venerdì 30 giugno 2017

La miserabile resa alla caccia alle streghe

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Il Foglio
(Giuliano Ferrara) Il card. Pell incriminato per abusi sessuali di decenni fa. Per me, sulla sua non colpevolezza vale il vaglio di tre Papi. Ma l' incapacità della chiesa di difendersi dalle accuse di pedofilia viene da più lontano: da Lutero e dal Vaticano II.
Il passaggio o la recita sempre lo stesso. Quaranta, cinquanta anni dopo spuntano le vittime, il racconto orrido di abusi e coperture degli abusi si fa largo a mac chia d' olio, il tempo trascorso rende il tutto molto opaco ma la memoria organizzata è infallibile e si nutre di particolari da incubo che sfidano il mezzo secolo dai fatti, i comitati legali e ideologici si impadroniscono della situazione, vittime e portavoci delle vittime e delle associazioni antipedofilia non si distinguono più tra loro, commissioni d' indagine politiche si mescolano con tutto l' equivoco del caso a pubblici ministeri e polizia giudiziaria nella rincorsa al rinvio a giudizio, la chiamata in causa di prelati collocati sempre più in alto nella gerarchia vaticana rende più saporito il minestrone cucinato con l' operosa assistenza dei media, e il dilagare di pubblicazioni ad hominem, esempi di character assassination senza scrupoli, appronta il letto su cui si distende un' opinione pubblica indignata, terrorizzata dai particolari, fino all' inevi tabile accusa di stupro, abuso supremo. Ora hanno beccato in pieno il cardinale George Pell, australiano, prete nei primi anni Settanta, poi arcivescovo, poi primate d' Australia e cardinale della chiesa romana, infine numero tre operativo del potere vaticano con delega alla finanza e alla sua riforma. Dall' Australia, tra commissioni politiche e magistratura, tra comitati e movimento delle vittime, sono riusciti a incriminarlo, con una ovvia presunzione di innocenza e una altrettanto ovvia gogna universale, e lo mandano sotto processo. E' archiviata l' archiviazione delle precedenti denunce o testimonianze, risalenti al 2002, e si procede sicuri e inflessibili nonostante tutto. Il vaglio di tre pontefici sulla figura di Pell è un boccone ghiotto: san Giovanni Paolo II lo fa vescovo e cardinale, Benedetto XVI lo stima e lo considera per quel che è, uomo della tradizione cattolica e della guerra al relativismo religioso, filosofico e morale, mentre Francesco addirittura, sapendo che era personalità "controversa" agli occhi del movimento antipedofilo australiano, lo chiama a Roma ad altissime responsabilità. Un passaggio delicato per il pontificato, sentenzia uno dei portavoce della zizzania curiale, il giornalista Fittipaldi. Un esempio di tolleranza zero per un Papa che gli impone di tornare in Australia a difendersi in giudizio, è il verdetto del difensore di Francesco, Alberto Melloni. Io nel video via web vedo un uomo che va verso gli ottanta, un colosso dalla faccia larga, sincera e intelligente, che parla un inglese con l' accento rude della "riva fatale", e un' espressione amara, malinconica, impaurita nonostante l' orgogliosa proclamazione della sua innocenza e la disponibilità impeccabile a battersi in giustizia per dimostrarla. Pell ha tutta l' aria di sapere quanto è forte l' aura di sospetto e di fetida malevolenza che circonda qualunque prelato vaticano in posizione eminente che sia raggiunto da accuse di abusi e copertura di abusi, conosce il meccanismo della vittimizzazione in cui si mescolano ricordi lontani, testimonianze per loro natura giuridicamente dubbie, rimpasti orchestrati della memoria come strumento ideologico di lotta contro il clero cattolico. Sa che il delegato del Papa nella commissione vaticana contro la pedofilia, parlando nella celebre "60 minutes" della Cbs americana, Peter Saunders, tra i fedeli abusati in gioventù, gli ha rovesciato contro l' imputazione mortale di essere uno che "disprezza i bambini vittime di abusi sessuali". Pell è un uomo realista e pragmatico, un costruttore e un capo, uno che diffida delle burocrazie curiali, dove si annidano tanti suoi nemici che sono nemici di ogni riforma e soffiano sul fuoco sacro del repulisti morale perché nulla davvero cambi, e probabilmente ha un' opinione dubbia di molti aspetti plateali e chiassosi della campagna contro gli abusi del clero in tutti questi anni. Dunque "disprezza i bambini vittime di abusi sessuali", è una delle tante equazioni morali penetrate nella scorza una volta dura della chiesa, oggi un corpo fragilissimo e un' anima in. 
