sabato 15 aprile 2017

Sabato santo. Un giorno morto?



di Lisa Cremaschi, monaca di Bose
“Parlare del sabato santo può sembrare a prima vista paradossale. Come potremmo infatti parlare di questo momento silenzioso, di questa durata senza contenuto particolare, di questo tempo che sembra essere, nel senso più letterale del termine, un tempo morto? Ci sono in esso un arresto, un’assenza, un ritiro che sembrano imporre il silenzio” (D. Cerbelaud, Silenzio di Dio e il Sabato santo, Magnano 1999, p. 19).
Del resto, anche il racconto evangelico passa dalla deposizione nella tomba il venerdì sera alla visita delle donne la domenica mattina. In mezzo c’è un giorno “vuoto”. Il venerdì potevamo ancora guardare al trafitto, contemplare Gesù sulla croce; c’è ancora una presenza. Il sabato è vuoto; quando muore una persona cara diciamo che ha lasciato un vuoto incolmabile. La pesante pietra del sepolcro sembra coprire non solo il corpo di Gesù, ma ogni fiducia in quest’uomo. La sepoltura viene raccontata in dettaglio da tutti gli evangelisti: viene descritto il sepolcro, sono riportati i nomi di quelli che lo hanno sepolto, è ricordata la chiusura del sepolcro con una grossa pietra, l’apposizione dei sigilli, le guardie. Il sabato viene rapidamente nominato in Lc 23,54 (“già splendevano le luci del sabato”) e in Lc 23,56 (Le donne “il giorno di sabato osservarono il riposo com’era prescritto”).
La liturgia ha privilegiato il giovedì, il venerdì santo e la veglia di pasqua. Il sabato non ci sono grandi celebrazioni. Forse possiamo accostare questo sabato a un altro sabato, quello di Gen 2,2: “E Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto, e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro”. Il settimo giorno non è soltanto un giorno di riposo, ma anche quello in cui Dio porta a termine il suo lavoro; anche il riposo di Gesù nella tomba è conclusione di un lavoro, compimento di ciò che aveva fatto su questa terra. Questa è la conclusione del suo lavoro prima della sua resurrezione: Gesù porta il vangelo anche negli inferi. “Anche ai morti è stata annunciata la buona novella”, proclama la Prima lettera di Pietro 4,6 (cf. anche 1Pt 3,18-22). La pace e la misericordia di Dio scendono anche agli inferi, la sua morte è vangelo per tutti anche per i morti, anche per quelli che sono senza speranza.
In questo tempo di silenzio tante domande salgono al cuore dei discepoli di ieri e di oggi. La vicenda di Gesù di Nazaret è finita? È solo un uomo come noi? Dobbiamo rassegnarci e dare ragione agli abitanti di Nazaret? È solo “il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone?” (Mc 6,3; cf. anche Gv 6,42). È tutto finito con la sua morte in croce? La morte ha inghiottito l’amore, è stata più forte dell’amore? È soltanto uno dei tanti uomini che hanno sofferto e sono stati ingiustamente messi a morte dalla malvagità degli uomini?
Il sabato santo è un’immagine dei nostri dubbi, della nostra notte, ma contemporaneamente è tempo di attesa e di speranza, tempo in cui cantare la misericordia del Signore anche negli inferi. L’immagine che i discepoli si erano fatti di Dio doveva essere distrutta, infranta davanti alla croce e a un sepolcro vuoto; le nostre immagini di Dio, le nostre attese (o meglio, pretese su Dio) devono essere purificate. È il mistero del sabato santo il cui abisso di silenzio è diventato schiacciante nel nostro tempo. “Dio è morto”, si è ripetuto negli anni dopo il 1968. Ora non lo si dice nemmeno più. Sembra diventato una realtà irrilevante.
“Dove andare lontano dal tuo Spirito? dove fuggire lontano dal tuo volto? Se salgo nei cieli, tu sei là. Se discendo agli inferi ti trovo!”, canta il Salmo 139,7-8.
