sabato 29 aprile 2017

Cristiani insieme al Cairo

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29 aprile 2017 di ENZO BIANCHI
“Attendiamo il giorno benedetto in cui potremo insieme spezzare il pane sul sacro altare”. A questo desiderio ardente espresso da papa Tawadros hanno fatto eco le parole di papa Francesco: “Non possiamo più pensare di andare avanti ciascuno per la sua strada, perché tradiremmo la volontà di Dio… Unico è il nostro martirologio! Le vostre sofferenze sono anche le nostre e preparano un avvenire di comunione piena tra noi e di pace per tutti". Animati da questo spirito i successori di san Pietro e di san Marco hanno voluto firmare il comune impegno “a non ripetere il sacramento del battesimo, praticato nelle nostre chiese, a favore della persona che intende unirsi all’altra Chiesa” prima di recarsi a pregare insieme nella chiesa di San Pietro attigua al patriarcato copto, una chiesa che reca ancora i segni del sangue versato il Natale scorso da tanti fedeli. Lì si sono uniti a loro il patriarca di Costantinopoli Bartholomeos, quello greco-ortodosso di Alessandria, Teodoros II, l’intero corpo episcopale copto-ortodosso e i vescovi delle altre confessioni cristiane presenti in Egitto, in un momento assolutamente inedito e memorabile del lungo cammino ecumenico.
Sì, l’enorme portata interreligiosa del viaggio di papa Francesco al Cairo non deve oscurarne i risvolti ecumenici, di comunione tra confessioni cristiane divise da secoli. Questa visita è giunta in risposta all’invito dell’imam Al-Tayyb a partecipare alla conferenza sulla pace tenuta nella massima università sunnita di Al-Azhar ed è stata segnata dall’intensità del dialogo con la massima autorità dell’islam sunnita: un forte segno di incoraggiamento a proseguire sul cammino comune del rifiuto di ogni violenza e dell’abuso del riferimento religioso per giustificare l’ingiustificabile. Già le scorse settimane Al-Azhar aveva ospitato un conferenza internazionale sul concetto di “cittadinanza” che accomuna tutti gli uomini e le donne che vivono in una nazione indipendentemente dalla loro fede, ma ieri papa Francesco e l’imam hanno voluto sancire pubblicamente, agli occhi del mondo intero, la loro convergenza nel messaggio di misericordia, amore, giustizia e pace che proviene dalle rispettive fedi. Il comune richiamo all’importanza dell’educazione dei giovani, dell’attenzione ai più poveri, dell’accoglienza di quanti rischiamo di essere scartati dalla società, la comune condanna di quanti fomentano e armano l’odio hanno mostrato l’universalità dei valori che plasmano l’essere umano e la convivenza civile: un appello quanto mai necessario e urgente non solo per il martoriato Medioriente e per i paesi del Mediterraneo, ma anche per l’Europa e il mondo intero.
Ma la coraggiosa accettazione da parte di papa Francesco dell’invito a questo seminario sulla pace si è trasformata in un’opportunità unica anche per il dialogo ecumenico. Infatti, non solo il patriarca ecumenico Bartholomeos ha accettato a sua volta di partecipare, facendosi latore di un forte messaggio di pace, come aveva fatto il giorno precedente il pastore luterano Olaf Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico della chiese, ma papa Francesco ha voluto abbracciare “l’amato fratello Tawadros”, capo della chiesa copto-ortodossa, e trasformare questa fratellanza nella fede cristiana in un ulteriore segno della comune testimonianza resa a Cristo. Sì, ieri in Egitto i cristiani si sono mostrati capaci di parlare a più voci ma con un cuore e un’anima sola, hanno fatto delle dolorosi divisioni storiche un richiamo pressante a riprendere e continuare il “cammino insieme”, come i discepoli di Emmaus all’indomani della risurrezione di Gesù.
Se è vero che più delle parole contano i gesti e ancor più il cuore delle persone, la giornata di ieri rimarrà una pietra miliare sul cammino dell’unità dei cristiani: insieme i discepoli di Gesù di Nazareth sapranno essere testimoni e interlocutori credibili nel dialogo con i credenti dell’islam e nel lavoro quotidiano per la pace e la giustizia nel mondo, affinché gli uomini e le donne del nostro tempo possano nutrire quella speranza della vita più forte della morte cui tutti aneliamo.
Pubblicato su: La Stampa

I profeti del secondo nulla




Luigino Bruni

«Quando portò al capezzale di Geremia la bevanda pronta, egli respirava tranquillamente nel sonno. "Poiché non mi è lecito nasconderlo al mondo, come potrei nasconderlo a te madre?" … "Che cosa nascondere?" (…). "Il Signore è stato presso di me... E la sua voce mi ha parlato. E la sua voce mi manda via di qui". Gli occhi di Abi si riempirono di lacrime. Non piangeva perché il Signore era venuto a lui. Non doveva essere fiera fra tutte le donne di Giacobbe? E tuttavia il cuore di Abi di spezzava di dolore per l’elezione del figlio»
Franz Werfel, Ascoltare la voce
C'è un conflitto, una tensione radicale, tra i profeti e il potere. Per molte ragioni, ma soprattutto perché il profeta, per compito e vocazione, sa vedere la naturale tendenza di ogni potere, in primis di quello rivestito di una veste sacrale, a pervertirsi e trasformarsi in tirannia. Lo vede, lo dice, lo grida. Sa che i potenti sono inconvertibili, che l’unica azione positiva nei loro confronti è la denuncia, la critica, lo smascheramento delle loro reali intenzioni al di là delle parole belle e ruffiane. La profezia "ama" il potere criticandolo duramente, gridando la sua naturale corruzione, non convertendosi alle sue ragioni, restando salda nel suo posto di vedetta. I "buoni" re e i "buoni" capi sono coloro che sanno stare sotto i colpi della critica spietata dei profeti, che non cercano di comprarli per convertirli alle loro ragioni. Quando i profeti scompaiono o diventano falsi-profeti, la natura corrotta del potere diventa perfetta, i governi si trasformano in imperi, e noi in schiavi.

«Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Va’ e grida agli orecchi di Gerusalemme: Così dice il Signore: Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata"». (Geremia 2,1-2). Geremia, cresciuto all’ascolto dei racconti delle tribù del Nord, è profondamente legato alla tradizione dell’Alleanza, ha molto vivo il ricordo dei giorni del primo amore: «Israele era cosa sacra al Signore, la primizia del suo raccolto» (2,3). Per quella prima Alleanza, per quel primo e sempre attuale patto nuziale (Osea), YHWH aveva dato in dote al suo popolo una terra, lo aveva liberato dall’Egitto: «Ci guidò nel deserto, per una terra di steppe e di frane, per una terra arida e tenebrosa, per una terra che nessuno attraversa» (2,6). Geremia grida contro i capi del suo popolo perché Israele ha unilateralmente spezzato il patto: «Quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri, per allontanarsi da me?» (2,5).

Un tradimento totale, una infedeltà generale: «I sacerdoti non si domandarono: "Dov’è YHWH?". I detentori della legge non mi hanno conosciuto, i pastori mi si sono ribellati, i profeti hanno predetto nel nome di Baal e hanno seguìto esseri inutili» (2,8-9). La ribellione ha coinvolto i tre assi su cui si regge la vita del popolo. Importante il riferimento alla corruzione dei profeti, che sono passati al servizio del dio Baal, un elemento che ci svela un’altra dimensione della funzione profetica. La profezia non è esclusiva di Israele, e i profeti sanno riconoscere lo stesso soffio in persone di altri popoli, sanno riconoscersi tra di loro. Il peccato commesso dai profeti denunciati da Geremia è stato trasformarsi in profeti di Baal. Sono profeti che hanno cambiato dio.

Non esiste, forse, perversione spirituale più grande di quella del profeta che inizia a profetizzare in nome di un altro dio. Si può smettere di essere profeti per molte ragioni – pochi profeti restano veri profeti per tutta la vita. Perché qualche volta il compito profetico è temporaneo e dura il tempo del compito da svolgere; perché non riescono più ad ascoltare la voce, e quindi non hanno più nulla da dire (qualche volta la voce scompare davvero, altre volte è il profeta che perde la capacità di udirla); o perché il profeta non riesce a resistere al dolore che gli procura la propria vocazione, e sceglie di ritirarsi a vita privata. Queste conclusioni di storie profetiche sono possibili, molto comuni, e qualche volta buone. La fine del profeta che cambia dio è invece sempre pessima. Perché la vocazione profetica è l’incontro tra due voci personali: una che chiama per nome e l’altra che risponde al nome che lo chiama. Il profeta non falso conosce e riconosce quella voce unica, la sa distinguere tra le molte voci della vita. Quando – per denaro, per potere, per piacere, per perversione... – inizia a parlare in nome di un altro dio, diventa automaticamente falso profeta, perché non parla in nome di nessuna voce. I profeti sono inconvertibili ad altri dèi, perché sono essenzialmente-ontologicamente legati alla prima voce personale, a una parola, a una sola lingua dello spirito.

L'impossibilità del cambiamento della voce profetica è di portata universale, e vale anche quando il profeta non chiama "Dio" la voce che lo abita, o, come Etty Hillesum, la chiama, semplicemente e magnificamente, «la parte più profonda di me». Vale nell’arte, nella poesia, ma anche per chi si mette alla sequela dei grandi ideali umani. Il poeta sa che la sua vocazione è legata a una sola specifica voce che lo ha chiamato e che lo richiama dentro ogni giorno. E sa che se perde il rapporto con quella voce perde la propria vocazione e si smarrisce. Ma, nonostante ciò, qualche volta decide di profetizzare per altri "dèi" (quasi sempre il denaro e il potere). Sa che sta diventando profeta inutile del nulla, ma lo fa lo stesso: «Io amo gli stranieri, voglio andare con loro» (2,25). Questi fenomeni li ritroviamo anche nelle esperienze comunitarie, quando le vocazioni si raccolgono attorno a carismi collettivi, dove nei momenti di crisi molto forte è la tentazione di iniziare a profetizzare in nome di altri "dèi" e di riempire i propri templi con altre divinità vicine, e così smarrirsi e perdere la propria anima. Questi smarrimenti sono inevitabili nell’arco storico dello sviluppo di una comunità carismatica, che può salvarsi se almeno un profeta resta fedele e non smette di gridare le parole suggeritegli dalla voce vera. Sono inevitabili perché arriva puntuale il momento in cui il proprio "dio", se è vero, appare troppo difficile, diverso, più scomodo di quello dei popoli vicini. L’idolatria in Israele è sempre arrivata come risposta alla domanda del popolo di avere finalmente un dio come tutti gli altri: visibile, pronunciabile, toccabili, facile: «Dicono a un pezzo di legno: "Sei tu mio padre", e a una pietra: "Tu mi hai generato"» (2,27).
È questa la radice di ogni conversione idolatrica: l’incapacità di restare in una condizione spirituale imperfetta e non pienamente soddisfacente, e così trasformare Dio in un bene di consumo che risponde pienamente alle nostre preferenze religiose. Quando Dio o un ideale finisce per coincidere con la nostra idea di Dio o dell’ideale, siamo già dentro un culto idolatrico: la verità di ogni fede si trova nello scarto tra i nostri gusti e la nostra esperienza, uno scarto che è lo spazio dove possiamo ascoltare la sottile voce del silenzio della verità. Il profeta vero che diventa falso perché cambia "voce" è molto più pericoloso del falso profeta che è tale fin dall’inizio, ed è molto maggiore anche la sua infelicità. La nostalgia per la prima voce buona non lo lascia mai, e l’accompagna fedele, come spina nella carne, nelle sue peregrinazioni mercenarie: «Su ogni colle elevato e sotto ogni albero verde ti sei prostituita» (2,20). Si può ritornare alla prima voce, ma molto rari sono questi movimenti di ritorno.