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La resa su Pell. La secolarizzazione forzata, fino alla Renuntiatio, è stata orchestrata sulla pedofilia del clero celibe
(Giuliano Ferrara - Il Foglio) Sulla non colpevolezza di George Pell aggiungo il mio modesto e inessenziale al vaglio di tre Papi. Sono da sempre convinto, e non c' è "Spotlight" che mi faccia cambiare parere, che uno dei cardini della secolarizzazione e scristianizzazione forzata di tutti questi anni, fino alla messa in stato di espiazione di un pontificato teologico altissimo, e alla Renuntiatio del suo titolare Benedetto XVI, è la campagna orchestrata contro la pedofilia del clero. Il disordine sessuale è sempre stato tipico di tutte le società in generale, e in particolare non sfuggono al quadro i luoghi deputati dell' inibizione della libido, tra questi il clero monosessuale, celibe e votato alla castità. Non sono un negazionista quando si parli di abusi sui minori. Bisogna però che se ne parli in modo civile, rispettando le proporzioni, sapendo misurare con giustizia e senso comune l' esatta dimensione del fenomeno e la sua diffusione, evitando di fare cacce alle streghe monacate o tonacate, troppo semplice rovesciamento storico e mitologico della logica di Torquemada e dei peggiori istruttori dell' In quisizione spagnola. E sono stordito dall' incapacità della chiesa di rispondere per le rime alla caccia alle streghe, dalla rinuncia a spiegare, a descrivere, a tematizzare il fenomeno degli abusi, consegnando mani e piedi il clero alla logica del sospetto come anticamera della verità. S' io fossi Papa arderei lo monno, per parafrasare a contrario Cecco Angiolieri (s' i' fosse papa, sarei allor giocondo / ché tutti i cristiani embrigarei). Risponderei alla Royal Commission australiana che si facessero gli affari loro, e alla giustizia dello stato di Victoria che il cardinale Pell è indisponibile a processi che potrebbero trasformarsi facilmente in giustizia sommaria, è statutariamente difeso dalla sua condizione vaticana, e non figurerà come capro espiatorio nel quadro di una grave campagna di delegittimazione dell' autori tà e dei carismi della chiesa cattolica cioè universale. Ma questo non può ahimè accadere. Con il Concilio Vaticano II la chiesa romana è diventata luterana. Genio religioso, grande predicatore, feroce moralista, il monaco fatale dell' Europa e del mondo moderno affidava, con Paolo e Agostino, alla sola fede la salvezza delle anime, e alla sola Scrittura. Ne uscì distrutto l' im pianto di fede e ragione costruito da Tommaso d' Aquino con l' ausilio di Aristotele. Ne uscì consumata in cinque secoli la chiesa come istituzione pellegrina visibile, sostituita dal popolo di Dio che amministra per sé solo, nell' intimità e nella quotidianità del suo vivere, l' istinto del peccato e l' impulso morale. Roma diede scandalo, tra lascivia denaro politica e bellezza, e la cristianità occidentale piano piano è mutata fin dalle sue radici sotto la sferza della Riforma. Il disordine sessuale antico come il mondo, sotto l' azione congiunta del puritanesimo e del libertarismo relativista, è diventato fenomeno specifico, è dilagato come problema proprio di una chiesa celibe e casta, dunque repressiva, ed è fatto oggetto di una campagna secolarista di colpevolizzazione. L' unica risposta rimasta è quella, per la verità miserabile, della tolleranza zero e dell' abbandono dei preti al vorace pregiudizio dei giusti, dei portavoce delle vittime.

