venerdì 14 aprile 2017

Quando l’invisibile diventò visibile




Una donna. Per la prima volta sarà una donna, la biblista Nuria Calduch Benages, che insegna Antico Testamento alla Pontificia università Gregoriana ed è membro della Pontificia Commissione biblica, a tenere venerdì santo a Valladolid il sermone delle Sette parole, la cui storia è raccontata in questa pagina da Antonio Pelayo. Del sermone anticipiamo il commento alla prima e alla settima parola.

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Si predica in piazza

di Antonio Pelayo
Nel suo ultimo romanzo (El hereje, “L’eretico”) Miguel Delibes, il celebre scrittore di Valladolid, narra come a metà del XVI secolo Cipriano Salcedo fu condannato al rogo dalla santa Inquisizione, con accusa di appartenere a una cellula luterana e venne giustiziato nell’attuale Plaza Mayor della città del Pisuerga. Non fu un caso unico visto che, sotto l’imperatore Carlo v e il re Filippo ii, Valladolid fu sede di un attivissimo tribunale inquisitoriale che, fra tanti, incarcerò anche fra’ Luis de León e l’arcivescovo di Toledo Bartolomé de Carranza. Per gli autodafé che vi si celebravano, la Plaza Mayor si trasformava — scrive Delibes — «in un enorme circo di legno con oltre duemila posti sulle gradinate il cui prezzo oscillava tra dieci e venti reali».
Cinque secoli dopo quello stesso spazio urbano accoglie uno spettacolo ben diverso: la predicazione del Sermone delle sette parole di Cristo sulla croce che ha luogo la mattina del venerdì santo. Questa tradizione fu introdotta dall’arcivescovo Remigio Gandásegui y Gorrochátegui, il quale ripristinò in tutto il suo splendore la settimana santa di Valladolid, e dal 1943 è mantenuta così com’era stata concepita.
Dalle prime ore del mattino un corteo a cavallo composto da cavalieri della Confraternita delle Sette Parole percorre le strade e le piazzette della città annunciando il sermone che si celebrerà a mezzogiorno nella Plaza Mayor e comunicando il nome del predicatore. La loro lista comprende figure di grande prestigio, tra cui i cardinali Marcelo González, già arcivescovo di Toledo e primate della Spagna, Antonio María Javierre, già prefetto della Congregazione per il culto divino, Carlos Amigo, arcivescovo emerito di Sevilla, e Ricardo Blázquez, arcivescovo di Valladolid e presidente della Conferenza episcopale spagnola.
Il sermone si tiene, se il tempo lo permette, all’aria aperta, nella rettangolare Plaza Mayor, che è il centro della vita cittadina, e dura circa un’ora. La piazza è allestita a lutto e accoglie sette pasos, antiche sculture con scene della passione di Nostro Signore Gesù Cristo; il primo è quello di «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno», e l’ultimo quello di «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
Come è noto, le statue sono opera dei laboratori dei più famosi scultori di immagini sacre castigliani: Gregorio Fernández, Juan de Juni, Francisco del Rincón, Pompeyo Leoni. Sono statue di un realismo impressionante: i volti dei carnefici, dei due ladroni, dei soldati romani, riflettono la malvagità dello spirito umano e contrastano con la dolcezza sofferente del crocifisso e con la tristezza della madre che stabat ai piedi della croce, accompagnata dal discepolo amato.
Il predicatore, quest’anno la predicatrice, ha davanti a sé una piazza traboccante di pubblico, che si è alzato all’alba per scegliere un buon posto. Nelle primissime file siedono le autorità, i rappresentanti della società civile e dell’esercito, e soprattutto i confratelli con i loro abiti tradizionali. Una sinfonia di colori che alla luce del sole di Castiglia si trasforma in un simbolico arcobaleno.
Oserei dire che quello delle sette parole è il sermone più famoso dell’anno in Spagna. Viene trasmesso in diretta per radio e televisione dalle reti nazionali ed è al centro dell’attenzione per tutta la mattina del venerdì santo, preparando il clima per partecipare religiosamente alla grande processione generale della Passione, a cui assistono decine di migliaia di vallisoletanos, gli abitanti di Valladolid, e di persone giunte da ogni angolo della Spagna e dall’estero.
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Quando l’invisibile diventò visibile