Geremia, poi, è molto lucido e deciso nell’individuare la ragione dell’infedeltà: il popolo ha tradito il suo patto nuziale «per correre dietro al nulla, e diventare loro stessi nullità» (2,5). È forte e significativo il nome che il profeta dà agli idoli: nulla, vento, soffio, fumo. Usa la stessa parola diventata celebre grazie a Qohelet, hevel: vanità. Il nulla degli idoli, però, è un nulla radicalmente diverso dal nulla di Qohelet. La vanitas di Qohelet emerge sullo sfondo di un mondo svuotato dagli idoli, da una stanza liberata dalla vanitas dell’illusione. È un nulla liberatorio e vero, che dice la caducità e l’effimero della condizione umana. È un nulla pieno, come veri, pieni e liberatori sono i canti di Leopardi, o alcune pagine luminose di Nietzsche, dove il nulla appare oltre il "crepuscolo degli idoli", come epifania di una verità assente nella vanitas illusoria dei totem manufatti. 

Molta parte del cammino spirituale di una intera esistenza consiste nel liberarsi da un nulla sbagliato che appariva vero per approdare a un altro nulla radicalmente diverso. Qualche volta questo secondo nulla è l’aurora di un nuovo viaggio in cerca di una nuova verità; altre volte, il secondo nulla rimane fino alla fine: si espande, si approfondisce, cresce con noi, e ci consente di generare frutti buoni e saporiti, che sono molto simili, se non identici, a quelli che si trovano al termine della terza navigazione. Ci sono molte uomini e donne alimentati per decenni da questo secondo nulla vero, accettato, accolto e amato come la buona condizione umana oltre l’illusione consolatoria del primo nulla. Non si inizia il terzo viaggio senza essersi liberati dal primo nulla e approdare alla verità del secondo nulla: la tappa del secondo nulla è inevitabile. Molti cammini spirituali e quindi umani restano bloccati al primo nulla illusorio per la paura di affrontare il secondo nulla col suo paesaggio desertico e clima arido, e così restano servi e schiavi del nulla: «Israele è forse uno schiavo, o è nato servo in casa?» (2,14). 

Sulla terra molto numerosi sono i falsi profeti del primo nulla. Ci sono anche, rarissimi, i profeti della terza navigazione. Ma accanto ad essi e loro grandi amici si possono riconoscere i profeti del secondo nulla, che nel loro deserto spopolato sono abitati e nutriti soltanto dalla voce – e non manca nulla. Il secondo nulla non è ancora la terra promessa, ma è già una terra oltre il mare della schiavitù, che qualche volta si estende fino alle pendici del monte Nebo, dove possiamo addormentarci, insieme a Mosè, scorgendo Canaan sulla linea dell’orizzonte.
l.bruni@lumsa.it

30 Aprile 2017. III Domenica del Tempo di Pasqua. Anno A. Ambientale e commento al Vangelo

I discepoli di Emmaus


Nella terza Domenica di Pasqua, la liturgia ci propone il Vangelo dei discepoli di Emmaus che non riconoscono Gesù risorto che cammina al loro fianco se non quando, a tavola, prende il pane, lo spezza e lo dà a loro. Il Signore scompare ed essi si dicono l’un l’altro:
«Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?»,
Come i discepoli di Emmaus, non vediamo Cristo risorto che cammina al nostro fianco quando eventi particolarmente dolorosi ci coinvolgono, e non capiamo quanto ci accade. Come i loro occhi, così i nostri sono incapaci di riconoscerLo, e nel nostro cammino, come fu nel loro, talvolta discutiamo, anche nervosamente, perché dal cuore sorge imperiosa la domanda: “Perché proprio a me? Eppure ho sperato e pregato tanto…”. Il Signore, oggi come allora, si affianca con premura e ci invita a parlare: non vuole che ci isoliamo nel nostro dolore, ma che ci apriamo, ci sfoghiamo, e mette al nostro servizio i suoi ministri per ascoltarci. Poi ci ammaestra, a volte correggendoci con affetto, mostrando quanto sia necessario nella vita attraversare delle prove, portare qualche spina dolorosa, per la nostra salvezza eterna, e non di rado per la testimonianza evangelica che facilita la salvezza altrui. Infine, spezzando le Scritture e il Pane, accende i nostri cuori alla speranza e svela la sua presenza misteriosa in ogni evento. Affiancarsi a chi soffre, stemperare ansia e pena, aprire con la catechesi l’accesso alle Scritture, ai sacramenti, rinfrancando i cuori affranti, sono azioni che esprimono una Carità sublime, necessaria quanto quella che accoglie l’affamato che non ha riparo.
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SPERIMENTARE LA RESURREZIONE DI CRISTO NEL SUO AMORE CHE SUPERA I VINCOLI DEL PECCATO E DELLA CARNE E GIUNGE SUL NOSTRO CAMMINO DI OGNI GIORNO
La Pasqua è il trionfo della libertà. Il Vangelo di questa Domenica descrive la pedagogia divina, che educa l’uomo accompagnandolo sin dove la sua libertà schiava della carne lo conduce; e qui, trasformarlo nell’amore in un figlio di Dio, libero davvero per convertirsi, ovvero per ritornare “senza indugio” nel cuore della comunione e della Verità. 
E’ il Vangelo dei lontani! In piena Pasqua è il Vangelo di chi non capisce e rifiuta la Pasqua. Perché c’è anche questo, c’era nella Chiesa primitiva, c’è stato durante la storia della Chiesa, c’è oggi. E c’è una Pasqua anche per quelli che, pur avendo ascoltato che “Gesù è vivo”, non hanno celebrato nulla, incamminati in direzione opposta al Cenacolo. 
Il cammino dei due discepoli di Emmaus, infatti, è il cammino di quanti si allontanano dalla Chiesa, forse insoddisfatti perché le promesse e le aspettative sono state deluse: “Noi speravamo che Gesù fosse colui che avrebbe liberato Israele”. Noi speravamo che Dio ascoltasse le nostre preghiere, e invece niente, papà è morto, mio figlio non ha lavoro, di un fidanzato neanche l’ombra. 
Noi speravamo che nella Chiesa ci fosse amore e carità, e invece il parroco pensa solo ai soldi, le persone sono ipocrite, le messe una sentina di giudizi e ostentazione. Noi speravamo che, anche se divorziati, potessimo essere accolti e fare la comunione, e invece qui ci impediscono di ricevere proprio Colui che dicono ami tutti. 
Noi speravamo, ce lo avevano insegnato a catechismo, che esistesse Dio e che Gesù fosse risuscitato, ma erano tutte chiacchiere ingannevoli; a scuola sì che il professore di filosofia ci ha schiarito le idee: crociate, inquisizione, potere temporale, e poi lo Ior e i preti pedofili, e tutte queste leggi omofobe e sessuofobe che sembrano fatte apposta per frustrare i sentimenti e i desideri più diversi. La ragione con la sua scienza accidenti, solo questa può spiegare quello che nessun prete è stato in grado di chiarire.
Noi speravamo, e in questo “noi” ci siamo tutti, tu ed io innanzitutto, e poi i nostri figli che dopo la cresima hanno salutato la Chiesa, i parenti, gli amici, i colleghi. Tutti quelli che abbiamo avuto un contatto con Cristo e la sua Chiesa e, per un motivo o per un altro, ce ne siamo allontanati. 
Chi da molto tempo, ed è ormai preso dai tentacoli del mondo e dai suoi criteri; e chi giusto il tempo per far causa a un vicino di casa, o per chiudere la porta del cuore alla moglie, o per farsi giustizia, visto che “sono passati tre giorni” e da Dio nessuna risposta.
Ed è proprio in tutta questa confusione e ignoranza che risplende la Pasqua; proprio “mentre” siamo “in cammino”, ciascuno diretto al proprio “villaggio di nome Èmmaus”, o Roma, o Tokyo: o le idee e le ideologie, o i giudizi sui preti e su Dio stesso, o il bar dove evaporare la gioventù, o qualsiasi luogo “distante circa undici chilometri da Gerusalemme” che è immagine della Chiesa, dove cerchiamo ragione del dolore, consolazione per i fallimenti, pace per le nevrosi, e senso che ci liberi dai complessi.
Sì, anche ogni cammino che ci allontana da Dio avviene “in quello stesso giorno”, il giorno di Pasqua! La resurrezione di Cristo ci abbraccia proprio “mentre”, come i due discepoli, “conversiamo e discutiamo” cercando di capire ma senza discernimento, nell’impossibilità di accettare il piano di Dio, che la via alla felicità e alla vita piena passa per la Croce.
Quando Papa Francesco ripete di andare alle “periferie dell’esistenza” e di preoccuparsi di annunciare il Vangelo della misericordia prima di affermare i principi, ci sta indicando quanto accaduto sulla strada che conduceva a Emmaus! 
Su di essa transitano – “con il volto triste” perché lontano dalla Verità e dall’amore non c’è felicità – tutti gli “stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti”, ovvero la Chiesa e i suoi pastori, i catechisti, i genitori, e coloro che annunciano il Vangelo. Verso Emmaus camminano tutti quelli che, ingannati dal demonio, son gonfi d’orgoglio e interpretano tutto secondo le leggi dure e senza pietà della carne e del mondo. 
Tutti quelli che l’incontro con Cristo aveva sedotto, innescando speranze, forse infantili, acerbe, sentimentali. Gesù è stato importante fintanto che è stato “profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”. Ma quando “i capi dei sacerdoti e le autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso”, ci siamo scandalizzati, perché la carne non può accogliere ciò che trascende la ragione; essa è schiava della superbia “originale” che rifiuta l’amore perché è lei a dire cosa e come Dio “deve” operare. 
