mercoledì 31 maggio 2017

L'Udienza generale di Papa Francesco. "Lo Spirito Santo alimenta la speranza...



L'Udienza generale di Papa Francesco. "Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato"

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nell’imminenza della solennità di Pentecoste non possiamo non parlare del rapporto che c’è tra la speranza cristiana e lo Spirito Santo. Lo Spirito è il vento che ci spinge in avanti, che ci mantiene in cammino, ci fa sentire pellegrini e forestieri, e non ci permette di adagiarci e di diventare un popolo “sedentario”.
La lettera agli Ebrei paragona la speranza a un’àncora (cfr 6,18-19); e a questa immagine possiamo aggiungere quella della vela. 
Se l’àncora è ciò che dà alla barca la sicurezza e la tiene “ancorata” tra l’ondeggiare del mare, la vela è invece ciò che la fa camminare e avanzare sulle acque. La speranza è davvero come una vela; essa raccoglie il vento dello Spirito Santo e lo trasforma in forza motrice che spinge la barca, a seconda dei casi, al largo o a riva.
L’apostolo Paolo conclude la sua Lettera ai Romani con questo augurio, ascoltate bene che bell'augurio: «Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (15,13). Riflettiamo sul contenuto di questa bellissima parola.
L’espressione “Dio della speranza” non vuol dire soltanto che Dio è l’oggetto della nostra speranza, cioè Colui che speriamo di raggiungere un giorno nella vita eterna; vuol dire anche che Dio è Colui che già ora ci fa sperare, anzi ci rende «lieti nella speranza» (Rm 12,12): lieti ora di sperare, e non solo sperare di essere lieti in futuro, dopo la morte. E' la gioia di sperare non sperare di avere gioia, oggi. “Finché c’è vita, c’è speranza”, dice un detto popolare; ed è vero anche il contrario: finché c’è speranza, c’è vita. Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere e hanno bisogno dello Spirito Santo per sperare.
San Paolo – abbiamo sentito – attribuisce allo Spirito Santo la capacità di farci addirittura “abbondare nella speranza”. Abbondare nella speranza significa non scoraggiarsi mai; significa sperare «contro ogni speranza» (Rm 4,18), cioè sperare anche quando viene meno ogni motivo umano di sperare, come fu per Abramo quando Dio gli chiese di sacrificargli l’unico figlio, Isacco, e come fu, ancora di più, per la Vergine Maria sotto la croce di Gesù.
Lo Spirito Santo rende possibile questa speranza invincibile dandoci la testimonianza interiore che siamo figli di Dio e suoi eredi (cfr Rm 8,16). Come potrebbe Colui che ci ha dato il proprio unico Figlio non darci ogni altra cosa insieme con Lui? (cfr Rm 8,32) «La speranza non delude, fratelli e sorelle non deludeperché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Perché c'è  lo Spirito Santo che ci spinge ad andare sempre avanti e nno delude mai.
Lo Spirito Santo non ci rende solo capaci di sperare, ma anche di essere seminatori di speranza, di essere anche noi – come Lui e grazie a Lui – dei “paracliti”, cioè consolatori e difensori dei fratelli. Seminatori di speranza, un cristiano può seminare amarezze, perplessità e auesto non è cristiano e tu se fai questo non sei un buon cristinao, semina invece speranza, olio di speranza, profumo di speranza e non aceto di amarezza e di "disisperanza". Il Beato cardinale Newman, in un suo discorso, diceva ai fedeli: «Istruiti dalla nostra stessa sofferenza, dal nostro stesso dolore, anzi, dai nostri stessi peccati, avremo la mente e il cuore esercitati ad ogni opera d’amore verso coloro che ne hanno bisogno. Saremo, a misura della nostra capacità, consolatori ad immagine del Paraclito (cioè dello Spirito Santo), e in tutti i sensi che questa parola comporta: avvocati, assistenti, apportatori di conforto. Le nostre parole e i nostri consigli, il nostro modo di fare, la nostra voce, il nostro sguardo, saranno gentili e tranquillizzanti» (Parochial and plain Sermons, vol. V, Londra 1870, pp. 300s.). Sono soprattutto i poveri, gli esclusi, i non amati ad avere bisogno di qualcuno che si faccia per loro “paraclito”, cioè consolatore e difensore. Come lo Spirito Santo si fa consolatore per coloro che sono più deboli.
Lo Spirito Santo alimenta la speranza non solo nel cuore degli uomini, ma anche nell’intero creato. Dice l’Apostolo Paolo, 3e sembra un pò strano ma è così, che anche la creazione “è protesa con ardente attesa” verso la liberazione e “geme e soffre” come le doglie di un parto (cfr Rm 8,20-22). «L’energia capace di muovere il mondo non è una forza anonima e cieca, ma è l’azione dello Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” (Gen 1,2) all’inizio della creazione» (Benedetto XVI, Omelia, 31 maggio 2009). Anche questo ci spinge a rispettare il creato: non si può imbrattare un quadro senza offendere l’artista che lo ha creato.
La prossima festa di Pentecoste, che è il compleanno della Chiesa, ci trovi concordi in preghiera, con Maria, la Madre di Gesù e nostra. E il dono dello Spirito Santo ci faccia abbondare nella speranza. Dirò di più, ci faccia "sprecare" la speranza con tuti quelli che sono più bisognosi, i poveri e tutti quelli che hanno necessità. Grazie!