di Nuria Calduch Benages
Le Sette Parole sono molto più delle sette parole che Gesù pronunciò sulla croce. Le sette parole sono molto più che parole; sono fatti, sono eventi, sono esperienza vissuta, sono dolore e sofferenza, sono gioia e speranza. Ognuna singolarmente e tutte nel loro insieme sono espressione e sintesi della vita di Gesù, una vita donata liberamente per amore all’umanità.
Come introduzione al sermone, vorrei citare un frammento delle Sette parole di Cristo sulla croce, opera che san Roberto Bellarmino scrisse per prepararsi a morire bene e alle quali ricorrerò spesso nel mio commento alle sette parole. Dice il gesuita: «Tratterò pertanto a principio delle tre parole proferite da Cristo circa l’ora sesta, pria che oscurato il Sole le tenebre si stendessero sopra tutta la Terra; dipoi passando a riflettere sopra l’Eclissi del Sole, spiegherò le ultime parole dal Salvatore pronunciate verso l’ora nona, come scrive san Matteo, cioè allor anche diradavansi le tenebre, e si avvicinava o era piuttosto imminente la morte di Gesù Cristo». 
«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco il tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco la tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Giovanni 19, 25-27).
Entrano in scena le donne, donne coraggiose che, nonostante le circostanze avverse, non hanno mai abbandonato Gesù; donne che lo hanno seguito dalla Galilea, che hanno ascoltato le sue parole e visto i suoi miracoli; donne che si sono sentite accettate e riconosciute, che sono state perdonate, guarite e soprattutto amate; donne di ogni tipo e condizione: povere, ricche, ebree, straniere, sane, malate, emarginate. E sebbene l’evangelista ne menzioni solo alcune, sono sicura che stavano tutte lì, in un modo o nell’altro, più vicino o più lontano (poco importa la distanza!), accanto alla croce. Non potevano fare nulla, non potevano dire nulla, non potevano cambiare nulla, ma stavano lì, contemplando, amando, soffrendo, tacendo. Come tante donne ai nostri giorni che, a forza di soffrire e tacere, si sono abituate ai colpi, al dolore e al silenzio. Senza dubbio, a soffrire di più era Maria, sua madre, come tante madri ai nostri giorni che darebbero la vita per non vedere soffrire i propri figli e le proprie figlie. Commenta san Roberto Bellarmino: «Siccome l’amore è la misura del dolore, così grandemente doleasi la Vergine mirando il figlio, con tanta crudeltà tormentato, perché molto lo amava». Dall’alto della Croce Gesù riconosce sua madre dolorosa accanto al discepolo amato e le rivolge alcune parole enigmatiche, il cui significato trascende ciò che a prima vista sembrano dire. 
Sorprende che l’evangelista non menzioni i loro nomi e che Gesù chiami di nuovo sua madre “donna”, come alle nozze di Cana. Neppure l’incarico affidato al discepolo è chiaro. Si tratta semplicemente di offrire un tetto alla madre di Gesù, una vedova che era rimasta sola da tempo, o bisogna leggervi qualcosa di più? Il carattere anonimo dei personaggi ai piedi della croce (donna, madre, figlio) indica che l’autore s’interessa a loro non come singole persone ma per la funzione che svolgono. In altre parole, dall’ottica dell’evangelista, la madre di Gesù e il discepolo amato in questa scena diventano paradigma, modello, tipo di una categoria. Maria, senza smettere di essere la madre di Gesù, simboleggia la Chiesa che è nostra madre, e Giovanni, senza smettere di essere il discepolo prediletto di Gesù, rappresenta tutti i suoi discepoli, tutti coloro che hanno scelto di seguire il suo cammino. Così le parole di Gesù «ecco il tuo figlio, ecco tua madre» non esprimono solo la preoccupazione per la propria madre di un figlio che sta morendo, ma qualcosa di molto più profondo che ci coinvolge tutti. A partire da quel momento, tra Maria (tua madre) e Giovanni (tuo figlio) nasce un nuovo rapporto spirituale, voluto e instaurato da Gesù, che durerà per sempre. 
Signore Gesù, grazie per aver creduto nelle donne, nella loro fede e forza, nella loro fedeltà, nella loro testimonianza e nella loro missione, e per aver scommesso su di loro. Grazie per tutto quello che hai fatto e continui a fare per loro, e per aver posto la Chiesa nelle mani di tua madre.
Se le prime tre parole di Gesù sulla croce hanno messo in evidenza la sua misericordia verso gli altri (i suoi carnefici, il buon ladrone, sua madre e il discepolo amato), le quattro successive riflettono con forza inaudita il suo dramma interiore, la sua lotta tra la vita e la morte, tra il rifiuto e l’accettazione del mistero. Quattro parole che rendono testimonianza del martirio del Figlio di Dio per la salvezza di tutta l’umanità. (...) 
«Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”» (Luca 23, 44-46).