Abbiamo sperato in Gesù, ma non in Gesù crocifisso. E perché? Perché non ci conosciamo e non ci riconosciamo peccatori; perché chiunque si allontana da Gerusalemme non ha compreso che “bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Bisognava che entrasse nella morte dove il peccato ha spinto ogni uomo, nella tomba dove giace il tuo matrimonio o il rapporto con tuo figlio, altrimenti non avrebbe potuto salvarlo. 
Scappiamo da Gerusalemme perché la Croce non ci riguarda, questo è il punto. E non ci sono moralismi, battaglie ideali, campagne stampa, manifestazioni e referendum che tengano, se la Croce non mi riguarda personalmente anche Gerusalemme diventa un luogo opprimente, come la Chiesa e il suo Magistero. Senza l’incontro con Cristo risorto al fondo dei miei peccati, lì sul cammino verso Emmaus, è inutile ogni sforzo. 
Per questo Gesù dilata il suo Mistero Pasquale sino ai luoghi dove scappiamo delusi. Proprio qui, capito? proprio mentre discutiamo “di tutto quello che era accaduto”, della Croce e dell’annuncio della Chiesa, “Gesù in persona si avvicina e cammina con noi”. 
Gesù avanza accanto a noi proprio mentre ci allontaniamo come Adamo ed Eva – erano due anche loro… – quando si sono separati da Dio e hanno dovuto intraprendere il duro cammino fuori dal Paradiso. Come la nube della presenza di Dio che ha accompagnato il Popolo quando è dovuto andare in esilio. Come lo sguardo del Padre, che non ha mai abbandonato gli sbandamenti del figlio prodigo.
Lì dove si trova tua figlia caduta nel peccato, tuo marito che ti ha lasciato, dove sei tu, incatenato nel rancore, è oggi il Calvario, e il sepolcro dove nessuno è mai stato sepolto, e la pietra rovesciata e Cristo risorto che ci viene incontro.
Oggi e ogni giorno della storia è Pasqua, il primo giorno della settimana! Oggi la croce che mi scandalizza è già avvolta della gloria di Cristo risorto! Gesù era apparso lì in quell’istante con carne e parola, ma non aveva smesso un istante di essere con i due discepoli, a camminargli accanto, il più familiare di tutti. 
No, Gesù non è “così forestiero”, lontano dai nostri problemi, come pensiamo sedotti dalle menzogne che ascoltiamo ogni giorno. Gesù sa bene “quello che è accaduto a Gerusalemme”, era il compimento della sua missione! 
Per questo Lui è dentro ogni avvenimento di croce che insanguina la storia, nelle nostre case, negli uffici e nelle scuole, negli ospedali e negli ingorghi. Gesù è nelle ansie e nelle difficoltà del matrimonio, nella fragilità dei figli, nel timore del fidanzamento, nella fatica del lavoro e dello studio, nella stanchezza della malattia. 
Chiunque è stato anche solo un giorno nella Chiesa, chi ha fatto il catechismo, chi ha pregato con la nonna da bambino, chi è stato a un funerale, ha potuto ascoltare l’annuncio delle “donne che hanno sconvolto” i discepoli di Emmaus: “si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo”. 
E quel grido risuona, all’inizio flebilmente, ma poi imperioso, come un graffio che impedisce la felicità quando si è lontani dalla comunione d’amore con Cristo che si sperimenta nella Chiesa.
Le “donne delle nostre” sono la nostalgia di pienezza e amore che ogni uomo porta nel cuore, anche chi brancola nel buio lontano dalla Chiesa dove non è mai stato. Per questo il Vangelo di oggi è una buona notizia per tutti! 
E una chiamata a conversione per la Chiesa, perché non spenga mai l’annuncio delle donne, il Kerygma che sconvolge e lega indissolubilmente a Cristo la vita di ogni uomo, come brace viva sotto la cenere.
E Cristo è lì, come anche la Chiesa e i suoi apostoli sono chiamati a fare, accanto agli uomini che han visto incenerirsi la speranza. Cammina e ama, senza giudicare. E’ presente nei luoghi di dolore e peccato, anche dove i “discepoli” hanno perduto la fede, e non teme di sporcarsi con lo stessa terra calpestata dagli “stolti”. 
Non importa se, all’inizio, “i loro occhi sono incapaci di riconoscerlo”. Importa che Lui sia lì, a soffiare parole di amore e verità su quella cenere, a “conversare con ciascuno lungo la via, spiegando le Scritture”, sino a che non torni in loro ad “ardere il cuore”.
Discreto e rispettoso della libertà di ciascuno, Gesù dialoga con tutti, non come in un talk show, ma, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiega loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. 
Attraverso gli eventi della storia, i dolori e le gioie di ogni giorno, Gesù parla e rivela a poco a poco come tutto della storia di ciascuno ha avuto, da sempre, relazione con il suo amore. Il suo sangue, infatti, ha raggiunto ogni lembo di terra, ogni sussulto di vita, ogni peccato. 
E’ stupenda la tenerezza di Gesù, l’unico esegeta (Frédéric Manns), l’Agnello immolato capace di aprire i sette sigilli della Scrittura, per rivelarne il senso e illuminare con essa la vita di ogni uomo: Gesù accompagna i passi nella Verità, e cioè che “Egli doveva morire” proprio per te e per me. 
Il suo amore, l’unico, è giunto sin dentro la notte, il crepuscolo di ogni fuga. E Gesù “fa come se dovesse andare più lontano”, ed è il colpo del ko… Proprio la possibilità di perdere quella presenza che aveva riacceso il cuore svela definitivamente la propria indigenza, ed è quando ci si scopre impauriti e soli nel buio della superbia. 
Ma Gesù è lì, pronto ad essere accolto ed “entrare per rimanere con loro” che hanno finalmente capito d’essere peccatori e bisognosi del suo perdono.
Allora, non sappiamo quando, ma sappiamo dove – proprio alla fine del viaggio, “vicini al villaggio dove siamo diretti” – forse attraverso un fatto, di certo per la presenza amorevole e misericordiosa della Chiesa e dei suoi figli, quel cuore tornato a scaldarsi può implorare Cristo come fece Abramo visitato dai tre angeli alla quercia di Mambre, perché non passi senza fermarsi: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”.
In quel crocevia decisivo si fa chiara l’esperienza che, scappando da Gerusalemme, ci si ritrova nella notte, come Giuda; e non vogliamo porre fine alle nostre vite come lui. La parola di Gesù ci ha destato a una speranza che credevamo perduta. La sua presenza, il suo esserci nonostante tutto, ha illuminato il nostro orgoglio: “noi speravamo” male, “discutevamo” ingannati dal demonio. 
Non è come pensavamo irretiti nelle menzogne che ci hanno insegnato nel mondo. “Resta con noi” perché abbiamo capito di non aver capito niente, della nostra storia, della Chiesa, dell’amore e di Te. Abbiamo però imparato che del tuo camminare con noi proprio non possiamo fare a meno.
In questo momento rivive l’incontro di Giuseppe con i fratelli che lo avevano venduto. Dopo tanti dialoghi e prove, nell’intimità, il figlio prediletto di Giacobbe si “fa riconoscere”: “Io sono Giuseppe, il vostro fratello, che voi avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perchéDio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nel paese e per salvare in voi la vita di molta gente. Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio ed Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto. Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: Dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto…Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla!” Gen 45, 4 ss.).
Non c’è, dunque, da rattristarsi, perché nelle trame oscure che conducono l’uomo a tradire, scappare e peccare, Dio scrive una storia di misericordia. Ha “mandato” Cristo sulla strada di Emmaus prima dei discepoli, sulla Croce gli ha fatto sperimentare la lontananza prima di ogni lontano, perché possano “aprirsi gli occhi” di tutti sul suo amore. Ha consegnato suo Figlio alla morte per “assicurare” a tutti la vita e la salvezza.
Per questo, proprio dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la Grazia: i discepoli “riconoscono Gesù” perché hanno conosciuto se stessi nel suo corpo crocifisso e “spezzato” per amore. In quell’intimità ritrovata nel punto del cammino più lontano da Gerusalemme, appare la Chiesa, il culmine e la fonte della sua liturgia, il rendimento di grazie per l’amore infinito di Dio, l’Eucarestia. 
“A tavola” con Cristo ogni storia trova il suo senso; in quel “pane preso, spezzato e dato” trova pienezza ogni vita perduta. In Cristo ogni fallimento si trasforma in benedizione: anche i passi che ci hanno separato da Lui e dai fratelli, nella luce del suo amore, si scopre che stavano tracciando il cammino percorso per incontrarlo e non lasciarlo più.
Ora il cammino di purificazione è compiuto: Gesù è entrato per “rimanere” con i discepoli; anche se “sparisce alla vista” della carne, ormai Lui è in loro, come in chiunque abbia fatto questa esperienza, ed è finalmente libero. Libero dal peccato e dall’angoscia, come i fratelli di Giuseppe che, perdonati, si “affrettano” a tornare da Giacobbe a dare la buona notizia del fratello ritrovato. 
Così anche noi, con tutti quelli che si erano allontanati, possiamo convertirci, liberi di invertire la marcia e tornare sui nostri passi; liberi di cambiare modo di pensare e di vivere; liberi di fare “ritorno senza indugio a Gerusalemme”, incontro ai fratelli per “narrare ciò che ci è accaduto lungo la via e come l’abbiamo riconosciuto nello spezzare il pane”; liberi di celebrare, nella comunione, la pienezza della Vita che non muore, perché «davvero il Signore è risorto!»
E da qui, liberi di donarsi e uscire per farci compagni di viaggio dell’infinita schiera dei “tristi” e delusi viandanti che ci sono accanto, per innescare in loro il fuoco della speranza.