31 Maggio. Visitazione della Beata Vergine Maria. Commento al Vangelo



Il Signore viene a visitarci. E si avvicina a noi sempre attraverso una carne concreta, il seno purissimo di Maria, tabernacolo della presenza di Dio tra noi. E' sempre Lei che ci visita, ambasciatrice dell'amore di Dio. E' Lei che ci dona il Signore, celato nelle Sue castissime viscere. Lei è l'immagine più fedele della storia di salvezza che Dio ha preparato per ogni uomo. Per noi, da sempre. E oggi, e domani. Dio incarnato, Dio adagiato nel seno d'una donna, Dio disceso alla nostra vita, Dio che visita e impregna le nostre ore. Dio incarnato nelle nostre carni incamminate nella storia. Maria è lo specchio fedele di quello che accade ogni giorno nelle nostre povere vite. In noi è già seminato il miracolo di una vita celeste, come lo fu Giovanni per Elisabetta. Proprio ora è vivo in noi qualcosa che le nostre forze, le nostre opere, i nostri desideri non hanno avuto il potere di generare. Sterili siamo, come ogni uomo, incapaci di darci vita, e di donarla. Sterili per accogliere la Grazia feconda di Dio. Come Elisabetta intuiamo ma abbiamo bisogno d'una visita, perché il miracolo di Grazia si schiuda in un canto di lode. Viviamo l'amore di Dio dentro di noi, ne sentiamo spesso tutta la portata soprannaturale, proprio come una donna incinta vive ogni cosa in modo particolare, come afferrata da una presenza interna, misteriosa che le appartiene e, allo stesso tempo, le sfugge. Con Elisabetta abbiamo bisogno di Maria. E Maria è la Chiesa, il suo saluto che risuona nel profondo è l'annuncio che il nostro cuore attende senza posa, la Parola capace di sciogliere in noi quello che, da sempre, la Grazia ha seminato. La Parola che muove in noi la Vita in un sussulto di gioia.E' l'annuncio che desta la gioia: Dio s'è fatto carne nella nostra carne, proprio nelle vicende che ci visitano per coinvolgerci, la storia nostra di ogni giorno. Maria è il mistero della nostra vita racchiuso nella dolcissima fanciulla di Nazaret, perché nella storia vibra l'eco dell'annuncio della Chiesa. Ed è vero che fuori della Chiesa non v'è salvezza, perché in ogni istante della storia che scorre in ciascun angolo della terra risuona la Parola, unica, di salvezza, Cristo Gesù, nascosto nel seno verginale di Maria, Madre della Chiesa e Madre nostra. Con la sua voce, la Chiesa abbraccia l'universo in attesa della salvezza, mentre la storia diviene il tabernacolo del Figlio incarnato. Da quel giorno a Nazaret, quando Dio ha deposto il suo seme nel seno di Maria, nulla è più lo stesso. Tutta la storia, passata, presente e futura, è stata inondata da una Grazia nuova, e tutte le cose sono state rinnovate, perché il Signore, l'Emmanuele, ha preso dimora in ogni istante del tempo. Tutto di noi, dunque, è stato miracolosamente santificato, salvato, redento. Il mistero nascosto agli angeli è stato svelato, l'uomo è salvo. La vita non è più una corsa verso la morte. Il Cielo s'è dischiuso dinanzi ad ogni uomo, e per questo, ogni esistenza, anche quella che appare più distrutta dal peccato, anche quella che odora di morte, è pronta ormai per essere salvata. Un annuncio, una parola, la visita di Maria e quello che era perduto sarà riscattato. I passi veloci della Figlia di Sion sul crinale delle montagne di Giuda sono i passi urgenti degli apostoli di ogni tempo. I "passi" degli eventi stessi che abbracciano ogni uomo in un saluto di Pace, sono nient'altro che la rivelazione del progetto di Dio: "Infatti io so i pensieri che medito per voi», dice il Signore: «pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza" (Ger. 29,11). Shalom! Il saluto di Maria che sveglia la gioia nel seno di Elisabetta, che svela l'amore nascosto in ogni evento, in ogni persona che corre al nostro incontro. Shalom ci annuncia la moglie, anche quando ci sta rinfacciando qualcosa. Shalom ci annuncia il marito, anche quando, schiavo del perfezionismo, torna a casa e vorrebbe il mondo ai suoi piedi. Shalom ci annuncia il figlio che non ci degna di uno sguardo, immerso nella presa tentacolare del suo smartphone. Shalom ci annuncia il collega che trama ipocritamente alle nostre spalle. Shalom ci annunciano le analisi sballate appena ritirate all'ambulatorio. Shalom ci annuncia la Borsa che crolla, il benzinaio che espone il prezzo della benzina, l'ennesima lettera che rifiuta il nostro curriculum. Shalom ci annunciano gli istanti che ci attendono, visitano e abbracciano. Shalom mentre per il mondo tutto questo significa una dichiarazione di guerra, e arma l'ira, la ribellione, l'indignazione, i sentimenti di giustizia, le invidie, le gelosie, l'odio. Pace dice a noi la storia, dove e quando per il mondo è guerra. Pace perché nella carne è disceso Dio, e tutto, ma proprio tutto è ormai divino, parte misteriosa di un Cielo che non conosciamo ma che possiamo cominciare a sperimentare. Pace! Il saluto di Maria che profetizza e anticipa il saluto del Figlio agli apostoli impauriti, il saluto di Colui che ha vinto il peccato e la morte e ha distrutto il muro che separava l'umanità da Dio e dal suo Regno: Pace!, il saluto che con cui il Cielo ci viene a visitare per attirarci nella vita nuova dei beati, pegno e garanzia qui sulla terra del destino che ci attende. Pace!, il saluto di Maria che ci introduce in una dimensione nuova, nella libertà che può gustare solo chi, colmo dell'amore di Dio più forte del peccato e della morte, può discernere in ogni evento e persona, anche quelli che la carne cataloga come tristi e che vorrebbe sfuggire, il luogo e il tu dove donarsi, consegnarsi senza riserve, nella certezza che proprio lì, dove non vorrebbe andare, vi è la Vita che non muore, la gioia incorruttibile, la Pace che supra ogni intelligenza. La Pace conquistata da Gesù nel Getsemani a prezzo della sua angoscia che ha assunto ogni nostra angoscia, per fare di ogni Getsemani che ci attende il Cenacolo dove essere visitati dalla sua vittoria eterna. Pace! Il saluto di Maria che ridesta la gioia che abbiamo dimenticato tra le tristezze di ciò che ormai pensiamo come perso