Il sabato è il giorno in cui le nostre immagini di Dio si spezzano contro la pietra del sepolcro, ma è anche giorno in cui ravvivare la nostra speranza. Il Signore è sceso negli inferi, anche nei nostri inferi. Anche là possiamo cantare la sua misericordia. Sal 87 (88),5 (secondo la Vulgata): “La mia vita si è avvicinata agli inferi, sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa”, ma il salmo seguente, il Sal 88 (89),2 afferma: “Canterò in eterno la tua misericordia”. Ecco su che cosa possiamo sempre contare: la misericordia del Signore, la sua compassione, il suo amore, vorrei dire il suo affetto speciale per ciascuno di noi che non viene mai meno.
Un santo ortodosso, Silvano del Monte Athos, ci ha raccontato nel suo diario la propria esperienza spirituale; la sua immagine di un Dio giudice, inesorabile e duro si spezza ed egli riconosce che la misericordia di Dio giunge anche negli inferi.
Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare”
“Sono vecchio e aspetto la morte. Scrivo la verità per amore degli uomini. È per loro che la mia anima si affligge. Se anche una sola anima si salvasse, ringrazierei Dio per questo; ma il mio cuore soffre per tutto il mondo. Prego e verso lacrime per il mondo intero, affinché tutti si pentano e conoscano Dio, vivano nell’amore e godano della libertà in Dio” (Nostalgia di Dio, a cura di A. Mainardi, Magnano 2011, p. 106).
Interiormente, la parabola esistenziale di Silvano è un’infaticabile ricerca del volto di Dio. Al cuore della propria angoscia, del proprio peccato e della propria radicale impotenza sa riconoscere la presenza del Signore venuto a cercare e salvare ciò che era perduto. “Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare” (Nostalgia, p. 202), sono le parole che sintetizzano il suo cammino spirituale. Su questa via Silvano diventa testimone della misericordia e dell’infinita tenerezza di Dio per ogni uomo, santo o peccatore, buono o cattivo.
Nelle sue note rievoca un episodio della sua giovinezza che l’ha segnato. Un giorno di festa, mentre passeggiava con alcuni amici per le vie del villaggio suonando la fisarmonica, si scontrò con un giovane che voleva strappargli lo strumento dalle mani. Preso dalla vergogna al pensiero che le ragazze l’avrebbero preso in giro se non avesse reagito, Silvano colpì con tale violenza il suo antagonista che credette di averlo ucciso. In realtà il giovane si riprese, ma l’esistenza di Silvano da quel giorno fu sconvolta. Aveva conosciuto la violenza che l’abitava, aveva sperimentato la prepotenza dell’orgoglio ferito. Per “vergogna”, per timore di essere disonorato di fronte ai compagni e alle ragazze, si vide capace di tutto, perfino di stroncare una vita umana. Quella vergogna che aveva provato al pensiero di subire un affronto senza reagire, di essere schernito come debole e vile, si muterà poco a poco in vergogna di sé perché debole nel lottare contro l’orgoglio, vile nel rifuggire il rinnegamento di sé. Prova nausea e disgusto di sé, ripugnanza di fronte alla propria meschinità; ma dentro al suo cuore permane quel profondo desiderio di bene che da bambino gli faceva dire: “Quando sarò grande, andrò a cercare Dio per tutta la terra” (Non disperare, a cura di A. Mainardi, Magnano 1994, p. 15).
A ventisei anni Silvano entra nel monastero russo di San Pantaleimon sul Monte Athos. Nei primi anni di formazione conosce tempi di gioia e di consolazione spirituale a cui si alternano momenti di tentazione e di tenebra. Amato per il suo carattere affabile e buono, apprezzato per la sua disponibilità e la sua coscienziosità nel lavoro, è turbato da pensieri di orgoglio. I pensieri gli dicono: “Sei un santo” (Nostalgia di Dio, p. 213). Percependo di essere oggetto di tentazione da parte del Divisore, Silvano raddoppia le sue ascesi, ma non trova alcuna consolazione. Si dispera; una sera, oppresso dall’angoscia, pensa: “Dio è inesorabile e non lo si può impietosire” (Non disperare, p. 27). Dov’è Dio? Dov’è quel Dio per il quale ha lasciato tutto e che in giorni di grazia gli ha fatto intravedere qualcosa della pace e della gioia del Regno? Perché non risponde e tace?