Viaggio Apostolico del Santo Padre Francesco in Egitto – Incontro di preghiera con il Clero, i Religiosi, le Religiose e i Seminaristi

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Viaggio Apostolico del Santo Padre Francesco in Egitto (28-29 aprile 2017) – Incontro di preghiera con il Clero, i Religiosi, le Religiose e i Seminaristi al Seminario Patriarcale Copto-Cattolico di Maadi 
 Sala stampa della Santa Sede 

Alle ore 14.45 di questo pomeriggio, il Santo Padre Francesco, lasciata la Nunziatura Apostolica, si trasferisce in auto al Seminario Patriarcale Copto-Cattolico di Maadi, nella periferia a sud del Cairo. Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre Francesco rivolge ai sacerdoti, ai religiosi, alle religiose e ai seminaristi, dopo l’indirizzo di saluto del Rettore del Seminario, P. Toma Adly Zaky, e le letture:
Discorso del Santo Padre

Beatitudini,
cari fratelli e sorelle,

Al Salamò Alaikum! (La pace sia con voi!)
“Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci in Lui! Cristo ha vinto la morte per sempre, rallegriamoci in Lui!”.
Sono felice di trovarmi fra voi in questo luogo dove vengono formati i sacerdoti e che rappresenta il cuore della Chiesa Cattolica in Egitto. Sono felice di salutare in voi, sacerdoti, consacrati e consacrate del piccolo gregge cattolico in Egitto, il “lievito” che Dio prepara per questa Terra benedetta, perché, insieme ai nostri fratelli ortodossi, cresca in essa il suo Regno (cfrMt 13,13).
Desidero innanzitutto ringraziarvi per la vostra testimonianza e per tutto il bene che realizzate ogni giorno, operando in mezzo a tante sfide e spesso poche consolazioni. Desidero anche incoraggiarvi! Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare. Noi veneriamo la Santa Croce, strumento e segno della nostra salvezza. Chi scappa dalla Croce scappa dalla Risurrezione!
«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc 12,32).
Si tratta dunque di credere, di testimoniare la verità, di seminare e coltivare senza aspettare il raccolto. In realtà, noi raccogliamo i frutti di una schiera di altri, consacrati e non, che generosamente hanno operato nella vigna del Signore: la vostra storia ne è piena!
E in mezzo a tanti motivi di scoraggiamento e tra tanti profeti di distruzione e di condanna, in mezzo a tante voci negative e disperate, voi siate una forza positiva, siate luce e sale di questa società; siate il locomotore che traina il treno in avanti, diritto verso la mèta; siate seminatori di speranza, costruttori di ponti e operatori di dialogo e di concordia.
Questo è possibile se la persona consacrata non cede alle tentazioni che incontra ogni giorno sulla sua strada. Ne vorrei evidenziare alcune, tra le più significative. Voi le conoscete, perché queste tentazioni sono state ben descritte dai primi monaci dell’Egitto.
1- La tentazione di lasciarsi trascinare e non guidare. Il Buon Pastore ha il dovere di guidare il gregge (cfr Gv 10,3-4), di condurlo all’erba fresca e alla fonte di acqua (cfr Sal 23). Non può farsi trascinare dalla delusione e dal pessimismo: “Cosa posso fare?”. È sempre pieno di iniziative e di creatività, come una fonte che zampilla anche quando è prosciugata; ha sempre la carezza di consolazione anche quando il suo cuore è affranto; è un padre quando i figli lo trattano con gratitudine ma soprattutto quando non gli sono riconoscenti (cfr Lc 15,11-32). La nostra fedeltà al Signore non deve mai dipendere dalla gratitudine umana: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18).
2- La tentazione di lamentarsi continuamente. E’ facile accusare sempre gli altri, per le mancanze dei superiori, per le condizioni ecclesiastiche o sociali, per le scarse possibilità... Ma il consacrato è colui che, con l’unzione dello Spirito Santo, trasforma ogni ostacolo in opportunità, e non ogni difficoltà in scusa! Chi si lamenta sempre è in realtà uno che non vuole lavorare. Per questo il Signore rivolgendosi ai Pastori disse: «Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche» (Eb 12,12; cfr Is 35,3).
3- La tentazione del pettegolezzo e dell’invidia. E questa è brutta! Il pericolo è serio quando il consacrato, invece di aiutare i piccoli a crescere e a gioire per i successi dei fratelli e delle sorelle, si lascia dominare dall’invidia e diventa uno che ferisce gli altri col pettegolezzo. Quando, invece di sforzarsi per crescere, inizia a distruggere coloro che stanno crescendo; invece di seguire gli esempi buoni, li giudica e sminuisce il loro valore. L’invidia è un cancro che rovina qualsiasi corpo in poco tempo: «Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in sé stessa, quella casa non potrà restare in piedi» (Mc 3,24-25). Infatti – non dimenticatevi! –, «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sap 2,24). E il pettegolezzo ne è il mezzo e l’arma.
4- La tentazione del paragonarsi con gli altri. La ricchezza sta nella diversità e nell’unicità di ognuno di noi. Paragonarci con coloro che stanno meglio ci porta spesso a cadere nel rancore; paragonarci con coloro che stanno peggio ci porta spesso a cadere nella superbia e nella pigrizia. Chi tende a paragonarsi sempre con gli altri finisce per paralizzarsi. Impariamo dai Santi Pietro e Paolo a vivere la diversità dei caratteri, dei carismi e delle opinioni nell’ascolto e nella docilità allo Spirito Santo.
5- La tentazione del “faraonismo” – siamo in Egitto! –, cioè dell’indurire il cuore e del chiuderlo al Signore e ai fratelli. È la tentazione di sentirsi al di sopra degli altri e quindi di sottometterli a sé per vanagloria; di avere la presunzione di farsi servire invece di servire. È una tentazione comune fin dall’inizio tra i discepoli, i quali – dice il Vangelo – «per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34). L’antidoto di questo veleno è: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35).
6- La tentazione dell’individualismo. Come dice il noto detto egiziano: “Io, e dopo di me il diluvio”. È la tentazione degli egoisti che, strada facendo, perdono la mèta e invece di pensare agli altri pensano a sé stessi, non provandone alcuna vergogna, anzi, giustificandosi. La Chiesa è la comunità dei fedeli, il corpo di Cristo, dove la salvezza di un membro è legata alla santità di tutti (cfr 1 Cor 12,12-27; Lumen gentium, 7). L’individualista invece è motivo di scandalo e di conflittualità.
7- La tentazione del camminare senza bussola e senza mèta. Il consacrato perde la sua identità e inizia a non essere “né carne né pesce”. Vive con cuore diviso tra Dio e la mondanità. Dimentica il suo primo amore (cfr Ap 2,4). In realtà, senza avere un’identità chiara e solida il consacrato cammina senza orientamento e invece di guidare gli altri li disperde. La vostra identità come figli della Chiesa è quella di essere copti – cioè radicati nelle vostre nobili e antiche radici – e di essere cattolici – cioè parte della Chiesa una e universale: come un albero che più è radicato nella terra e più è alto nel cielo!
Cari sacerdoti, cari consacrati, resistere a queste tentazioni non è facile, ma è possibile se siamo innestati in Gesù: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv15,4). Più siamo radicati in Cristo, più siamo vivi e fecondi! Solo così la persona consacrata può conservare la meraviglia, la passione del primo incontro, l’attrazione e la gratitudine nella sua vita con Dio e nella sua missione. Dalla qualità della nostra vita spirituale dipende quella della nostra consacrazione.
L’Egitto ha contribuito ad arricchire la Chiesa con il tesoro inestimabile della vita monastica. Vi esorto, pertanto, ad attingere dall’esempio di San Paolo l’eremita, di Sant’Antonio, dei Santi Padri del deserto, dei numerosi monaci, che con la loro vita e il loro esempio hanno aperto le porte del cielo a tanti fratelli e sorelle; e così anche voi potete essere luce e sale, motivo cioè di salvezza per voi stessi e per tutti gli altri, credenti e non, e specialmente per gli ultimi, i bisognosi, gli abbandonati e gli scartati.
La Santa Famiglia vi protegga e benedica tutti voi, il vostro Paese e tutti i suoi abitanti. Dal profondo del mio cuore auguro a ognuno di voi ogni bene, e tramite voi saluto i fedeli che Dio ha affidato alla vostra cura. Il Signore vi conceda i frutti del suo Santo Spirito: «amore, pace, gioia, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). 
Sarete sempre presenti nel mio cuore e nella mia preghiera. Coraggio, e avanti con lo Spirito Santo! “Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci in Lui!”. E per favore non vi scordate di pregare per me!

Al Salamò Alaikum!




Per le vittime degli attentati
(Maurizio Fontana) Al Salamò Alaikum! Sono state in arabo le prime parole ufficiali pronunciate da Papa Francesco in Egitto. E a quell’annuncio di pace risuonato tanto familiare, la platea di Al-Azhar, la più antica università islamica, è scattata in un convinto e fragoroso applauso. Pochi secondi prima, dopo aver ascoltato il discorso del grande imam Ahmad Al-Tayyib e il suo invito a promuovere insieme una cultura della pace, il Pontefice aveva risposto con un abbraccio intenso e prolungato, uno slancio sincero, al di là di qualsiasi formalismo.
Due gesti semplici, in una sede tanto prestigiosa, che hanno immediatamente rivelato la cifra identificativa del viaggio pontificio in terra egiziana. Un viaggio di pace.
Francesco era arrivato da poco al Cairo: atterrato nel primo pomeriggio di venerdì 28 aprile, si era subito recato al palazzo presidenziale di Heliopolis per la cerimonia ufficiale di benvenuto e l’incontro privato con il capo dello stato, Abdel Fattah Al-Sisi, cui Francesco ha donato una formella della medaglia commemorativa del viaggio: sul rovescio, in primo piano è raffigurata la fuga in Egitto della Santa famiglia. Nel fondo sono visibili elementi caratteristici del Paese: le palme, le Piramidi e il fiume Nilo. Al termine, il Pontefice e il suo seguito — al quale, sin dall’arrivo in aeroporto, si è aggiunto il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso — si sono trasferiti alla sede di Al-Azhar, “La splendida”, la più alta istituzione teologica e di istruzione religiosa dell’islam sunnita.
Accolto dal vice grande imam, il Papa è stato accompagnato nello studio dello sceicco Al-Tayyib per l’incontro privato. In dono il Papa ha lasciato una scultura in bronzo di San Francesco. I due hanno quindi raggiunto il non lontano Centro conferenze dell’università per partecipare alla conferenza sulla pace organizzata da Al-Azhar che, per la prima volta, si è aperta a una partecipazione interreligiosa. «È stato — ci ha spiegato monsignor Vittorio Ianari, della comunità di Sant’Egidio, che ha collaborato all’organizzazione — un passo coraggioso di apertura, che ha avuto sicuramente un forte impatto non solo nella comunità accademica, ma anche tra la gente comune».
Lasciata a Roma la pioggia, il Papa ha trovato ad attenderlo una temperatura di 30 gradi. In un pomeriggio assolato e fitto di appuntamenti, il Pontefice poco dopo le 17 è partito alla volta dell’hotel Al-Masah per incontrare le autorità civili. La serrata agenda imposta da una visita racchiusa in poche ore, ha messo a dura prova la macchina organizzativa: le strade, nonostante il caotico traffico del Cairo, erano tutte presidiate da forze di sicurezza. Giunto all’albergo, il Papa si è recato nella sala conferenze per salutare circa ottocento rappresentanti delle istituzioni, del corpo diplomatico e della società civile. Qui Francesco ha risposto con un discorso alle parole di benvenuto del presidente Al-Sisi.
Meno di un’ora, e il Papa ha aperto una pagina altrettanto importante del viaggio, quella del dialogo ecumenico. Pagina significativa e toccante, perché la visita al Papa della Chiesa copta ortodossa, Teodoro II, giunta dopo i tristemente noti attentati della domenica delle Palme, è stata da tutti vissuta come espressione tangibile di quello che più volte Francesco ha definito l’«ecumenismo del sangue». Il Pontefice è arrivato al patriarcato copto ortodosso verso le 18.15 e ha prima avuto un incontro privato con il patriarca. Dopo i discorsi, lo scambio dei doni — il vescovo di Roma ha offerto un’icona mariana «Madre di Dio della Tenerezza» — e la firma di una dichiarazione congiunta, Francesco e Teodoro II hanno lasciato il palazzo e si sono recati in processione verso la vicinissima chiesa di San Pietro “Al-Boutrosiyya”: qui lo scorso dicembre un attentatore suicida provocò decine di morti e di feriti.
Mentre già calavano le ombre della sera, al suono delle campane e accompagnata dal canto di una ventina di seminaristi copti ortodossi, la processione è giunta all’interno del tempio. Dopo una breve sosta di fronte a una delle colonne che porta ancora i segni dell’attentato, Francesco e Teodoro II hanno raggiunto il presbiterio dove ad attenderli, per la preghiera ecumenica, c’erano anche il patriarca ecumenico Bartolomeo, il patriarca di Alessandria dei copti Ibrahim Isaac Sedrak, il patriarca greco-ortodosso di Alessandria Teodoro II, il patriarca greco-melchita Gregorio III Laham, l’arcivescovo anglicano Mounir Hanna, e il presidente della comunità protestante d’Egitto, Andrea Zaki Stephanous.
Alla preghiera cantata, dedicata ai martiri della chiesa di San Pietro, sono seguite le intercessioni. «Signore Gesù — ha detto Francesco — ti chiedo di benedirci. Benedici il mio fratello, Papa Tawadros II, e benedici tutti i fratelli vescovi che sono qui. Benedici tutti i fratelli cristiani. Guidaci sulla via della carità, del lavorare insieme, alla mensa comune dell’Eucaristia». Dopodiché tutti i presenti si sono scambiati l’abbraccio della pace e hanno recitato insieme il Padrenostro. Il forte momento di preghiera comune ha avuto il suo culmine all’uscita, nell’atrio, dove il Papa, con gli altri, si è fermato davanti al luogo che ricorda le vittime dell’attentato accendendo una candela. Tutti hanno ripetuto il suo gesto, deposto fiori e pregato insieme in silenzio.
Il Pontefice ha quindi concluso la giornata trasferendosi alla nunziatura apostolica dove è stato accolto da un gruppo di bambini della scuola comboniana del Cairo che gli hanno dedicato un canto in spagnolo. Dopo cena, prima del riposo notturno, Papa Francesco si è affacciato dal balcone della nunziatura per salutare un gruppo di circa trecento giovani giunti in pellegrinaggio da varie parti del paese. Con l’aiuto dell’interprete, monsignor Gaid, li ha così salutati: «Buona sera a tutti voi! Sono contento di trovarvi! So che siete venuti in pellegrinaggio: è vero? Se è vero, è perché voi siete coraggiosi! Domani avremo la messa nello stadio, tutti insieme, e pregheremo insieme e canteremo insieme e faremo festa insieme! Prima di ritirarmi, vorrei pregare con voi». E dopo la recita in arabo del Padrenostro, li ha benedetti: «Adesso vorrei darvi la benedizione, ma prima ognuno di voi pensi alle persone che ama di più; pensi anche alle persone a cui non vuole bene e in silenzio ognuno di voi preghi per queste persone: per quelle a cui vuole bene e per quelle a cui non vuole bene. E do la benedizione, a voi e a queste persone».