irrimediabilmente, la gioia della risurrezione di tutto quello che in noi era morto. La risurrezione della speranza. La storia nostra di oggi, e di ogni giorno, ci arriva al cuore attraverso il saluto di Maria. E tutto si illumina, il passato ci ha preparato a questo incontro, ed è questo quello che davvero conta. Anche le debolezze, nell'ascoltare la voce di Maria anche i peccati brillano d'una luce nuova, la stessa che risplende sul volto del Figlio risorto: Lui s'è fatto peccato, e su quel peccato conficcato per sempre sulla Croce, è brillata la misericordia. Pace a voi! Si, la nostra carne, la nostra storia sono la dimora di Dio, il Cielo sulla terra perché tutto quello che di noi appartiene alla terra giunga, un giorno, in Cielo. Salvi, santi, suoi. Apparteniamo a Gesù, come Maria, con Maria, Donna umile ebbra di gioia, che canta le meraviglie di Dio, nella gioia che scaturisce dalla verità. Maria, diversamente da noi, era Immacolata nella concezione, priva del veleno che distrugge le nostre vite, la superbia che tiene Dio fuori dalle nostre porte. Creati per essere veri, e liberi, e felici, gemiamo sotto la dura legge della superbia, la menzogna primordiale iniettataci dal mentitore che ci induce a pensare e credere d'essere quel che non siamo. Il demonio che ci spinge a dilapidare tutte le nostre energie per diventare quello che non saremo mai, immaginando futuri impossibili, cambi di marcia, con le ore cucite sui sogni bambini che rincorrono professioni e mestieri da fare quando si diventerà grandi. Grandi: le nostre cose, i nostri pensieri, le nostre opere. Noi, sempre più grandi, in amore, al lavoro, nello sport, ovunque il mondo abbia la ventura d'incontrarci. Anche quando non riusciamo, e il volto s'appesantisce di depressi pensieri, siamo capaci di fare i più grandi di tutti i nostri dolori, le nostre sofferenze, i nostri problemi e fallimenti. In fuga dal nulla precipitiamo nel nulla più duro, l'acre malessere di chi non riesce a smaltire la sbornia dei sogni infranti, degli ideali spezzati, dei progetti falliti. E non v'è posto infatti per Maria e Giuseppe in nessun albergo: il mondo di cartapesta, i "bed and breakfast" di sogni e chimere che segnano i nostri giorni non hanno un angolo per accogliere il Signore. Meglio, a Lui non si addice nessuna delle nostre torri di Babele lanciate in improbabili scalate alla divinità. Lui è la Verità, e cerca il vero. Cerca Maria, lo scrigno della Verità. Dio cerca la sua umiliazione, la semplice verità, vergine e non deturpata da alcun veleno di superbia. Vergine nella carne perché vergine nello spirito, nella mente e nel cuore. Maria, donna vera, la creatura pura che non teme e non ricusa d'esser creatura. Maria, l'umile di Nazaret, il culmine della storia d'ogni uomo, vera perché semplice nella quotidianità d'una vita sciolta nella volontà del Creatore. Umile perché serva, serva perché creatura. La gioia che Eva ci tolse è in Lei ridonata. Nessun cedimento dinanzi al frutto avvelenato dalla superbia. Maria, umile perché Maria, e null'altro. Maria, una vergine di Nazaret, nulla di più, niente di diverso desiderato. In Lei è ciascuno di noi così come dipinto nella mente di Dio, prima d'ogni inalazione mortifera di superbia originale. La sua umiliazione ci attira nella verità che ci costituisce creature in tutto dipendenti dal Creatore. Il suo seno verginale è tutto quello che di noi appartiene al Creatore. Le sue viscere materne sono la grotta povera, spoglia, di nessun valore che si addice - l'unica - al Dio che si fa uomo. La sua umiliazione accoglie oggi ogni frammento divino che è in noi, il cuore, la mente, il corpo che ci è donato per servire  e donarsi, e che giace schiavo del tiranno che ci ha insegnato l'orgoglio con le parole della menzogna. Maria è l'eletta che ha riassunto in sé ogni creatura perduta, immacolata per i macchiati, umile per i superbi, vera per i falsi. E Dio ha guardato la sua umiliazione, gli occhi misericordiosi del Padre hanno fissato in Lei il suo primo progetto, un figlio, una figlia, e l'abbandono totale tra le braccia dell'amore. Dio ha guardato all'umiliazione di Maria, alla verità di Maria fatta di terra, la sua storia, le sofferenze e le angosce di tutti noi scappati dall'ovile della verità. Maria ci accoglie nella sua umiliazione, e ci conduce nel Magnificat della creatura che esiste nel Creatore, che è del Creatore, che vive per il Creatore. Dio guarda l'umiliazione di Maria come ha guardato il popolo gemente sotto il giogo del Faraone. E si prende cura di Lei, e, in Lei, di tutti noi schiavi della menzogna. Maria visita oggi la nostra vita, sulla soglia delle nostre ore, perchè con Lei possiamo accogliere il Salvatore. Maria ci conduce alla verità della nostra condizione e ci insegna a gridare, ad aspettare, ad accogliere. Maria ci mostra il vuoto che ci pervade, ci insegna a non averne paura, ad accettare quello che siamo, a lasciare ogni sogno, ogni desiderio alla volontà di Dio per noi. Maria ci accoglie e ci aiuta a schiuderci alla Grazia, allo stupore di fronte alle meraviglie della misericordia di Dio preparate per ciascuno di noi. Maria è nostra Madre e ci insegna e accompagna a donarci ad ogni persona e in ogni occasione; in fondo siamo suoi figli, i nostri occhi assomigliano ai suoi, sono disegnati e creati per vedere Dio in ogni istante: il suo Shalom li riporta al loro splendore. Maria ci chiama, ci aiuta a lasciare che vengano dispersi i superbi pensieri annidati nei nostri cuori; che Dio faccia vuote le nostre mani piene di false ricchezze per riempirle dei suoi doni incorruttibili; che siamo oggi rovesciati dai troni del potere, dell'arroganza, dei vani sogni di gloria. Maria ci guida nel cammino di conversione che sono la vita e il tempo che ci son donati. Maria ci abbraccia oggi come abbracciò Elisabetta, e ci unisce al suo canto di lode, quello per cui siamo stati creati. La lode di povere, umili creature che, istante dopo istante, sono ricolmate di Grazia dal proprio creatore. Maria ci accompagna oggi, nella verità e nella gioia, pieni di stupore e di esultanza.