Una notte, mentre è in preghiera, Silvano comprende qual è la via per la quale il Signore vuole condurlo a sé. Invoca il Signore: “‘Signore, tu sei compassionevole, la mia anima ti conosce; dimmi che cosa devo fare perché la mia anima impari l’umiltà?’. E il Signore dentro di me rispose: ‘Tieni il tuo spirito agli inferi e non disperare’” (Nostalgia, p. 202).
Che cosa significano queste parole? “Tieni il tuo spirito agli inferi” non nella disperazione che nasce dalla contemplazione narcisistica dei propri abissi di miseria, ma nella speranza, nella fiducia nella misericordia di Dio che non si arrende neppure davanti agli inferi. “Ricorda e temi due pensieri. Uno dice: ‘Sei un santo’; l’altro: ‘Non ti salverai’. Entrambi vengono dal nemico e in essi non c’è verità. Piuttosto pensa: ‘Io sono un grande peccatore, ma il Signore misericordioso ama molto gli uomini e perdonerà anche a me i miei peccati’. Credi questo e così avverrà: il Signore ti perdonerà’” (Nostalgia, p. 213). Non vi è nulla di cupo e di tetro nella spiritualità di Silvano; lungo questa via trova pace e gioia. Il pianto sul suo peccato è trasfigurato nella “gioia della salvezza” (Sal 51,14), nella “radiosa tristezza” di cui parla la tradizione spirituale orientale.
“Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29): è il testo biblico che ricorre con maggior frequenza nei suoi appunti spirituali. “L’umiltà di Cristo dimora nei più piccoli” (Nostalgia, p. 61). Il Signore si è rivelato ai piccoli, a quelli che in un fiducioso abbandono si gettano nelle braccia del Padre affidandogli il loro peccato.
Vi sono monaci che non trovano pace, dirà Silvano, e ne incolpano i fratelli, il superiore, il lavoro eccessivamente gravoso; in realtà: “è la loro anima che è malata” (Nostalgia, p. 183). Chi ha conosciuto i propri inferi, il proprio peccato, e contemporaneamente ha conosciuto la misericordia di Dio non accusa gli altri, ama tutti, perdona chi gli ha fatto del male. Quelli che non amano i nemici “tormentano se stessi e gli altri … Beata l’anima che ama il fratello, perché il nostro fratello è la nostra vita” (Nostalgia, pp. 53.137).
“È necessario avere un cuore compassionevole, e non solo amare gli uomini, ma avere pietà di ogni creatura, di tutto ciò che Dio ha creato. La foglia sull’albero era verde e tu l’hai strappata senza motivo. Anche se non è un peccato, non so perché, ma provo pietà anche di una fogliolina; il cuore che ha imparato ad amare ha compassione di tutta la creazione” (Nostalgia, pp. 142-143). La conoscenza, l’esperienza della misericordia di Dio porta a stendere il manto della misericordia su ciascuna creatura.
“Sapendo quanto il Signore ama il suo popolo, in particolare quelli che sono morti, ogni sera verso lacrime per loro. Mi rattristava che gli uomini si privassero da sé di un simile Signore misericordioso. E una volta dissi al confessore: ‘Provo compassione per gli uomini che patiscono i tormenti dell’inferno, ogni notte piango per loro e la mia anima si tormenta al punto da compiangere anche i demoni’” (Nostalgia, p. 240).
Dal riconoscimento della propria vergogna all’assunzione della vergogna di ogni uomo: questo è il cammino spirituale di Silvano. Scende agli inferi, ma scopre che il Signore lo ha preceduto! E su tutti invoca la misericordia del Signore. La speranza cristiana è speranza per tutti!
Silvano è testimone silenzioso e orante degli eventi di inizio xx secolo,vive con eccezionale intensità l’esperienza interiore della lontananza da Dio, dell’uomo peccatore e ateo consegnato agli inferi del proprio vuoto, ma spezza la sua immagine di un Dio inesorabile, che esige soltanto ascesi e pianto. Dio è misericordia per ogni creatura!