Venerdì della XII settimana del Tempo Ordinario

giovedì 29 giugno 2017

Benedizione dei Palli e Celebrazione Eucaristica nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Omelia del Papa



Benedizione dei Palli e Celebrazione Eucaristica nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Omelia del Papa: "Chi confessa Gesù fa come Pietro e Paolo: lo segue fino alla fine; non fino a un certo punto, ma fino alla fine, e lo segue sulla sua via, non sulle nostre vie"

Nella Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, alle ore 9.30, in Piazza San Pietro, il Santo Padre Francesco benedice i Palli, presi dalla Confessione dell’Apostolo Pietro e destinati agli Arcivescovi Metropoliti nominati nel corso dell’anno. Il Pallio verrà poi imposto a ciascun Arcivescovo Metropolita dal Rappresentante Pontificio nella rispettiva Sede Metropolitana.
Dopo il rito di benedizione dei Palli, il Papa presiede la Celebrazione Eucaristica con i Cardinali antichi e nuovi, con gli Arcivescovi Metropoliti e con i vescovi Sacerdoti.
Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni della Città di Roma, è presente alla Santa Messa una Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, inviata da Sua Beatitudine Bartolomeo e guidata da Sua Eminenza Job, Arcivescovo di Telmessos, accompagnato dai Rev.di Padri Ambrosios Chorozidis e Agathanghelos Siskos.
Nel corso della Celebrazione Eucaristica, dopo la lettura del Vangelo, il Papa pronuncia l’omelia che riportiamo di seguito:


Omelia del Santo Padre
La Liturgia di oggi ci offre tre parole essenziali per la vita dell’apostolo: confessione, persecuzione, preghiera.
La confessione è quella di Pietro nel Vangelo, quando la domanda del Signore da generale diventa particolare. Infatti Gesù dapprima chiede: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). 
Da questo “sondaggio” emerge da più parti che il popolo considera Gesù un profeta. E allora il Maestro pone ai discepoli la domanda davvero decisiva: «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 15). A questo punto risponde solo Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16). Ecco la confessione: riconoscere in Gesù il Messia atteso, il Dio vivente, il Signore della propria vita.
Questa domanda vitale Gesù la rivolge oggi a noi, a tutti noi, in particolare a noi Pastori. È la domanda decisiva, davanti alla quale non valgono risposte di circostanza, perché è in gioco la vita: e la domanda della vita chiede una risposta di vita. Perché a poco serve conoscere gli articoli di fede se non si confessa Gesù Signore della propria vita. Oggi Egli ci guarda negli occhi e chiede: “Chi sono io per te?”. Come a dire: “Sono ancora io il Signore della tua vita, la direzione del tuo cuore, la ragione della tua speranza, la tua fiducia incrollabile?”. Con San Pietro, anche noi rinnoviamo oggi la nostra scelta di vita come discepoli e apostoli; passiamo nuovamente dalla prima alla seconda domanda di Gesù, per essere “suoi” non solo a parole, ma coi fatti e nella vita.
Chiediamoci se siamo cristiani da salotto, che chiacchierano su come vanno le cose nella Chiesa e nel mondo, oppure apostoli in cammino, che confessano Gesù con la vita perché hanno Lui nel cuore. Chi confessa Gesù sa che non è tenuto soltanto a dare pareri, ma a dare la vita; sa che non può credere in modo tiepido, ma è chiamato a “bruciare” per amore; sa che nella vita non può “galleggiare” o adagiarsi nel benessere, ma deve rischiare di prendere il largo, rilanciando ogni giorno nel dono di sé. Chi confessa Gesù fa come Pietro e Paolo: lo segue fino alla fine; non fino a un certo punto, ma fino alla fine, e lo segue sulla sua via, non sulle nostre vie. La sua via è la via della vita nuova, della gioia e della risurrezione, la via che passa anche attraverso la croce e le persecuzioni.
Ecco la seconda parola, persecuzioni. Non solo Pietro e Paolo hanno dato il sangue per Cristo, ma l’intera comunità agli inizi è stata perseguitata, come ci ha ricordato il Libro degli Atti degli Apostoli (cfr 12,1). Anche oggi in varie parti del mondo, a volte in un clima di silenzio – non di rado silenzio complice –, tanti cristiani sono emarginati, calunniati, discriminati, fatti oggetto di violenze anche mortali, spesso senza il doveroso impegno di chi potrebbe far rispettare i loro sacrosanti diritti.
Vorrei però sottolineare soprattutto quanto l’Apostolo Paolo afferma prima di «essere – come lui scrive – versato in offerta» (2 Tm 4,6). Per lui vivere era Cristo (cfr Fil 1,21), e Cristo crocifisso (cfr 1 Cor 2,1), che ha dato la vita per lui (cfr Gal 2,20). Così, da discepolo fedele, Paolo ha seguito il Maestro offrendo anche lui la vita. Senza la croce non c’è Cristo, ma senza la croce non c’è nemmeno il cristiano. Infatti, «è proprio della virtù cristiana non solo operare il bene, ma anche saper sopportare i mali» (Agostino, Disc. 46,13), come Gesù. Sopportare il male non è solo avere pazienza e tirare avanti con rassegnazione; sopportare è imitare Gesù: è portare il peso, portarlo sulle spalle per Lui e per gli altri. È accettare la croce, andando avanti con fiducia perché non siamo soli: il Signore crocifisso e risorto è con noi. Così, con Paolo possiamo dire che «in tutto siamo tribolati, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati» (2 Cor 4,8-9).
Sopportare è saper vincere con Gesù alla maniera di Gesù, non alla maniera del mondo. Ecco perché Paolo – lo abbiamo sentito – si ritiene un vincitore che sta per ricevere la corona (cfr 2 Tm 4,8) e scrive: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (v. 7). L’unica condotta della sua buona battaglia è stata vivere per: non per sé stesso, ma per Gesù e per gli altri. Ha vissuto “correndo”, cioè senza risparmiarsi, anzi consumandosi. Una cosa dice di aver conservato: non la salute, ma la fede, cioè la confessione di Cristo. Per amore suo ha vissuto le prove, le umiliazioni e le sofferenze, che non vanno mai cercate, ma accettate. E così, nel mistero del dolore offerto per amore, in questo mistero che tanti fratelli perseguitati, poveri e malati incarnano anche oggi, risplende la forza salvifica della croce di Gesù.
La terza parola è preghiera. La vita dell’apostolo, che sgorga dalla confessione e sfocia nell’offerta, scorre ogni giorno nella preghiera. La preghiera è l’acqua indispensabile che nutre la speranza e fa crescere la fiducia. La preghiera ci fa sentire amati e ci permette di amare. Ci fa andare avanti nei momenti bui, perché accende la luce di Dio. Nella Chiesa è la preghiera che ci sostiene tutti e ci fa superare le prove. Lo vediamo ancora nella prima Lettura: «Mentre Pietro era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (At 12,5). Una Chiesa che prega è custodita dal Signore e cammina accompagnata da Lui. Pregare è affidargli il cammino, perché se ne prenda cura. La preghiera è la forza che ci unisce e sorregge, il rimedio contro l’isolamento e l’autosufficienza che conducono alla morte spirituale. Perché lo Spirito di vita non soffia se non si prega e senza preghiera non si aprono le carceri interiori che ci tengono prigionieri.
I Santi Apostoli ci ottengano un cuore come il loro, affaticato e pacificato dalla preghiera: affaticato perché chiede, bussa e intercede, carico di tante persone e situazioni da affidare; ma al tempo stesso pacificato, perché lo Spirito porta consolazione e fortezza quando si prega. Quanto è urgente nella Chiesa avere maestri di preghiera, ma prima di tutto essere uomini e donne di preghiera, che vivono la preghiera!
Il Signore interviene quando preghiamo, Lui che è fedele all’amore che gli abbiamo confessato e ci sta vicino nelle prove. Egli ha accompagnato il cammino degli Apostoli e accompagnerà anche voi, cari Fratelli Cardinali, qui riuniti nella carità degli Apostoli che hanno confessato la fede con il sangue. Sarà vicino anche a voi, cari Fratelli Arcivescovi che, ricevendo il pallio, sarete confermati a vivere per il gregge, imitando il Buon Pastore, che vi sostiene portandovi sulle spalle. Lo stesso Signore, che ardentemente desidera vedere tutto riunito il suo gregge, benedica e custodisca il Patriarca Ecumenico anche la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, e il caro Fratello Bartolomeo, che qui l’ha inviata in segno di comunione apostolica.