martedì 30 maggio 2017

Il congedo di un vescovo





«Preghiamo per i pastori, per i nostri pastori: per i parroci, per i vescovi, per il Papa; perché la loro sia una vita senza compromessi, una vita in cammino, e una vita dove loro non si credano al centro della storia e così imparino a congedarsi». È l’invocazione elevata da Francesco al termine dell’omelia con cui ha commentato la liturgia della parola di martedì 30 maggio, durante la messa mattutina a Santa Marta.
In particolare il Pontefice si è soffermato sulla prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli (20,17-27), che — ha detto — «si può intitolare “Il congedo di un vescovo”». Infatti nel racc0nto «Paolo si congeda dalla Chiesa di Efeso. Quella Chiesa che lui aveva fondato, quel giorno della Pentecoste di Efeso, quando scese su di loro lo Spirito Santo».
«Aveva seguito — ha continuato il Papa riprendendo la descrizione della scena — ma adesso deve andarsene. E da Mileto mandò a chiamare a Efeso tutti i presbiteri». Insomma, ha chiarito Francesco usando una terminologia attuale, «era come una riunione di consiglio presbiteriale, ma dove il vescovo si congeda, il pastore si congeda». Del resto, ha fatto notare, «tutti i pastori dobbiamo congedarci. Arriva un momento dove il Signore ci dice: vai da un’altra parte, vai di là, va di qua, vieni da me. E uno dei passi che deve fare un pastore è anche prepararsi per congedarsi bene, non congedarsi a metà». Anche perché, ha messo in guardia, «il pastore che non impara a congedarsi è perché ha qualche legame non buono col gregge, un legame che non è purificato per la croce di Gesù». 
Ecco allora, prosegue la narrazione, che «Paolo si congeda». Ma, ha evidenziato il Pontefice, «il passo di questo congedo non finisce con la lettura di oggi, va fino alla fine del capitolo 20». Da qui la raccomandazione di Francesco: «chiedo a tutti voi di leggere oggi questo capitolo 20 dal versetto 17 fino alla fine. Capitolo 20. Questo consiglio presbiteriale nel quale Paolo vescovo si congeda».
Leggendo il brano, infatti, il Papa ha individuato «tre atteggiamenti» da sottolineare in questo congedo dell’apostolo. Il primo si può notare quando gli anziani della Chiesa giunsero presso di lui e Paolo disse: «Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime, le prove». Dunque, «non si vanta, non è un atto di vanità. No. Racconta la storia». E in tal modo fa risaltare un aspetto, il primo punto che il Papa intende «sottolineare: “Non mi sono mai tirato indietro”. Una delle cose che darà tanta pace al pastore quando si congeda è ricordarsi che mai è stato un pastore di compromessi. “Non mi sono mai tirato indietro”, senza compromessi».
E per questo ci vuole coraggio. È lo stesso Paolo ad affermarlo: «Voi ricordate... perché io potessi istruirvi, predicarvi, darvi testimonianza a tutti». Dunque «non si vanta, perché lui dice che è il peggiore dei peccatori, lo sa e lo dice. Ma qui sta facendo un racconto della sua storia in questa Chiesa». E «poi riprende, l’altra parte del passo, dopo il capitolo 27, fino alla fine, qualche cosa del genere di questo rendiconto, di questo esame di coscienza». Insomma, ha spiegato Francesco, «il pastore si congeda e ha nel cuore la pace di sapere che non ha guidato la Chiesa con i compromessi. Non si è tirato indietro». Ecco perché, ha detto il Papa, «se leggiamo fino alla fine» questo passo «da soli, piangeremo, come hanno pianto i presbiteri. La bellezza della verità, della vita».
Passando poi al secondo punto, il Pontefice ha avvertito che Paolo dopo aver guardato al passato ora pensa al presente: «Ed ecco costretto dallo Spirito io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà». In pratica l’apostolo dice: «Obbedisco allo Spirito: “Costretto dallo Spirito vado”». Da qui il secondo punto sottolineato dal Pontefice: «il pastore sa che è in cammino». Infatti Paolo «mentre guidava la Chiesa era con l’atteggiamento di non fare compromessi; adesso lo Spirito gli chiede di mettersi in cammino, senza sapere cosa accadrà. E continua perché lui non ha cosa propria, non ha fatto del suo gregge un’appropriazione indebita. Ha servito. “Adesso Dio vuole che io me ne vada? Me ne vado senza sapere cosa mi accadrà. So soltanto — lo Spirito gli aveva fatto sapere quello — che lo Spirito santo di città in città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni”. Quello lo sapeva».
Insomma, per il Papa è come se Paolo volesse dire: «Non vado in pensione. Vado altrove a servire altre Chiese. Sempre il cuore aperto alla voce di Dio: lascio questo, vedrò cosa il Signore mi chiede. E quel pastore senza compromessi è adesso un pastore in cammino. Perché non si è appropriato del gregge».
Ed è solo chiedendosi: «perché non si è appropriato?» — ha proseguito il Pontefice nella sua riflessione — che emerge «il terzo tratto» da sottolineare. «Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita», dice Paolo, quasi a significare: «non sono il centro della storia, della storia grande o della storia piccola, non sono il centro. “Non ritengo preziosa la mia vita. Sono un servitore”». E questo ha rimandato alla mente del celebrante «quel detto popolare: come si vive, si muore; come si vive, ci si congeda». Così Paolo «si congeda con la libertà che ha avuto quel giorno che ha fatto la domanda: “Avete ricevuto lo Spirito Santo?”. E poi la libertà senza compromessi, in cammino, e “io non sono il centro della storia”: così si congeda un pastore. Il grande Paolo ci insegna».
Infine il capitolo degli Atti si conclude con la scena degli ascoltatori dell’apostolo, che piangono, perché dice loro: “Non vedrete mai me”. «Si inginocchiano, pregano, lo accompagnano alla nave e se ne va», ha concluso il Papa, esortando «con questo esempio tanto bello» a pregare «per i nostri pastori».
L'Osservatore Romano