«Gran Signore Egli è Cristo — scrive san Roberto Bellarmino — che anche morendo dimostrò la propria potenza, non solo gridando nell’esalare l’ultimo fiato, ma scuotendo anche la Terra, spezzando le pietre, schiudendo i monumenti, e lacerando il velo del Tempio; le quali cose tutte avvennero nella morte di Cristo... tutti questi avvenimenti non sono senza mistero, nel che pur si appalesa la sapienza di Cristo. Non potea infatti ignorar il Signore che dovea già morire, specialmente essendo prossimo alla morte; ma bramava d’esser salvato dalla morte, nel senso cioè di non restarvi vittima lungo tempo, con che non venne a pregare se non per una pronta resurrezione, nella qual cosa fu pienamente esaudito mentre risorse con somma gloria nel terzo giorno».
Un lutto universale accompagna la morte del crocifisso. Con essa il tempo si ferma per lasciare spazio a una nuova era. Oscurata dal dolore, la terra si veste di nero, il velo del tempio si squarcia prodigiosamente al centro e l’invisibile diviene visibile. Mentre il caos e le tenebre inondano l’universo, la croce resta in piedi: «dolce legno, dolci chiodi, che sostengono l’amato peso», canta la Chiesa nell’adorazione del legno santo. Il crocifisso è esausto e il suo corpo sta cedendo. Avvolto in un manto di oscurità, Gesù spira invocando il Padre suo, quel padre che tanto ama e che lo ha inviato nel mondo per compiere una missione che sembrava impossibile agli occhi degli uomini. Il «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» ricorda la supplica del giusto tormentato nel Salmo 31, 6: «Mi affido alle tue mani; tu mi riscatti, Signore, Dio fedele». È la stessa preghiera che pronunciò santo Stefano al momento della sua morte: «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (Atti 7, 59). Le ultime parole del martire significano lasciare la vita in deposito non alla terra, ma a Dio. 
Così commenta Ruperto di Deutz la settima parola di Gesù: «Allora il nuovo Adamo si addormentò, e nell’addormentarsi disse: “Padre nelle tue mani consegno la mia vita”. Dicendo così, era sicuro di recuperare il suo deposito, arricchito dal frutto centuplicato della sua obbedienza. E consegnando il suo spirito, acquisì per i rigenerati lo Spirito Santo». 
Signore Gesù, grazie per la tua ultima parola, il tuo ultimo grido prima di cadere tra le braccia del Padre, che ti accoglie dissanguato ma vittorioso e trionfante. Un grido consolatore per l’umanità sofferente e perseguitata, un grido di speranza per tutti noi che vogliamo seguirti.
Il Sermone delle Sette Parole sta giungendo al termine. Se nella prima parola abbiamo ascoltato il grido supplicante di Gesù e il silenzio incomprensibile di Dio, nell’ultima il grido di Gesù trasmette un messaggio incoraggiante nonostante il dramma vissuto. Il tragico destino di Gesù fu un trauma difficile da superare per i discepoli, perciò ricorsero alla tradizione antica alla ricerca di una risposta. In essa trovarono una figura che infuse in loro un raggio di speranza e permise loro di capire meglio il destino del Maestro. 
Nei racconti della passione di Gesù si percepisce, in filigrana, il volto del giusto sofferente, perseguitato ingiustamente e destinato alla morte che, alla fine, trova il sostegno del Signore. Nel volto di Gesù contempliamo Giuseppe, il figlio minore di Giacobbe, venduto come schiavo dai suoi fratelli; contempliamo il giusto perseguitato dei salmi, incalzato da nemici feroci e sanguinari che non gli danno tregua; contempliamo Giobbe con le sue piaghe purulente seduto tra le ceneri; il profeta Geremia, sprofondato nel fango e abbandonato da tutti; Daniele nella fossa dei leoni; il giusto del libro della Sapienza la cui vita irreprensibile è talmente scomoda per gli empi che decidono di porle fine... Ma soprattutto, contempliamo il servo sofferente di Isaia, eliminato dalla terra dei vivi con smisurata violenza. Cosi dice il Signore: «il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori» (Isaia 53, 11-12).
Oggi, venerdì santo dell’anno 2017, muore ancora una volta Gesù di Nazaret, l’ebreo perseguitato delle antiche scritture, muore al posto di altri, per altri che si sono salvati grazie alla sua morte. Che la meditazione di queste sette parole del crocifisso non solo rafforzi la nostra fede ma, anche e soprattutto, risvegli le nostre coscienze e ravvivi la nostra solidarietà a favore di tanti esseri umani, tanti popoli e nazioni che subiscono le conseguenze dell’odio, la violenza, la guerra, l’ingiustizia, la corruzione, gli interessi dei potenti e i disastri naturali. Noi che siamo qui, nella Plaza Mayor di Valladolid, siamo molto fortunati, perché mentre ascoltiamo i testi della Scrittura, li possiamo contemplare inscenati da illustri artisti nei passaggi che oggi ci accompagnano e continueranno ad accompagnarci fino a Pasqua. 
Uniamo le nostre voci a quella del poeta: «Tu mi offri la vita con la tua morte / e questa vita senza Te io non la voglio; / perché ciò che spero, e dispero / è un’altra vita in cui possa vederti» (dalla poesia A Cristo crocifisso di José Bergamín). 
L'Osservatore Romano