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Con il piccolo gregge
(Maurizio Fontana) L’abbraccio della gente comune, dei fedeli, quello sempre cercato da Papa Francesco, è arrivato nella mattina di sabato 29 aprile con la messa presieduta in uno stadio alla periferia del Cairo. Preceduta, infatti, da un giro sulla golfcar scoperta davanti ai settori occupati da circa trentamila persone — una cifra altissima in una terra a stragrande maggioranza musulmana — la celebrazione ha inaugurato la seconda e ultima giornata della visita in Egitto, quella dedicata per intero alla comunità cattolica locale. Un piccolo gregge bisognoso di sostegno e di conforto. «Siamo — ci dice Ahmed, un ragazzo della capitale — orgogliosi figli della terra che ha ospitato la Sacra famiglia quando era fuggiasca, e non vogliamo sentirci estranei, ma vivere nella pace».
Congedatosi dalla nunziatura — dove ha lasciato in ricordo una Natività in madreperla realizzata da artigiani betlemiti — il Papa ha raggiunto lo stadio “30 giugno” dell’aeronautica militare alle 9.30. Seduto accanto a lui, sulla vettura elettrica, il patriarca di Alessandria dei Copti. Ad accoglierli l’acclamazione della folla, con sciarpe, cappellini e bandierine sventolanti e un lancio di palloncini bianchi e gialli verso il cielo, mentre il coro cantava in arabo “Il Papa in Egitto”, l’Alleluja e, in italiano, il Cantico delle creature. Tantissimi i giovani presenti.
«Lo stadio poteva essere ancora più pieno — ci spiega padre Farid, un francescano che ha concelebrato insieme a circa trecento sacerdoti ai piedi dell’altare — perché in tanti altri avrebbero voluto partecipare, ma gli spostamenti non sono facili. La maggior parte dei cattolici è nel sud del paese e buona parte dei fedeli oggi presenti hanno fatto due o tre giorni di viaggio molto faticoso per essere qui». Grande l’emozione che si percepiva. «Per noi — ha continuato il francescano — oggi è come toccare con mano l’espressione evangelica “Io sono con voi”. La guida della nostra Chiesa, il nostro padre è con noi. E avendolo ascoltato ieri, abbiamo capito che ci conosce, conosce la nostra situazione e ci è vicino».
Sceso dalla macchina, Francesco è stato attorniato da un gruppo di bambini, corsi ad abbracciarlo. Poi, indossati i paramenti, all’interno dello stadio ha iniziato la celebrazione. Un canto liturgico della tradizione copta, accompagnato dal suono dei cembali, ha dato il via alla processione dei concelebranti verso l’altare allestito al centro del campo. Con il Pontefice hanno concelebrato la messa festiva della terza domenica di Pasqua il patriarca Sedrak, il cardinale segretario di Stato Parolin, i cardinali, i presuli e i sacerdoti del seguito, e tutti i vescovi dell’assemblea della gerarchia cattolica egiziana.
Quella di sabato mattina è stata una festa per tutti i cattolici, ma anche, in continuità con quanto vissuto il giorno precedente, un momento di testimonianza ecumenica e di dialogo. Tra i presenti al rito, infatti, c’erano rappresentanti della comunità copta ortodossa e il vice grande imam di Al-Azhar. E tra i fedeli numerosi erano pure gli ortodossi e i musulmani, alcuni anche parenti di vittime degli attentati terroristici degli ultimi mesi.
Il Papa ha celebrato in latino, ma le letture sono state proclamate in lingua araba, così come i canti, intonati da un coro composto da elementi appartenenti a tutte le denominazioni cattoliche. E anche l’omelia, pronunciata dal Pontefice, in italiano, aveva il supporto di una traduzione simultanea in arabo proiettata sui grandi schermi e quello della traduzione intercalare di monsignor Gaid che per tutto il viaggio ha fatto da interprete al Papa.
Al termine della celebrazione Francesco è tornato in automobile in nunziatura per condividere il pasto con i presuli del paese. Infine ha raggiunto il seminario patriarcale di Maadi per incontrare il clero cattolico egiziano.
L'Osservatore Romano

Il vizio impuro contro natura. Le sue quattro specie



Concludiamo la trattazione del vizio capitale della lussuria con la fattispecie del vizio impuro contro natura, argomento assai scabroso e problematico, nei confronti del quale, purtroppo, vige enorme confusione e pressappochismo, unitamente a posizioni del tutto sbagliate e fuorvianti talora condivise, disgraziatamente, anche da “sedicenti” cattolici praticanti.
Cominciamo subito col dire che, secondo san Tommaso d’Aquino, il vizio impuro contro natura non si limita alla sola omosessualità, ma comprende tutte le forme di sessualità diverse dall’atto naturale aperto alla vita con cui si devono unire un uomo e una donna. Secondo il Doctor Angelicus, la prima forma del peccato impuro contro natura è la masturbazione, la meno grave di tutte, ma comunque da annoverare come disordine innaturale, in quanto non rispetta l’ordinazione naturaledella sessualità alla relazione, consistendo appunto nel procurarsi il piacere sessuale in modo solitario.
La seconda forma, anche in ordine di gravità, è quella consistente nei rapporti sessuali contro natura compiuti tra persone di sesso diverso, non esclusi marito e moglie. E’ una fattispecie che, partendo dalle richieste di prestazioni sessuali “alternative” al rapporto naturale (che, per pudore e decenza, non è bene nominare), giunge alle vere e proprie perversioni sessuali, che – sia detto ad onor del vero – possono riguardare tranquillamente anche persone che oggi chiameremmo “eterosessuali”. Non poche sono le povere donne sposate, sia in passato che al presente, che soffrono a causa di indebite richieste da parte del coniuge, a cui, peraltro, ritengono di dover consentire in quanto mogli degli sciagurati richiedenti. Si dica chiaramente che una moglie soggetta a tali pressioni ha l’obbligo morale (grave) di rifiutarsi risolutamente, spiegando al marito che la santità della sessualità umana esige umanità e rispetto e non un approccio rozzo, animalesco o addirittura bestiale, che sporca i talami nonostante la benedizione del sacramento del matrimonio.
La terza specie è l’omosessualità, ampiamente stigmatizzata nella sacra Scrittura, in particolare nell’orrido e ripugnante delitto della sodomia. Le parole della Sacra Scrittura - e ancor più le tacite parole di Dio che rase al suolo con fuoco divorante la città di Sodoma (da cui prende il nome teologico questo vizio) – sono quanto mai eloquenti e dinanzi ad esse non si comprende come sia possibile essere giunti al grado di follia contemporanea che vede in oltre mezza Europa legalizzate le unioni omosessuali addirittura nella forma del matrimonio (con possibilità di adottare ed anche fare figli con le moderne tecniche artificiali) e nell’altra quasi metà consentite attraverso l’espediente delle unioni civili. Una situazione che purtroppo incombe con svariate forme di pressione anche in Italia, dinanzi alla quale bisogna moltiplicare preghiere e penitenze perché Dio voglia risparmiarci di assistere a questi spettacoli, che, tra l’altro, servono solo a consegnare questi nostri fratelli e sorelle (quasi tutti battezzati e quindi, come noi, veri figli di Dio) nelle mani di una vita di inferno, nonostante loro credano (e i politici vogliano far credere) l’esatto contrario. Amore, misericordia, rispetto e accoglienza incondizionata per le persone che sentono queste pulsioni; ma anche verità (la prima forma di carità) che li aiuti a riconoscere i loro comportamenti come disordinati e quindi mai leciti dal punto di vista morale nonostante empie legislazioni che illudano circa la bontà e la normalità di tali forme di vita. Questi e non altri sono gli atteggiamenti che noi cristiani dobbiamo tenere.

Più grave di tutte queste forme è l’ultima, ovvero la bestialità, consistente nell’unione tra un individuo (uomo e donna) appartenente alla specie umana con un animale. A quanto mi è dato di sapere, ahimé, nel mondo scellerato e vomitevole della pornografia questi spettacoli sono ampiamente documentati. Si ricordi che il peccato impuro contro natura è uno di quelli che “grida vendetta al cospetto di Dio”, cioè attira i suoi castighi (sofferenze e tribolazioni inviate a finalità correttiva) anche in questo mondo. Santa Caterina da Siena sosteneva che tali vizi fanno ribrezzo perfino ai demoni, che tuttavia li istigano perché portano l’uomo ad uno stato di degradazione somma. Ci aiuti il Signore a starne lontano, a confessarli bene, per specie e numero qualora, disgraziatamente, coscientemente o meno, vi fossimo caduti e a denunciarne con coraggio e fermezza la immutabile nefandezza, senza timore di apparire anacronisti o obsoleti, certi che in questa battaglia per la santa purezza Dio e la Madonna sono assolutamente con noi.
don Leonardo Maria Pompei

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Santa Messa nell’ “Air Defense Stadium” del Cairo. Omelia del Santo Padre