Martedì della VII settimana del Tempo di Pasqua

lunedì 29 maggio 2017

La Pentecoste di Efeso





Cuori «irrequieti» perché «mossi dallo Spirito Santo», o «elettrocardiogrammi spirituali» piatti, lineari, «senza emozioni»? In quale categoria ci si ritrova? È la domanda di fondo posta a ogni cristiano da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta lunedì 29 maggio. All’inizio della settimana in cui «la Chiesa ci prepara per ricevere lo Spirito Santo e ci fa riflettere sullo Spirito Santo e ci chiede di pregare perché lo Spirito Santo venga nella Chiesa, nel mio cuore, nella mia parrocchia, nella mia comunità», Papa Francesco ha invitato i cristiani a mettersi «in attesa di questo dono del Padre che Gesù ci ha promesso».
La meditazione del Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura del giorno dedicata alla predicazione di san Paolo a Efeso (Atti degli apostoli, 19, 1-8). Subito si nota, ha rilevato Francesco, «come questa comunità che aveva ricevuto la fede non sapeva dello Spirito Santo». Tant’è che, ha detto, questa lettura si potrebbe chiamare «La Pentecoste di Efeso», perché «succede lo stesso che era accaduto a Gerusalemme». 
Eppure, ha fatto notare il Papa, «questa gente era credente». Ma quando Paolo domandò loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?», questi risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito che esiste uno Spirito Santo». In questo racconto, cioè, ci si trova di fronte alla «realtà di una Chiesa, gente buona, gente di fede, gente che credeva nel Signore Gesù», ma che «era lì senza neppure conoscere questo dono del Padre: lo Spirito Santo». Perciò «Paolo impose le mani e incominciarono: “Discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue”».
Il Pontefice ha spiegato che, con la discesa dello Spirito Santo, per i discepoli di Efeso «è incominciato il moto del cuore perché quello che muove il nostro cuore, quello che ci ispira, che ci insegna» è lui: è lo Spirito «che muove il cuore», che alimenta «le emozioni nel cuore». Del resto, ha aggiunto, lo aveva detto lo stesso Gesù: lo Spirito «insegnerà» e farà ricordare «tutto quello che io vi ho insegnato».
Ciò che è accaduto ai discepoli di Efeso è un’esperienza ricorrente nei racconti del Nuovo testamento, in cui si incontrano tanti personaggi che «hanno sentito questo messaggio e hanno cambiato vita». Per esempio, ha approfondito il Pontefice, «possiamo domandarci: chi mosse Nicodemo ad andare di notte a parlare con Gesù»? Fu proprio «quella inquietudine». E «chi mosse la samaritana dopo aver dato l’acqua a Gesù a intrattenersi a parlare con lui?». La risposta è che lei sentiva che «il cuore cambiava». Ancora: «chi mosse la peccatrice ad andare e bagnare i piedi di Gesù con le sue lacrime? E chi mosse tanta gente ad avvicinarsi a Gesù? Pensiamo a quella signora, ammalata di perdite di sangue: chi è stato a muoverla e a metterle quel sentimento, quell’idea: “Se io tocco l’orlo del mantello sarò guarita”?». La risposta è sempre la stessa: «lo Spirito Santo», colui che «muove il cuore».
A questo punto Papa Francesco ha, come sua consuetudine, attualizzato la meditazione applicandola alla vita di ogni cristiano. Ha posto quindi una serie di domande: «Io sono come quelli di Efeso che nemmeno sapevano che esistesse lo Spirito Santo? Quale è il posto che lo Spirito Santo ha nella mia vita, nel mio cuore? Io sono capace di ascoltarlo? Io sono capace di chiedere ispirazione prima di prendere una decisione o dire una parola o fare qualcosa? O il mio cuore è tranquillo, senza emozioni, un cuore fisso?». Il problema infatti, ha aggiunto, è che per «certi cuori, se noi facessimo un elettrocardiogramma spirituale, il risultato sarebbe lineare, senza emozioni».
Una realtà spirituale che si ritrova descritta anche nei vangeli, ha ricordato il Pontefice, se si pensa, ad esempio, ai dottori della legge: «erano credenti in Dio, sapevano tutti i comandamenti, ma il cuore era chiuso, fermo, non si lasciavano interpellare».
Ecco, allora, il punto di volta della riflessione: occorre «lasciarsi interpellare dallo Spirito Santo». Qualcuno, ha detto il Papa, potrebbe obiettare: «“Eh, ho sentito questo… Ma, padre, quello è sentimentalismo?” — “No, può essere, ma no. Se tu vai sulla strada giusta non è sentimentalismo”». Così come può capitare di sentir dire: «Ho sentito la voglia di fare questo, di andare a visitare quell’ammalato o cambiare vita o lasciare questo...». L’importante, ha spiegato Francesco, è «sentire e discernere: discernere quello che sente il mio cuore», perché «lo Spirito Santo è il maestro del discernimento».
Certi slanci sono infatti positivi: «una persona che non ha questi movimenti nel cuore, che non discerne cosa succede, è una persona che ha una fede fredda, una fede ideologica. La sua fede è un’ideologia, tutto qui». È proprio quello che viene descritto nel Vangelo: «il dramma di quei dottori della legge che se la prendevano con Gesù».
Perciò, ha detto il Papa, bisogna chiedersi: «Quale è il mio rapporto con lo Spirito Santo? Io prego lo Spirito Santo? Chiedo luce allo Spirito Santo? Chiedo che mi guidi per il cammino che devo scegliere nella mia vita e anche tutti i giorni? Chiedo che mi dia la grazia di distinguere il buono dal meno buono? Perché il buono dal male subito si distingue. Ma c’è quel male nascosto che è il meno buono, ma ha nascosto il male. Chiedo quella grazia?».
In fin dei conti, la domanda che il Papa ha voluto oggi «seminare» nel cuore di ognuno è: «Come è il mio rapporto con lo Spirito Santo?». Ogni cristiano dovrebbe cioè chiedersi: «Io ho un cuore irrequieto perché mosso dallo Spirito Santo?»; e ancora: «Chiedo questa grazia di capire cosa succede nel mio cuore?»; e infine: «Quando mi viene la voglia di fare qualcosa, mi fermo e chiedo allo Spirito Santo che mi ispiri, che mi dica di sì o di no o faccio soltanto i calcoli con la mente: “Questo sì perché se no...”»?.
L’impegno è quello di mettersi in ascolto: «Cosa mi dice lo Spirito?». Non a caso, ha ricordato il Pontefice, l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse, rivolgendosi «a ognuna delle sette chiese di quel tempo, incomincia così: “Ascoltate quello che lo Spirito dice alle chiese”». Perciò, ha concluso, «oggi chiediamo questa grazia di ascoltare quello che lo Spirito dice alla nostra Chiesa, alla nostra comunità, alla nostra parrocchia, alla nostra famiglia e a me, a ognuno di noi: la grazia di imparare questo linguaggio di ascoltare lo Spirito Santo».
L'Osservatore Romano

