazionale, la necessità di avere un decisione comune si perde anche nel diritto domestico. Da cui l’inadeguatezza del giuspositivismo, una teoria del diritto che è sociologicamente rilevante solo nei casi in cui esista un sovrano hobbesiano, onnipotente e illimitato nella sua volontà. Ovunque lo stato non abbia un pieno controllo sociale o sia in concorrenza con altri stati vengono fuori delle norme giuridiche che sono estranee al sistema giuspositivista”.
L’osservazione di C.S. Lewis ci aiuta ad andare al fondo vero della questione. A questa Europa manca la consapevolezza della propria storia, delle proprie radici. Uso le parole del Cardinal Parolin in una recente intervista ad Andrea Tornelli (“Parolin: ‘Per rispondere ai populismi serve la buona politica’, su Vatican Insider di Andrea Tornelli, 22 Marzo 2017): “Queste radici sono la linfa vitale dell’Europa. Basti rileggere i discorsi che i protagonisti del 25 marzo 1957 tennero in Campidoglio, per scoprire come essi vedessero nel comune patrimonio cristiano un elemento fondamentale sul quale costruire la Comunità economica europea. Poi è subentrato un lento processo che ha cercato di relegare sempre più il cristianesimo all’ambito privato. È stato così necessario ricercare altri denominatori comuni, apparentemente più concreti, ma che hanno condotto a quel vuoto di valori cui accennavo prima, con gli esiti che abbiamo dinanzi agli occhi di società sempre più frammentate. In questo contesto ritengo che i cristiani siano chiamati a offrire con convinzione la loro testimonianza di vita. ‘L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri’, diceva Paolo VI. Dai cristiani non ci si aspetta che dicano cosa fare, ma che mostrino con la loro vita la via da percorrere”. Mi hanno colpito soprattutto queste ultime parole: dai cristiani non ci si aspetta che dicano cosa fare, ma che mostrino con la loro vita la via da percorrere.
Ecco perché allora c’è bisogno come l’aria che respiriamo di nuove forze politiche, di nuove aggregazioni sociali, laicali, capaci di ritornare alle origini di questa Europa per trarne con intelligente sapienza strade nuove da percorre. Nessuno oggi tra i liberali, i moderati, i cristiano-democratici, i social-democratici e le sinistre varie riesce a fare un passo oltre la diffusione della paura o la furbizia pre-elettorale di qualche mossa ruffiana (come è stato in Olanda contro i turchi) per recuperare credibilità e rubacchiare voti ai populisti. Perché nessuno è in grado di rilanciare in modo più rigoroso, più educato, più realistico o se preferite in modo meno grezzo, meno emozionale, meno improvvisato, una proposta politica fondata sulla sovranità nazionale e popolare, sulla riqualificazione della politica, sulla motivazione ideale delle passioni civili, sul primato del sociale sull’economico? Perché nessuna forza dell’establishment riesce in modo convincente a rappresentare l’amor patrio e il senso della comunità, la tradizione, l’identità e il destino dei popoli e a prendersi cura delle sue fasce più esacerbate e ferite, i giovani e gli anziani, lasciando che di queste cose si occupino solo i populisti? “Se l’onda populista è un fenomeno di pancia e di istinti, carente di cultura e di storia, priva di un criterio meritocratico per selezionare i suoi dirigenti – scrive ancora Veneziani -, mi dite qual è la forza antipopulista che si fondi sulla cultura e la storia e selezioni la sua classe dirigente per merito e qualità?”. L’unico modo per affrontare e sconfiggere il populismo non è demonizzarlo per escluderlo, ma è riprendere con dignità e competenza le istanze captate dai leader populisti e dai loro movimenti, rilanciando la Grande Politica e rispondendo al disagio dei cittadini. Il populismo crescerà fino a quando non ci sarà nessuno in grado di prenderne il posto in modo più affidabile ed efficace.