Santa Messa nell’ “Air Defense Stadium” del Cairo. Omelia del Santo Padre: "Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!"
Sala stampa della Santa Sede
[Text: Italiano, Français, English, Español, Português] 
Questa mattina, dopo essersi congedato dalla Nunziatura Apostolica, salutato, tra gli altri, da un gruppo di bambini della Scuola Comboniana del Cairo, il Santo Padre Francesco si è trasferito in auto all’ “Air Defense Stadium”. Al Suo arrivo ha compiuto un giro in papamobile tra i fedeli riuniti. Dopo la benedizione finale, il Papa rientra in auto alla Nunziatura Apostolica dove pranza con i Vescovi egiziani e con i Membri del Seguito Papale.
Omelia del Santo Padre
Al Salamò Alaikum / la pace sia con voi!
Oggi il vangelo, nella III Domenica di Pasqua, ci parla dell’itinerario dei due discepoli di Emmaus che lasciarono Gerusalemme. Un vangelo che si può riassumere in tre parole: morte, risurrezione e vita.
Morte. I due discepoli tornano alla loro vita quotidiana, carichi di delusione e disperazione: il Maestro è morto e quindi è inutile sperare. Erano disorientati, illusi e delusi. Il loro cammino è un tornare indietro; è un allontanarsi dalla dolorosa esperienza del Crocifisso. La crisi della Croce, anzi lo “scandalo” e la “stoltezza” della Croce (cfr 1 Cor 1,18; 2,2), sembra aver seppellito ogni loro speranza. Colui sul quale hanno costruito la loro esistenza è morto, sconfitto, portando con sé nella tomba ogni loro aspirazione.
Non potevano credere che il Maestro e il Salvatore che aveva risuscitato i morti e guarito gli ammalati potesse finire appeso alla croce della vergogna. Non potevano capire perché Dio Onnipotente non l’avesse salvato da una morte così ignobile. La croce di Cristo era la croce delle loro idee su Dio; la morte di Cristo era una morte di ciò che immaginavano fosse Dio. Erano loro, infatti, i morti nel sepolcro della limitatezza della loro comprensione.
Quante volte l’uomo si auto-paralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un dio creato a immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di autorità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita!
I discepoli riconobbero Gesù “nello spezzare il pane”, nell’Eucaristia. Se noi non ci lasciamo spezzare il velo che offusca i nostri occhi, se non ci lasciamo spezzare l’indurimento del nostro cuore e dei nostri pregiudizi, non potremo mai riconoscere il volto di Dio.
Risurrezione. Nell’oscurità della notte più buia, nella disperazione più sconvolgente, Gesù si avvicina a loro e cammina sulla loro via perché possano scoprire che Lui è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Gesù trasforma la loro disperazione in vita, perché quando svanisce la speranza umana incomincia a brillare quella divina: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27; cfr 1,37). Quando l’uomo tocca il fondo del fallimento e dell’incapacità, quando si spoglia dell’illusione di essere il migliore, di essere autosufficiente, di essere il centro del mondo, allora Dio gli tende la mano per trasformare la sua notte in alba, la sua afflizione in gioia, la sua morte in risurrezione, il suo cammino all’indietro in ritorno a Gerusalemme, cioè in ritorno alla vita e alla vittoria della Croce (cfr Eb 11,34).
I due discepoli, difatti, dopo aver incontrato il Risorto, ritornano pieni di gioia, di fiducia e di entusiasmo, pronti alla testimonianza. Il Risorto li ha fatti risorgere dalla tomba della loro incredulità e afflizione. Incontrando il Crocifisso-Risorto hanno trovato la spiegazione e il compimento di tutta la Scrittura, della Legge e dei Profeti; hanno trovato il senso dell’apparente sconfitta della Croce.
Chi non passa attraverso l’esperienza della Croce fino alla Verità della Risurrezione si autocondanna alla disperazione. Infatti, noi non possiamo incontrare Dio senza crocifiggere prima le nostre idee limitate di un dio che rispecchia la nostra comprensione dell’onnipotenza e del potere.
Vita. L’incontro con Gesù risorto ha trasformato la vita di quei due discepoli, perché incontrare il Risorto trasforma ogni vita e rende feconda qualsiasi sterilità.1 Infatti, la Risurrezione non è una fede nata nella Chiesa, ma la Chiesa è nata dalla fede nella Risurrezione. Dice San Paolo: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1 Cor 15,14).
Il Risorto sparisce dai loro occhi, per insegnarci che non possiamo trattenere Gesù nella sua visibilità storica: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29; cfr 20,17). La Chiesa deve sapere e credere che Egli è vivo con lei e la vivifica nell’Eucaristia, nelle Scritture e nei Sacramenti. I discepoli di Emmaus capirono questo e tornarono a Gerusalemme per condividere con gli altri la loro esperienza: “Abbiamo visto il Signore … Sì, è davvero risorto!” (cfr Lc 24,32).
L’esperienza dei discepoli di Emmaus ci insegna che non serve riempire i luoghi di culto se i nostri cuori sono svuotati del timore di Dio e della Sua presenza; non serve pregare se la nostra preghiera rivolta a Dio non si trasforma in amore rivolto al fratello; non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità; non serve curare l’apparenza, perché Dio guarda l’anima e il cuore (cfr 1 Sam 16,7) e detesta l’ipocrisia (cfr Lc 11,37-54; At 5,3-4).2 Per Dio, è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!
La fede vera è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell’incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l’affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l’orfano, a dar da bere all’assetato, a soccorrere l’anziano e il bisognoso (cfr Mt 25,31-45). La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell’umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli.
Cari fratelli e sorelle,
Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!
Ora, come i discepoli di Emmaus, tornate alla vostra Gerusalemme, cioè alla vostra vita quotidiana, alle vostre famiglie, al vostro lavoro e alla vostra cara patria pieni di gioia, di coraggio e di fede. Non abbiate paura di aprire il vostro cuore alla luce del Risorto e lasciate che Lui trasformi la vostra incertezza in forza positiva per voi e per gli altri. Non abbiate paura di amare tutti, amici e nemici, perché nell’amore vissuto sta la forza e il tesoro del credente!
La Vergine Maria e la Sacra Famiglia, che vissero su questa terra benedetta, illuminino i nostri cuori e benedicano voi e il caro Egitto che, all’alba del cristianesimo, accolse l’evangelizzazione di San Marco e diede lungo la storia numerosi martiri e una grande schiera di santi e di sante!
Al Massih Kam / Bilhakika kam! – Cristo è Risorto / È veramente Risorto!
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1 Cfr Benedetto XVI, Catechesi, Udienza generale di mercoledì 11 aprile 2007.
2 Esclama S. Efrem: «Ma strappate la maschera che copre l'ipocrita e voi non vi vedrete che marciume» (Serm.). «Guai a chi è doppio di cuore!» - dice l'Ecclesiastico (2,14 Volg.).
Traduzione in lingua francese
Al Salamò Alaikum: la paix soit avec vous!
Aujourd’hui, l’évangile du troisième dimanche de Pâques nous parle de l’itinéraire des deux disciples d’Emmaüs qui ont quitté Jérusalem. Un Évangile qu’on peut résumer en trois mots : mort, résurrection et vie.
Mort: les deux disciples retournent à leur vie quotidienne, chargés de déception et de désespoir : le Maître est mort et il est donc inutile d’espérer. Ils étaient désorientés, sans illusions et déçus. Leur chemin est un retour en arrière ; c’est un éloignement de la douloureuse expérience du Crucifié. La crise de la Croix, voire le ‘‘scandale’’ et la ‘‘folie’’ de la Croix (cf. 1 Co 1, 18 ; 2, 2),
semble avoir enterré toute leur espérance.
Celui sur lequel ils ont construit leur existence est mort, vaincu, emportant avec lui dans la tombe toutes leurs aspirations. Ils ne pouvaient pas croire que le Maître et le Sauveur qui avait ressuscité les morts et guéri les malades puisse finir pendu à la croix de la honte. Ils ne pouvaient pas comprendre pourquoi Dieu Tout-Puissant ne l’avait pas sauvé d’une mort si ignoble. La croix du Christ était la croix de leurs idées sur Dieu ; la mort du Christ était une mort de ce qu’ils imaginaient que Dieu était. C’étaient eux qui étaient, en effet, les morts dans la tombe de la limitation de leur compréhension.
Que de fois l’homme s’auto paralyse, en refusant de surmonter son idée de Dieu, d’un dieu créé à l’image et à la ressemblance de l’homme ; que de fois il désespère, en refusant de croire que la toute-puissance de Dieu n’est pas la toute-puissance de la force, de l’autorité mais qu’elle n’est que la toute-puissance de l’amour, du pardon et de la vie ! Les disciples ont reconnu Jésus à la ‘‘fraction du pain’’, dans l’Eucharistie. Si nous ne laissons pas rompre le voile qui obscurcit nos yeux, si nous ne rompons pas l’endurcissement de notre coeur et de nos préjugés, nous ne pourrons jamais reconnaître le visage de Dieu.
Résurrection: dans l’obscurité de la nuit la plus sombre, dans le désespoir le plus bouleversant, Jésus s’approche des deux disciples et emprunte leur chemin pour qu’ils puissent découvrir qu’il est « le Chemin, la Vérité et la Vie » (Jn 14, 6). Jésus transforme leur désespoir en vie, car lorsque disparaît l’espérance humaine, commence à briller l’espérance divine : « ce qui est impossible à l’homme est possible à Dieu » (Lc 18, 27 ; cf. 1, 37). Quand l’homme touche le fond de l’échec et de l’incapacité, quand il se défait de l’illusion d’être le meilleur, d’être autosuffisant, d’être le centre du monde, alors Dieu lui tend la main pour transformer sa nuit en aube, son affliction en joie, sa mort en résurrection, sa marche en un retour vers Jérusalem, c’est-à-dire vers la vie et vers la victoire de la Croix (cf. He 11, 34). Les deux disciples, en effet, après avoir rencontré le Ressuscité, reviennent pleins de joie, de confiance et d’enthousiasme, prêts pour le témoignage. Le Ressuscité les a fait resurgir de la tombe de leur incrédulité et de leur affliction. En rencontrant le Crucifié-Ressuscité, ils ont trouvé l’explication et l’accomplissement de toute l’Écriture, de la Loi et des Prophètes ; ils ont trouvé le sens de l’échec apparent de la Croix. Celui qui ne traverse pas l’expérience de la Croix jusqu’à la Vérité de la Résurrection s’auto condamne au désespoir. En effet, nous, nous ne pouvons pas rencontrer Dieu sans crucifier d’abord nos idées limitées d’un dieu qui reflète notre compréhension de la toute-puissance et du pouvoir.
Vie: la rencontre avec Jésus ressuscité a transformé la vie de ces deux disciples, parce que rencontrer le Ressuscité transforme toute vie et rend féconde toute stérilité (cf. Benoît XVI, Audience générale, mercredi, 11 avril 2007). En effet, la Résurrection n’est pas une foi née dans l’Église, mais l’Église est née de la foi en la Résurrection. Saint Paul dit : « si le Christ n’est pas ressuscité, notre proclamation est sans contenu, votre foi aussi est sans contenu » (1 Co 15, 14).
Le Ressuscité disparaît de leurs yeux, pour nous enseigner que nous ne pouvons pas retenir Jésus dans son caractère visible historique : « heureux ceux qui croient sans avoir vu » (Jn 21, 29 ; cf. 20, 17). L’Église doit savoir et croire qu’il est vivant avec elle et la vivifie dans l’Eucharistie, dans les Écritures et dans les Sacrements. Les disciples d’Emmaüs ont compris cela et sont retournés à Jérusalem pour partager avec les autres leur expérience : ‘‘Nous avons vu le Seigneur… Oui, il est vraiment ressuscité’’ (cf. Lc 24, 32).
L’expérience des disciples d’Emmaüs nous enseigne qu’il ne vaut pas la peine de remplir les lieux de culte, si nos coeurs sont vidés de la crainte de Dieu et de sa présence ; il ne vaut pas la peine de prier, si notre prière adressée à Dieu ne se transforme pas en amour du frère ; beaucoup de dévotion ne vaut pas la peine, si elle n’est pas animée par beaucoup de foi et par beaucoup de charité ; il ne vaut pas la peine de soigner l’apparence, car Dieu regarde l’âme et le coeur (cf. 1 Sam
16, 7) et déteste l’hypocrisie (cf. Lc 11, 37-54 ; Ac 5, 3-4) 1.