Lunedì della VII settimana del Tempo di Pasqua.

sabato 27 maggio 2017

Solennità dell'Ascensione del Signore 2017. Anno A. Ambientale e Commento al Vangelo

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AMBIENTALE
Nella Solennità dell’Ascensione, la liturgia ci presenta il Vangelo in cui Gesù risorto dice ai discepoli:
“Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Cristo incarnandosi ha unito a sé per sempre la natura umana, e con la propria Ascensione in cielo alla destra del Padre, rende partecipi anche noi di questa altissima condizione celeste, col corpo e con l’anima. Fin dai primordi della creazione, il prestigio dell’uomo appare superiore a quello di ogni altra creatura, persino superiore alla nobiltà degli angeli fedeli. L’Ascensione di nostro Signore conferma e amplifica la portata della nostra chiamata ad essere divinizzati, anche col corpo, parte integrante della nostra identità. Questa solennità contiene la promessa del ritorno di Gesù nella gloria, per giudicare i vivi e i morti e assegnare a ciascuno il Paradiso o l’Inferno, secondo le opere compiute sulla terra. Potremmo chiamarla la festa solenne della Signoria di Cristo al di sopra di ogni potere, e, al contempo, la festa solenne della nostra dignità. La liturgia ci aiuta, oggi, ad alimentare la consapevolezza della preziosità di ogni persona e ad orientare le scelte concrete che incidono sulla sua promozione nei vari ambiti dell’esistenza. Alla dignità di ogni uomo, dal concepimento alla morte naturale, non si può anteporre nulla: né cultura, né economia, né progresso, nemmeno la difesa dell’ambiente e tantomeno il precetto religioso fine a sé stesso: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato”.
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COMMENTO AL VANGELO
La Solennità odierna esprime il paradosso più grande, quello che caratterizza l’intera nostra vita: Cielo e terra, Spirito e carne, potenza e debolezza, già e non ancora. “È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna e a rinunziare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società.” (Gaudium et Spes, n. 10).  
L’Ascensione di Gesù è il ponte tra la sua Pasqua e la Pentecoste della discesa dello Spirito Santo, esattamente come il Sabato Santo ha unito il Venerdì della Passione alla Domenica della resurrezione. Il Signore è sceso nella tomba con la nostra carne e con essa è risuscitato. Oggi, con la nostra carne ascende al Cielo, per assidersi alla destra del Padre. 
Oggi trova compimento il cammino intrapreso con l’Incarnazione, proseguito con la vita pubblica ed il suo esito drammatico della Croce e del sepolcro. 
Oggi Gesù risorto schiude a tutti noi la via di ritorno al Padre, e in lui tutti noi, figli prodighi e perduti, possiamo rientrare in noi stessi e convertirci, ritornare a casa, da nostro Padre: “il vostro ritorno sulla via del cielo è qualcosa che va preparato, in un luogo un tempo inaccessibile, da spianare. Il cielo infatti era assolutamente irraggiungibile per gli uomini, e mai prima di allora la natura umana era penetrata nel puro e santissimo luogo degli angeli. Cristo per primo ha inaugurato per noi quella via di accesso e ha dato all’uomo il modo di ascendervi, offrendo se stesso a Dio Padre quale primizia dei morti e di quelli che giacciono nella terra, e manifestandosi primo uomo agli spiriti celesti” (San Cirillo d’Alessandria, Commento sul vangelo di Giovanni, 9).
Ma tra noi e Gesù rimane una differenza sostanziale: Egli è asceso al Padre, noi siamo qui sulla terra. Gli occhi dei discepoli che non potevano staccarsi dalla figura del loro Maestro mentre sfuggiva al loro sguardo inabissandosi nelle altezze celesti, è l’immagine più autentica del nostro intimo. 
Al fondo di ogni desiderio, di ogni atto, anche al fondo dei nostri peccati vi è questo moto naturale, questa nostalgia, questo anelare al Cielo: lo struggimento per il compimento della nostra vita. 
Per questo nulla ci soddisfa, anche le gioie più grandi generano, immancabilmente, desideri ancor più grandi. Perchè tutto di noi è orientato al Cielo.
Come vivere allora questa precarietà spirituale, questa mancanza originaria, questa incompletezza? Come non soccombere nell’accidia, nella de-moralizzazione, nella disperazione? La risposta è nelle parole del Signore che appaiono nel Vangelo di oggi: “Mi è stato dato ogni potere, in Cielo ed in terra”. 
Il potere di Gesù è identico lassù e quaggiù, in Dio e tra di noi. E’ questo potere che risolve la contraddizione che viviamo quotidianamente. E’ questo potere senza limiti che pacifica e riconcilia la nostra esistenza. Ogni potere, il che significa che non vi è aspetto della vita nel quale esso non sia illimitato. Lo possiamo vedere realizzato nella più piccola di tutte le creature, la più umile perchè la più semplice: Maria. In Lei Dio ha mostrato tutto il suo potere soprannaturale: in Lei il Cielo si è fatto terra e la terra si è fatta Cielo. Nella sua carne Dio si è fatto carne e la carne è divenuta dimora di Dio. 
Questo potere celeste è consegnato ai discepoli, a ciascuno di noi. Non è più necessario rimanere con gli occhi incollati al Cielo, la nostalgia del nostro compimento è la memoria che ci desta alla vita piena ed autentica: questa memoria che si fa memoriale, esperienza reale e attuale del ritorno di Gesù negli eventi di ogni giorno, fonda la speranza di rivedere, nel nostro ultimo istante di vita, Cristo vivo discendere dal Cielo per prenderci e portarci con Lui per sempre. 
Asceso al Cielo, il Signore dona alla sua Chiesa il suo stesso potere: la Chiesa può tutto; nella Chiesa noi possiamo tutto. Troppo spesso ce ne dimentichiamo, e viviamo come dei pezzenti, elemosinando le briciole di ciò che già ci è stato donato.
Esattamente come Adamo ed Eva che, pur avendo ricevuto il potere di dominare sui rettili, si lasciarono ingannare da un serpente. La Chiesa è il corpo di Cristo asceso al Cielo vivo su questa terra. La Chiesa ha la vita di Cristo. 
Ciascuno di noi ha il potere di compiere la volontà di amore di Dio nella storia: come in Cielo così in terra, la preghiera che si fa vita nella nostra esistenza. Possiamo vivere il Cielo nella nostra terra: siamo nel mondo ma non siamo del mondo, ed è proprio quando siamo più deboli che diveniamo più forti, perchè nella nostra debolezza si manifesta pienamente il potere di Cristo. 
Nella sessualità, nella lotta per difendere la castità, per non cedere alla pornografia su internet; nella fedeltà quotidiana alla moglie e ai figli; nell’obbedienza; nel rapporto con il denaro; sul lavoro, di fronte alle ingiustizie, al mobbing, alla routine e all’insoddisfazione; nello svago, nella malattia, nella precarietà economica.
In tutto si manifesta il potere di Gesù. Ed è necessario che si scateni in noi, contro la Chiesa e i suoi figli, il potere contrario a Cristo, l’Anticristo. E’ necessario perchè il suo potere si manifesti pienamente di fronte ad ogni contro-potere. 
Come fu quella notte sulla barca, il vento contrario scatenato dal demonio che dominava nella Decapoli dove si stava dirigendo, e Gesù a dormire: tanto era più forte il suo potere da lasciarlo tranquillo, sino a dormire, come fu sulla Croce, quando non si difese e si abbandonò al sonno della morte: il potere del Padre lo avrebbe risvegliato eternamente, e questa certezza era un sigillo nel cuore. 
E’ dunque necessario che il fuoco delle tentazioni, il male, le persecuzioni, le contrarietà si scatenino e si abbattano contro di noi. E’ necessario per sperimentare il potere di Cristo e mostrare il Cielo al mondo. Perchè Lui ha vinto il mondo
E’ questo il senso più profondo del cuore del Discorso della Montagna, quando Gesù dice di non resistere al male e di amare i nemici: è la giustizia più grande, il potere del Signore che si manifesta nella mansuetudine e nella mitezza di un Agnello condotto al macello. 
Nella debolezza crocifissa il potere del demonio è sconfitto. Laddove sembrava avesse vinto, la stoccata decisiva: l’amore totale ha fatto giustizia del peccato e della morte. Il fallimento umano ha dischiuso la vittoria divina: “Egli, con la propria morte, ha fatto morire quella morte, di cui il peccato era stato l’inizio…  “Il mondo”, sotto il soffio della Menzogna originale, divenne nel cuore dell’uomo l’avversario di Dio. E benché il tentatore ripeta sin dal principio: “Sarete come Dio”, questo mondo non è mai capace di offrire, in fin dei conti, all’uomo niente di più, niente d’altro che la morte.” (Giovanni Paolo II). 
Per vincere la Coppa del Mondo di calcio occorre affrontare la squadra più forte, per non avere dubbi sul proprio valore, e dimostrare così, inconfutabilmente, di essere i migliori. Altrimenti sorgerebbero dubbi, si addebiterebbe la vittoria alla fortuna, alle circostanze, ad imbrogli. 
Come Cristo ha dovuto affrontare il nemico più forte, il demonio, sul suo terreno, la morte, anche noi nella vita di ogni giorno siamo chiamati ad affrontare lo stesso combattimento, stimati come pecore da macello. Agnelli in mezzo ai lupi, perchè si compia in noi la vittoria dell’Agnello..
Così sarà evidente e credibile il Cielo, la speranza per noi e per ogni uomo. Perchè apparirà, nella nostra famiglia, al lavoro, ovunque e sempre, che in noi Cristo ha un potere illimitato. Il potere di offrire la vita, di amare sino alla fine, che significa all’infinito. In questa luce si comprendono le parole con le quali Gesù invia gli Apostoli. 
“Annunciare il Vangelo, battezzare, insegnare”, non è altro che vivere la presenza di Gesù in questa terra, e mostrarla ad ogni creatura. Soprattutto nella persecuzione. 
Lui è con noi tutti i giorni: è asceso al Cielo ma è vivo con il suo potere nelle nostre parole, nei nostri atti, nella nostra vita. Io sono, il nome divino rivelato a Mosè, l’essere che smaschera il non essere, la Verità che svela la menzogna, il potere dell’amore che distrugge il potere del maligno: Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo
Io sono, e per questo, in Lui, anche noi siamo, tutti i giorni con Lui, un frammento d’eternità deposto nel tempo, fragranza dell’incorruttibilità nello sbiadire della corruzione. 
La Chiesa, e noi in essa, è il corpo vivo di Cristo oggi qui sulla terra; è la caparra del Cielo offerta ad ogni uomo, la primizia del destino al quale tutti sono chiamati: “Per innalzare la nostra speranza al suo seguito, sollevò anzitutto la sua carne, e perché sperassimo che questo sarebbe toccato anche a noi, ci precedette con quella natura umana che aveva assunto da noi” (S. Agostino). 

51.ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Messaggio del Papa.



Domenica 28 maggio: 51.ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Testo del Messaggio di Papa Francesco: Comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo

Vatican.va

«Non temere, perché io sono con te» (Is 43,5). Comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo.
L’accesso ai mezzi di comunicazione, grazie allo sviluppo tecnologico, è tale che moltissimi soggetti hanno la possibilità di condividere istantaneamente le notizie e diffonderle in modo capillare. Queste notizie possono essere belle o brutte, vere o false. Già i nostri antichi padri nella fede parlavano della mente umana come di una macina da mulino che, mossa dall’acqua, non può essere fermata. Chi è incaricato del mulino, però, ha la possibilità di decidere se macinarvi grano o zizzania.