Pour Dieu il vaut mieux ne pas croire que d’être un faux croyant, un hypocrite !
La vraie foi est celle qui nous rend plus charitables, plus miséricordieux, plus honnêtes et plus humains ; c’est celle qui anime les coeurs pour les porter à aimer tout le monde gratuitement, sans distinction et sans préférences ; c’est celle qui nous conduit à voir dans l’autre non pas un ennemi à vaincre, mais un frère à aimer, à servir et à aider ; c’est celle qui nous conduit à diffuser, à défendre et à vivre la culture de la rencontre, du dialogue, du respect et de la fraternité ; qui nous conduit au courage de pardonner à celui qui nous offense ; de tendre la main à celui qui est tombé ; à vêtir celui qui est nu ; à donner à manger à celui qui a faim ; à visiter le détenu ; à aider l’orphelin ; à donner à boire à celui qui a soif ; à aller au secours de la personne âgée et de celui qui est dans le besoin (cf. Mt 25, 31-45). La vraie foi est celle qui nous conduit à protéger les droits des autres, avec la même force et avec le même enthousiasme avec lesquels nous défendons les nôtres. En réalité, plus on grandit dans la foi et dans la connaissance, plus on grandit dans l’humilité et dans la conscience d’être petit.
Chers frères et soeurs,
Dieu n’apprécie que la foi professée par la vie, parce que l’unique extrémisme admis pour les croyants est celui de la charité ! Toute autre forme d’extrémisme ne vient pas de Dieu et ne lui plaît pas!
A présent, comme les disciples d’Emmaüs, retournez à votre Jérusalem, c’est-à-dire à votre vie quotidienne, à vos familles, à votre travail et à votre chère patrie, pleins de joie, de courage et de foi. N’ayez pas peur d’ouvrir votre coeur à la lumière du Ressuscité et laissez-le transformer votre incertitude en force positive pour vous et pour les autres. N’ayez pas peur d’aimer tout le monde, amis et ennemis, car c’est dans l’amour vécu que résident la force et le trésor du croyant!
Que la Vierge Marie et la Sainte Famille, qui ont vécu sur cette terre bénie, illuminent nos coeurs et vous bénissent ainsi que la chère Égypte qui, à l’aube du christianisme, a accueilli l’évangélisation de saint Marc et a donné tout au long de l’histoire de nombreux martyrs et un grand cortège de saints et de saintes! Al Massih Kam/ Bilhakika kam – Le Christ est ressuscité/ Il est vraiment ressuscité !
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1 Saint Ephrem s’exclame : « mais déchirez le masque qui couvre l’hypocrite et vous, vous n’y verrez que pourriture » (Serm.). «Malheur à celui qui a le coeur double » dit l’Ecclésiastique (2, 14, Vulg.).
Traduzione in lingua inglese
As-salamu alaykum! Peace be with you!
Today’s Gospel of the third Sunday of Easter speaks to us of the journey to Emmaus of the two disciples who set out from Jerusalem. It can be summed up in three words: death, resurrection and life.
Death. The two disciples are returning, full of despair and disappointment, to life as usual. The Master is dead and thus it is pointless to hope. They feel disappointment and despair. Theirs is a journey of return, as they leave behind the painful experience of Jesus’ crucifixion. The crisis of the cross, indeed the “scandal” and “foolishness” of the cross (cf. 1 Cor 1:18, 2:2), seems to have buried any hope they had. The one on whom they had built their lives is dead; in his defeat, he brought all their aspirations with him to the tomb.
They could not believe that their Master and Saviour, who had raised others from the dead and healed the sick, would end up hanging on the cross of shame. They could not understand why
Almighty God had not saved him from such a disgraceful death. The cross of Christ was the cross of their own ideas about God; the death of Christ was the death of what they thought God to be. But in fact, it was they who were dead, buried in the tomb of their limited understanding.
How often do we paralyze ourselves by refusing to transcend our own ideas of God, a god created in the image and likeness of man! How often do we despair by refusing to believe that God’s omnipotence is not one of power and authority, but rather of love, forgiveness and life!
The disciples recognized Jesus in the “breaking of the bread”, in the Eucharist. Unless we tear apart the veil clouding our vision and shatter the hardness of our hearts and our prejudices, we will never be able to recognize the face of God.
Resurrection. In the gloom of their darkest night, at the moment of their greatest despair, Jesus approaches the two disciples and walks at their side, to make them see that he is “the Way, and the Truth and the Life” (Jn 14:6). Jesus turns their despair into life, for when human hope vanishes, divine hope begins to shine in its place. “What is impossible with men is possible with God” (Lk 18:27; cf. 1:37). When we reach the depths of failure and helplessness, when we rid ourselves of the illusion that we are the best, sufficient unto ourselves and the centre of our world, then God reaches out to us to turn our night into dawn, our affliction into joy, our death into resurrection. He turns our steps back to Jerusalem, back to life and to the victory of the Cross (cf. Heb 11:34).
After meeting the Risen Lord, the two disciples returned filled with joy, confidence and enthusiasm, ready to bear witness. The Risen One made them rise from the tomb of their unbelief and their sorrow. Encountering the Lord, crucified and risen, they discovered the meaning and fulfilment of the whole of Scripture, the Law and the Prophets. They discovered the meaning of the apparent defeat of the cross.
Those who do not pass from the experience of the cross to the truth of the resurrection condemn themselves to despair! For we cannot encounter God without first crucifying our narrow notions of a god who reflects only our own understanding of omnipotence and power.
Life. The encounter with the Risen Jesus transformed the lives of those two disciples because meeting the Risen One transforms every life, and makes fruitful what is barren (cf. BENEDICT XVI, General Audience, 11 April 2007). Faith in the resurrection is not a product of the Church, but the Church herself is born of faith in the resurrection. As Saint Paul says: “If Christ has not been raised, then our preaching is in vain and your faith is in vain” (1 Cor 15:14).
The Risen Lord vanished from the sight of the disciples in order to teach us that we cannot hold on to Jesus as he appeared in history: “Blessed are those who believe and yet have not seen” (Jn 21:29; cf. 20:17). The Church needs to know and believe that Jesus lives within her and gives her life in the Eucharist, the scriptures and the sacraments. The disciples on the way to Emmaus realized this, and returned to Jerusalem in order to share their experience with the others: “We have seen the Risen One… Yes, he is truly risen!” (cf. Lk 24:32).
The experience of the disciples on the way to Emmaus teaches us that it is of no use to fill our places of worship if our hearts are empty of the fear of God and of his presence. It is of no use to pray if our prayer to God does not turn into love for our brothers and sisters. All our religiosity means nothing unless it is inspired by deep faith and charity. It is of no use to be concerned about our image, since God looks at the soul and the heart (cf. 1 Sam 16:7) and he detests hypocrisy (cf. Lk 11:37-54; Acts 5:3, 4)1. For God, it is better not to believe than to be a false believer, a hypocrite!
True faith is one that makes us more charitable, more merciful, more honest and more humane. It moves our hearts to love everyone without counting the cost, without distinction and without preference. It makes us see the other not as an enemy to be overcome, but a brother or sister to be loved, served and helped. It spurs us on to spread, defend and live out the culture of encounter, dialogue, respect and fraternity. It gives us the courage to forgive those who have wronged us, to
extend a hand to the fallen, to clothe the naked, to feed the hungry, to visit the imprisoned, to help orphans, to give drink to those who thirst, and to come to the aid of the elderly and those in need (cf. Mt 25). True faith leads us to protect the rights of others with the same zeal and enthusiasm with which we defend our own. Indeed, the more we grow in faith and knowledge, the more we grow in humility and in the awareness of our littleness.
Dear brothers and sisters,
God is pleased only by a faith that is proclaimed by our lives, for the only fanaticism believers can have is that of charity! Any other fanaticism does not come from God and is not pleasing to him!
So now, like the disciples of Emmaus, filled with joy, courage and faith, return to your own Jerusalem, that is, to your daily lives, your families, your work and your beloved country. Do not be afraid to open your hearts to the light of the Risen Lord, and let him transform your uncertainty into a positive force for yourselves and for others. Do not be afraid to love everyone, friends and enemies alike, because the strength and treasure of the believer lies in a life of love!
May Our Lady and the Holy Family, who dwelt in this venerable land of yours, enlighten our hearts and bless you and this beloved country of Egypt, which at the dawn of Christianity welcomed the preaching of Saint Mark, and throughout its history has brought forth so many martyrs and a great multitude of holy men and women.
Al Masih qam! Bi-l-haqiqa qam!
Christ is risen! He is truly risen!
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1 Saint Ephraim exclaims: “Just tear off the mask that covers the hypocrite and you will see only corruption” (Sermon). “Woe to them that are of a double heart”, says Ecclesiasticus (2:14, Vulg).
Traduzione in lingua spagnola
Al Salamò Alaikum / La paz sea con vosotros.
Hoy, III domingo de Pascua, el Evangelio nos habla del camino que hicieron los dos discípulos de Emaús tras salir de Jerusalén. Un Evangelio que se puede resumir en tres palabras: muerte, resurrección y vida.
Muerte: los dos discípulos regresan a sus quehaceres cotidianos, llenos de desilusión y desesperación. El Maestro ha muerto y por tanto es inútil esperar. Estaban desorientados, confundidos y desilusionados. Su camino es un volver atrás; es alejarse de la dolorosa experiencia del Crucificado. La crisis de la Cruz, más bien el «escándalo» y la «necedad» de la Cruz (cf. 1 Co 1,18; 2,2), ha terminado por sepultar toda esperanza. Aquel sobre el que habían construido su existencia ha muerto y, derrotado, se ha llevado consigo a la tumba todas sus aspiraciones.
No podían creer que el Maestro y el Salvador que había resucitado a los muertos y curado a los enfermos pudiera terminar clavado en la cruz de la vergüenza. No podían comprender por qué Dios Omnipotente no lo salvó de una muerte tan infame. La cruz de Cristo era la cruz de sus ideas sobre Dios; la muerte de Cristo era la muerte de todo lo que ellos pensaban que era Dios. De hecho, los muertos en el sepulcro de la estrechez de su entendimiento.
Cuantas veces el hombre se auto paraliza, negándose a superar su idea de Dios, de un dios creado a imagen y semejanza del hombre; cuantas veces se desespera, negándose a creer que la
omnipotencia de Dios no es la omnipotencia de la fuerza o de la autoridad, sino solamente la omnipotencia del amor, del perdón y de la vida.
Los discípulos reconocieron a Jesús «al partir el pan», en la Eucarística. Si nosotros no quitamos el velo que oscurece nuestros ojos, si no rompemos la dureza de nuestro corazón y de nuestros prejuicios nunca podremos reconocer el rostro de Dios.
Resurrección: en la oscuridad de la noche más negra, en la desesperación más angustiosa, Jesús se acerca a los dos discípulos y los acompaña en su camino para que descubran que él es «el camino, la verdad y la vida» (Jn 14,6). Jesús trasforma su desesperación en vida, porque cuando se desvanece la esperanza humana comienza a brillar la divina: «Lo que es imposible para los hombres es posible para Dios» (Lc 18,27; cf. 1,37). Cuando el hombre toca fondo en su experiencia de fracaso y de incapacidad, cuando se despoja de la ilusión de ser el mejor, de ser autosuficiente, de ser el centro del mundo, Dios le tiende la mano para transformar su noche en amanecer, su aflicción en alegría, su muerte en resurrección, su camino de regreso en retorno a Jerusalén, es decir en retorno a la vida y a la victoria de la Cruz (cf. Hb 11,34).