Il Papa a Genova: «Quando l’economia diventa speculazione è spietata»



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Papa Francesco a Genova. Incontro con il mondo del lavoro allo Stabilimento Ilva.  "Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata “meritocrazia”. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza"

Sala stampa della Santa Sede



Alle ore 7.30 di questa mattina, il Santo Padre Francesco è partito in aereo dall’aeroporto di Roma-Ciampino per la Visita pastorale all’Arcidiocesi di Genova.Al Suo arrivo all’aeroporto di Genova, il Papa è stato accolto dall’Em.mo Card. Angelo Bagnasco, Arcivescovo della Città, dall’On. Giovanni Toti, Presidente della Regione Liguria, dalla Dott.ssa Fiamma Spena, Prefetto di Genova, dal Sindaco, Dr. Marco Doria, e dal Direttore dell’aeroporto, Dr. Paolo Sirigu. Il Santo Padre si è poi recato in auto allo Stabilimento Ilva per l’incontro con il mondo del lavoro.
Nel corso dell’incontro Papa Francesco ha risposto a quattro domande che gli sono state rivolte da un imprenditore, da una rappresentante sindacale, da un lavoratore e da una disoccupata. Al termine, si è trasferito alla Cattedrale di Genova per l’Incontro con i Vescovi della Liguria, il Clero, i Seminaristi, i Religiosi e le Religiose, i Collaboratori Laici della Curia e i Rappresentanti di altre Confessioni.
Riportiamo di seguito le risposte del Santo Padre: (...)


Corriere della Sera

Parole dure di Francesco contro la meritocrazia: «Chi pensa di risolvere i problema della sua impresa licenziando la gente non è un buon imprenditore. La tanto osannata meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza». «Quando l’economia passa nelle mani degli speculatori tutto si rovina, l’economia perde il volto e un’economia senza volti è astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone. Un’economia senza volto è un’economia spietata». Lo ha detto il Papa parlando all’Ilva di Genova aggiungendo che «bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori» e ha aggiunto: «Chi pensa di risolvere i problema della sua impresa licenziando gente non è un buon imprenditore. La tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza». Lo ha denunciato Papa Francesco nel suo intervento a braccio all’Ilva di Genova.  (...)

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Prima tappa della visita del Papa a Genova è stato l'incontro con il mondo del lavoro all'Stabilimento dell'Ilva. Il Papa è stato accolto in modo caloroso dai lavoratori che gli hanno posto alcune domande. Francesco ha esordito dicendosi commosso di essere a Genova per la prima volta "e essere così vicino al porto" dove suo padre è partito come migrante. "Oggi - ha detto rispondendo ad un imprenditore - il lavoro è un rischio. E’ un mondo dove il lavoro non si considera con la dignità che ha e che dà". Il Papa fa una premessa: "Il mondo del lavoro è una priorità umana. E pertanto, è una priorità cristiana, una priorità nostra; e anche una priorità del Papa, perché è quel primo comando che Dio ha dato ad Abramo: “Va, fa crescere la terra, lavora la terra, dominala".
Il Papa ha proseguito: “C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa. Penso che sia chiaro, no?”.
Ha quindi parlato delle virtù dell’imprenditore: “La creatività, l’amore per la propria impresa, la passione e l’orgoglio per l’opera delle mani e dell’intelligenza sua e dei lavoratori. L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia: non c’è buona economia senza buon imprenditore. Non c’è buona economia senza buon imprenditore”, senza la sua “capacità di creare, creare lavoro, creare prodotti”.
“Importante – ha sottolineato - è riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno – di lavoratori e delle lavoratrici – è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro che inizia proprio nel lavorare bene per dignità, per onore”. 
“Il vero imprenditore – ha affermato il Papa - conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore dev’essere prima di tutto un lavoratore. Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro, non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, di risolvere insieme problemi, di creare qualcosa insieme”.
Francesco ha quindi aggiunto: “Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa e non lo farebbe, se potesse. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente. No. Chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore: è un commerciante. Oggi vende la sua gente, domani … vende la dignità propria. Si soffre sempre, e qualche volta da questa sofferenza nascono nuove idee per evitare il licenziamento. Questo è il buon imprenditore”.
Quindi ricorda, quando, circa un anno fa, dopo la Messa a Santa Marta gli si è avvicinato un uomo che piangeva, dicendo: “Sono venuto a chiedere una grazia: io sono al limite e devo fare una dichiarazione di fallimento. Questo significherebbe licenziare una sessantina – sessantina! – di lavoratori, e non voglio, perché sento che licenzio me stesso!”. E quell’uomo piangeva. Quello è un bravo imprenditore. Lottava e pregava per la sua gente, perché era sua”.
“Una malattia dell’economia – ha detto ancora - è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore: sono due tipo diversi. L’imprenditore non deve confondersi con lo speculatore: lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama ‘mercenario’, per contrapporlo al Buon Pastore. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa, usa azienda e lavoratori per fare profitto. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persona e mezzi per i suoi obiettivi di profitto”.
“Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. E’ un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, essa stessa diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori. No, non temere gli imprenditori perché ce ne sono tanti bravi! No: temere gli speculatori”.
“Ma paradossalmente, qualche volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli, partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti. E oggi ci sono tanti veri imprenditori, imprenditori onesti che amano i loro lavoratori, che amano l’impresa, che lavorano accanto a loro per portare avanti l’impresa: e questi sono i più svantaggiati da queste politiche che favoriscono gli speculatori. Ma gli imprenditori onesti e virtuosi vanno avanti, alla fine, nonostante tutto”.
Il Papa cita una frase di Luigi Einaudi, economista e presidente della Repubblica italiana, che scriveva: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con gli altri impegni”.
Quindi, un invito: “State attenti voi, imprenditori, e anche voi, lavoratori: state attenti con gli speculatori. E anche con le regole e con le leggi che alla fine favoriscono gli speculatori e non i veri imprenditori. E alla fine lasciano la gente senza lavoro. (RV)

#MaurizioCrozza: benvenuto a Genova #PapaFrancesco (TV2000)