Los dos discípulos, de hecho, luego de haber encontrado al Resucitado, regresan llenos de alegría, confianza y entusiasmo, listos para dar testimonio. El Resucitado los ha hecho resurgir de la tumba de su incredulidad y aflicción. Encontrando al Crucificado-Resucitado han hallado la explicación y el cumplimiento de las Escrituras, de la Ley y de los Profetas; han encontrado el sentido de la aparente derrota de la Cruz.
Quien no pasa a través de la experiencia de la cruz, hasta llegar a la Verdad de la resurrección, se condena a sí mismo a la desesperación. De hecho, no podemos encontrar a Dios sin crucificar primero nuestra pobre concepción de un dios que sólo refleja nuestro modo de comprender la omnipotencia y el poder.
Vida: el encuentro con Jesús resucitado ha transformado la vida de los dos discípulos, porque el encuentro con el Resucitado transforma la vida entera y hace fecunda cualquier esterilidad (cf. Benedicto XVI, Audiencia General, 11 abril 2007). En efecto, la Resurrección no es una fe que nace de la Iglesia, sino que es la Iglesia la que nace de la fe en la Resurrección. Dice san Pablo: «Si Cristo no ha resucitado, vana es nuestra predicación y vana también vuestra fe» (1 Co 15,14).
El Resucitado desaparece de su vista, para enseñarnos que no podemos retener a Jesús en su visibilidad histórica: «Bienaventurados los que crean sin haber visto» (Jn 20,29 y cf. 20,17). La Iglesia debe saber y creer que él está vivo en ella y que la vivifica con la Eucaristía, con la Escritura y con los Sacramentos. Los discípulos de Emaús comprendieron esto y regresaron a Jerusalén para compartir con los otros su experiencia. «Hemos visto al Señor […]. Sí, en verdad ha resucitado» (cf. Lc 24,32).
La experiencia de los discípulos de Emaús nos enseña que de nada sirve llenar de gente los lugares de culto si nuestros corazones están vacíos del temor de Dios y de su presencia; de nada sirve rezar si nuestra oración que se dirige a Dios no se transforma en amor hacia el hermano; de nada sirve tanta religiosidad si no está animada al menos por igual fe y caridad; de nada sirve cuidar las apariencias, porque Dios mira el alma y el corazón (cf. 1 S 16,7) y detesta la hipocresía (cf. Lc 11,37-54; Hch 5,3-4).[1] Para Dios, es mejor no creer que ser un falso creyente, un hipócrita.
La verdadera fe es la que nos hace más caritativos, más misericordiosos, más honestos y más humanos; es la que anima los corazones para llevarlos a amar a todos gratuitamente, sin distinción y sin preferencias, es la que nos hace ver al otro no como a un enemigo para derrotar, sino como a un hermano para amar, servir y ayudar; es la que nos lleva a difundir, a defender y a vivir la cultura del encuentro, del diálogo, del respeto y de la fraternidad; nos da la valentía de perdonar a quien nos ha ofendido, de ayudar a quien ha caído; a vestir al desnudo; a dar de comer al que tiene hambre, a visitar al encarcelado; a ayudar a los huérfanos; a dar de beber al sediento; a socorrer a los ancianos y a los necesitados (cf. Mt 25,31-45). La verdadera fe es la que nos lleva a proteger los derechos de
los demás, con la misma fuerza y con el mismo entusiasmo con el que defendemos los nuestros. En realidad, cuanto más se crece en la fe y más se conoce, más se crece en la humildad y en la conciencia de ser pequeño.
Queridos hermanos y hermanas:
A Dios sólo le agrada la fe profesada con la vida, porque el único extremismo que se permite a los creyentes es el de la caridad. Cualquier otro extremismo no viene de Dios y no le agrada.
Ahora, como los discípulos de Emaús, regresad a vuestra Jerusalén, es decir, a vuestra vida cotidiana, a vuestras familias, a vuestro trabajo y a vuestra patria llenos de alegría, de valentía y de fe. No tengáis miedo a abrir vuestro corazón a la luz del Resucitado y dejad que él transforme vuestras incertidumbres en fuerza positiva para vosotros y para los demás. No tengáis miedo a amar a todos, amigos y enemigos, porque el amor es la fuerza y el tesoro del creyente.
La Virgen María y la Sagrada Familia, que vivieron en esta bendita tierra, iluminen nuestros corazones y os bendigan a vosotros y al amado Egipto que, en los albores del cristianismo, acogió la evangelización de san Marcos y ha dado a lo largo de la historia numerosos mártires y una gran multitud de santos y santas.
Al Massih Kam / Bilhakika kam! – Cristo ha Resucitado. / Verdaderamente ha Resucitado.
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1 Dice san Efrén: «Quitad la máscara que cubre al hipócrita y vosotros no veréis más que podredumbre» (Serm.). «Ay de los que habéis perdido la esperanza», afirma el Eclesiástico (2,14 Vulg.).
Traduzione in lingua portoghese
Al Salamò Alaikum (A paz esteja convosco)!
Hoje, o Evangelho do terceiro domingo de Páscoa fala-nos do itinerário dos dois discípulos de Emaús que deixaram Jerusalém. Um Evangelho que se pode resumir em três palavras: morte, ressurreição e vida.
Morte. Os dois discípulos voltam à sua vida quotidiana, repletos de desânimo e desilusão: o Mestre morreu e, por conseguinte, é inútil esperar. Sentiam-se desorientados, enganados e desiludidos. O seu caminho é um voltar atrás; é um afastar-se da experiência dolorosa do Crucificado. A crise da Cruz – antes, o «escândalo» e a «loucura» da Cruz (cf. 1 Cor 1, 18, 2, 2) – parece ter sepultado todas as suas esperanças. Aquele sobre quem construíram a sua existência morreu, derrotado, levando consigo para o túmulo todas as suas aspirações.
Não podiam acreditar que o Mestre e Salvador, que ressuscitara os mortos e curara os doentes, pudesse acabar pregado na cruz da vergonha. Não podiam entender por que razão Deus Todo-Poderoso não O tivesse salvo duma morte tão ignominiosa. A cruz de Cristo era a cruz das suas ideias sobre Deus; a morte de Cristo era uma morte daquilo que imaginavam ser Deus. Na realidade, eram eles os mortos no sepulcro da sua limitada compreensão.
Quantas vezes o homem se autoparalisa, recusando-se a superar a sua ideia de Deus, um deus criado à imagem e semelhança do homem! Quantas vezes se desespera, recusando-se a crer que a omnipotência de Deus não é omnipotência de força, de autoridade, mas é apenas omnipotência de amor, de perdão e de vida!
Os discípulos reconheceram Jesus no ato de «partir o pão» (Lc 24, 35), na Eucaristia. Se não deixarmos romper o véu que ofusca os nossos olhos, se não deixarmos romper o endurecimento do nosso coração e dos nossos preconceitos, nunca poderemos reconhecer o rosto de Deus.
Ressurreição. Na obscuridade da noite mais escura, no desespero mais desconcertante, Jesus aproxima-Se dos dois discípulos e caminha pela sua estrada, para que possam descobrir que Ele é «o caminho, a verdade e a vida» (Jo 14, 6). Jesus transforma o seu desespero em vida, porque, quando desaparece a esperança humana, começa a brilhar a divina: «O que é impossível aos homens é possível a Deus» (Lc 18, 27; cf. 1, 37). Quando o homem toca o fundo do fracasso e da incapacidade, quando se despoja da ilusão de ser o melhor, ser o autossuficiente, ser o centro do mundo, então Deus estende-lhe a mão para transformar a sua noite em alvorada, a sua tristeza em alegria, a sua morte em ressurreição, o seu voltar atrás em regresso a Jerusalém, isto é, regresso à vida e à vitória da Cruz (cf. Heb 11, 34).
Com efeito, depois de ter encontrado o Ressuscitado, os dois discípulos retornam cheios de alegria, confiança e entusiasmo, prontos a dar testemunho. O Ressuscitado fê-los ressurgir do túmulo da sua incredulidade e tristeza. Encontrando o Crucificado-Ressuscitado, acharam a explicação e o cumprimento de toda a Escritura, da Lei e dos Profetas; acharam o sentido da aparente derrota da Cruz.
Quem não faz a travessia desde a experiência da Cruz até à verdade da Ressurreição, autocondena-se ao desespero. Com efeito, não podemos encontrar Deus, sem crucificar primeiro as nossas ideias limitadas dum deus que reflete a nossa compreensão da omnipotência e do poder.
Vida. O encontro com Jesus ressuscitado transformou a vida daqueles dois discípulos, porque encontrar o Ressuscitado transforma toda a vida e torna fecunda qualquer esterilidade.1 De facto, a Ressurreição não é uma fé nascida na Igreja, mas foi a Igreja que nasceu da fé na Ressurreição. Diz São Paulo: «Se Cristo não ressuscitou, é vã a nossa pregação, e vã é também a nossa fé» (1 Cor 15, 14).
O Ressuscitado desaparece da vista deles, para nos ensinar que não podemos reter Jesus na sua visibilidade histórica: «Felizes os que creem sem terem visto!» (Jo 21, 29; cf. 20, 17). A Igreja deve saber e acreditar que Ele está vivo com ela e vivifica-a na Eucaristia, na Sagrada Escritura e nos Sacramentos. Os discípulos de Emaús compreenderam isto e voltaram a Jerusalém para partilhar com os outros a sua experiência: «Vimos o Senhor... Sim, verdadeiramente ressuscitou!» (cf. Lc 24, 32).
A experiência dos discípulos de Emaús ensina-nos que não vale a pena encher os lugares de culto, se os nossos corações estiverem vazios do temor de Deus e da sua presença; não vale a pena rezar, se a nossa oração dirigida a Deus não se transformar em amor dirigido ao irmão; não vale a pena ter muita religiosidade, se não for animada por muita fé e muita caridade; não vale a pena cuidar da aparência, porque Deus vê a alma e o coração (cf. 1 Sam 16, 7) e detesta a hipocrisia (cf. Lc 11, 37-54; At 5, 3.4).2 Para Deus, é melhor não acreditar do que ser um falso crente, um hipócrita!
A fé verdadeira é a que nos torna mais caridosos, mais misericordiosos, mais honestos e mais humanos; é a que anima os corações levando-os a amar a todos gratuitamente, sem distinção nem preferências; é a que nos leva a ver no outro, não um inimigo a vencer, mas um irmão a amar, servir e ajudar; é a que nos leva a espalhar, defender e viver a cultura do encontro, do diálogo, do respeito e da fraternidade; é a que nos leva a ter a coragem de perdoar a quem nos ofende, a dar uma mão a quem caiu, a vestir o nu, a alimentar o faminto, a visitar o preso, a ajudar o órfão, a dar de beber ao sedento, a socorrer o idoso e o necessitado (cf. Mt 25, 31-45). A verdadeira fé é a que nos leva a proteger os direitos dos outros, com a mesma força e o mesmo entusiasmo com que defendemos os nossos. Na realidade, quanto mais se cresce na fé e no seu conhecimento, tanto mais se cresce na humildade e na consciência de ser pequeno.
Queridos irmãos e irmãs, Deus só aprecia a fé professada com a vida, porque o único extremismo permitido aos crentes é o da caridade. Qualquer outro extremismo não provém de Deus nem Lhe agrada.
Agora, como os discípulos de Emaús, voltai à vossa Jerusalém, isto é, à vossa vida diária, às vossas famílias, ao vosso trabalho e à vossa amada pátria, cheios de alegria, coragem e fé. Não tenhais medo de abrir o vosso coração à luz do Ressuscitado e deixai que Ele transforme a vossa incerteza em força positiva para vós e para os outros. Não tenhais medo de amar a todos, amigos e inimigos, porque, no amor vivido, está a força e o tesouro do crente.
A Virgem Maria e a Sagrada Família, que viveram nesta terra abençoada, iluminem os nossos corações e vos abençoem a vós e ao amado Egito que, ao alvorecer do cristianismo, recebeu a evangelização de São Marcos e, ao longo da história, deu muitos mártires e uma longa série de Santos e Santas!
Al Massih kam; bilhakika kam (Cristo ressuscitou; ressuscitou verdadeiramente)!
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1 Cf. Bento XVI, Audiência-Geral de Quarta-feira, 11 de abril de 2007.
2 Santo Efrém exclama: «Arrancai a máscara que cobre o hipócrita e não vereis nele senão podridão» (Serm.). «Ai do coração débil (…) que segue dois caminhos»: diz o Eclesiástico (2, 12; cf. 2, 14 Vulg.)