La vita cristiana è ascolto



(Antonella Lumini) «Al termine del giorno», incipit dell’inno di compieta, è divenuto il titolo dell’ultimo libro di Enzo Bianchi (Al termine del giorno. Parole per illuminare il viaggio interiore, Magnano, Edizioni Qiqajon, 2017, pagine 291, euro 15), titolo chiaramente allusivo al concludersi del suo servizio di priore della Comunità monastica di Bose da lui stesso fondata: «Quello che ho donato alla mia Comunità e agli ospiti presenti a Bose, lo dono nuovamente adesso a un uditorio più ampio e lo dono ai miei fratelli e alle mie sorelle, nell’ora in cui lascio il mio servizio di comunione».Il libro raccoglie le riflessioni offerte ogni domenica sera a conclusione della liturgia delle ore, commentando la Regola di san Benedetto. Ne esce uno spaccato vivo della vita monastica che permette di entrare nell’intimità di quella forma di relazionalità comunitaria che, nei secoli, ha tentato più di ogni altra di mettere in pratica la koinonìa delle origini in cui i credenti «stavano insieme e tenevano tutto in comune» (Atti 2, 44). Rinuncia quindi alla proprietà privata dei beni materiali, ma soprattutto rinuncia alla propria volontà attraverso la rigorosa obbedienza a una Regola. Da Pacomio a Basilio in Oriente, a Benedetto in Occidente, si affina la messa a punto di quello stile di vita a cui richiama il vangelo. Tuttavia, osserva Bianchi, «le insidie sono molte e il proprium habere prende molte forme in noi». 
Il libro mette a fuoco i cardini portanti che sostengono la vita cenobitica, insieme, come evidenzia il sottotitolo, offre «parole per illuminare il viaggio interiore», costituendo un supporto utile per tutti coloro che siano alla ricerca del senso della propria vita. 
Centrale l’ascolto: «La vita cristiana, e quindi la vita monastica, è innanzitutto ascolto». Ascolto di una voce che chiama, di una parola che giunge al cuore. Per ascoltare occorre «abitare il silenzio, sostare in esso» e imparare la taciturnità dalla quale «dipende sia la qualità dell’ascolto della voce di Dio, del Maestro interiore, sia della comunione con i fratelli e le sorelle». 
Nella vita fraterna, gli ostacoli maggiori derivano dalla mormorazione, per questo nel monastero il silenzio viene custodito non solo nella notte, ma nel corso di tutta la giornata. Dall’ascolto scaturisce l’obbedienza, obbedire significa restare in ascolto (latino: ob-audire). Non stare in ascolto provoca quindi disobbedienza. Si può cogliere allora nel titolo anche un rinvio a quel versetto della Genesi in cui Dio, passeggiando nel giardino «allo spirar del giorno», chiama Adamo e gli chiede: «Dove sei?» (Genesi 3, 8-9). Lo spirar del giorno allude all’emergere del buio in una realtà in cui è solo vita e luce.
Ed è proprio intorno a questo passaggio dalla luce del giorno, alla tenebra della notte, che ruotano queste ammonizioni proferite nell’ora di compieta, in cui la luce è Cristo, «splendore eterno di Dio Padre» e la tenebra uno stato di smarrimento e lontananza. C’è una distanza che separa dalla vita eterna che chiede di essere consumata. La vita cristiana è un invito ad attraversare consapevolmente la distanza costituita dalla tenebra della morte spirituale. 
Bianchi soffermandosi sull’espressione «nulla anteporre a Cristo» affinché «egli ci conduca tutti insieme alla vita eterna» (Regola di san Benedetto 72, 12), dice: «Ecco il télos che sta davanti alla nostra vita: la vita eterna». L’esperienza monastica, proprio in quanto pone la vita eterna come proprio orizzonte, favorisce la crescita umana il cui compimento è la divina umanità di Gesù. Mettendo Cristo al centro i monaci intraprendono il loro cammino terreno come continuo tempo di conversione. «Con il termine conversatio Benedetto voleva parlare di conversione, una conversione da innestare nella propria vita come qualcosa di dinamico, di incessante. Il monaco non ha mai finito di convertirsi». Questo inarrestabile dinamismo di conversione consuma la distanza, consuma il buio della morte, consente di partecipare alla vita eterna. Dinamismo operato dallo Spirito santo che libera dalle schiavitù e scioglie il cuore aprendolo all’amore perché «la vita eterna è la vita in cui regna soltanto l’amore». L’amore si conosce per diretta partecipazione. Solo amando Gesù e lasciandosi amare dal suo amore si impara ad amare i fratelli e le sorelle, cominciando così a gustare la vita eterna proprio nella vita terrena. 
Bianchi tiene a precisare che «quando diciamo Cristo, non possiamo dire un Cristo che noi ci siamo creati (...) che finisce per essere un idolo», ma quello trasmesso dai vangeli amato e incarnato, «il Cristo che è il vangelo fatto carne, il vangelo vissuto». Ma il vangelo è incarnato dove l’umanità fiorisce, dove c’è un cammino di umanizzazione. È necessario stare alla presenza di Dio, coram Deo, «seguire il difficile itinerario di maturità cristiana che porta a sentire Dio dentro di noi. Noi siamo il “tempio di Dio” (1 Corinzi 3, 16), siamo l’edificio dello Spirito (1 Corinzi 6, 19), ma per percepirlo dobbiamo percepire che Dio è presente dappertutto». 
Trasformare il vangelo in vita vissuta richiede quella lotta interiore che caratterizza il monachesimo sin dalle origini, è far agire la forza del battesimo, aprirsi all’azione dello Spirito santo. Mettere davanti a Cristo le passioni, le concupiscenze, gli illusori desideri perché la lotta più faticosa è quella contro l’egoità e le potenze psichiche annidate nell’anima. La luce dello Spirito non combatte, penetra, smaschera, spoglia. Il processo di purificazione intensifica la comunione con Cristo sviluppando rapporti di comunione. 
Il servizio diviene allora atto di amore, «al contrario senza questo servizio, l’amore quando c’è resta psichico, emozionale», non dà testimonianza del comandamento nuovo. Stare alla presenza dello Spirito santo trasfigura. La sua luce s’irradia sul volto del monaco: «Volto di un uomo unificato, di un uomo disarmato (…), il suo sguardo è penetrante ma trasparente, non possessivo: il suo occhio sa fissare senza catturare, senza offendere, e narra compassione, dolcezza, simpatia». 
La comunità dunque sviluppa rapporti di comunione quando i suoi componenti sono profondamente radicati in Cristo e nel suo santo Spirito. Più cresce la comunione con Cristo, asse verticale, più cresce la comunione con i fratelli e le sorelle, asse orizzontale. Queste sono le coordinate che rendono possibile l’assunzione della Regola come mezzo di trasformazione spirituale. Se invece diviene solo osservanza, atto di volontà, può stimolare la superbia, rafforzare l’ego. Il cuore si inaridisce, si spegne la carità fraterna, l’amore vien meno. Essenziale quindi l’umiltà, quella disponibilità a discendere accettando ogni sorta di umiliazione. La vita interiore richiede passività, cedimento della volontà, solo a tale condizione l’opera dello Spirito santo diviene efficace perché non trova ostacoli, ma canali aperti. 
Se dunque la comunità monastica è «il luogo per eccellenza dove esercitarsi con gli strumenti dell’arte spirituale» e in cui maturano relazioni di comunione, la crisi che il monachesimo sta attraversando per mancanza di vocazioni, pone seri interrogativi. C’è una crescente domanda di spiritualità che non trova risposta all’interno degli ambiti tradizionali e che troppo spesso finisce per rivolgersi verso pratiche di altre religioni. È molto importante accettare il confronto, sia valorizzando, come a Bose, la grande tradizione spirituale di cui la Chiesa è custode, sia cercando di comprendere quale possa essere la chiave del cambiamento. Come traspare anche da certi passaggi del libro, la forma troppo legata al rigore, a una visione eccessivamente mortificante del corpo, non corrisponde più alla sensibilità spirituale di oggi. Dietro questa domanda emerge il grande bisogno di un rapporto diretto con Dio, intimo. Solo uomini e donne che sperimentano il cammino interiore possono divenire riferimento per altri. La Regola è importante come strumento, ma la forma non può sostituirsi alla sostanza, il piano normativo non può prevalere sull’azione dello Spirito santo la cui modalità invita all’abbandono usando pazienza, dolcezza, misericordia, come i ritmi della maturazione spirituale richiedono.
C’è quindi da aspettare con fiducia che quanto è in gestazione e che interpella trovi sempre forme nuove per venire alla luce: «Impariamo ad amare Cristo come vangelo, questo vangelo che attraversa i secoli e non cessa mai di essere vivo: a volte è brace sotto la cenere, sembra essersi spento (…) tuttavia poi risorge, basta che qualcuno lo cerchi come si cerca il fuoco sotto la cenere, ed ecco che di nuovo presente, il vangelo divampa».
L'Osservatore Romano