Solennità dei santi Pietro e Paolo. L'Angelus del Papa.




L'Angelus di Papa Francesco. "Il Signore è sempre al nostro fianco, cammina con noi, non ci abbandona mai. Specialmente nel momento della prova, Dio ci tende la mano, viene in nostro aiuto e ci libera dalle minacce dei nemici"

Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 
I Padri della Chiesa amavano paragonare i santi Apostoli Pietro e Paolo a due colonne, sulle quali poggia la costruzione visibile della Chiesa. Entrambi hanno suggellato con il proprio sangue la testimonianza resa a Cristo con la predicazione e il servizio alla nascente comunità cristiana. Questa testimonianza è messa in luce dalle Letture bibliche della liturgia odierna, Letture che indicano il motivo per cui la loro fede, confessata e annunciata, è stata poi coronata con la prova suprema del martirio. 
Il Libro degli Atti degli Apostoli (cfr 12,1-11) racconta l’evento della prigionia e della conseguente liberazione di Pietro. Egli sperimentò l’avversione al Vangelo già a Gerusalemme, dove era stato rinchiuso in prigione dal re Erode «col proposito di farlo comparire davanti al popolo» (v. 4). Ma fu salvato in modo miracoloso e così poté portare a termine la sua missione evangelizzatrice, prima nella Terra Santa e poi a Roma, mettendo ogni sua energia al servizio della comunità cristiana. 
Anche Paolo ha sperimentato ostilità dalle quali è stato liberato dal Signore. Inviato dal Risorto in molte città presso le popolazioni pagane, egli incontrò forti resistenze sia da parte dei suoi correligionari che da parte delle autorità civili. Scrivendo al discepolo Timoteo, riflette sulla propria vita e sul proprio percorso missionario, come anche sulle persecuzioni subite a causa del Vangelo. 
Queste due “liberazioni”, di Pietro e di Paolo, rivelano il cammino comune dei due Apostoli, i quali furono mandati da Gesù ad annunciare il Vangelo in ambienti difficili e in certi casi ostili. 
Entrambi, con le loro vicende personali ed ecclesiali, dimostrano e dicono a noi, oggi, che il Signore è sempre al nostro fianco, cammina con noi, non ci abbandona mai. Specialmente nel momento della prova, Dio ci tende la mano, viene in nostro aiuto e ci libera dalle minacce dei nemici. Ma ricordiamoci che il nostro vero nemico è il peccato, e il Maligno che ci spinge ad esso. Quando ci riconciliamo con Dio, specialmente nel Sacramento della Penitenza, ricevendo la grazia del perdono, siamo liberati dai vincoli del male e alleggeriti dal peso dei nostri errori. Così possiamo continuare il nostro percorso di gioiosi annunciatori e testimoni del Vangelo, dimostrando che noi per primi abbiamo ricevuto misericordia. 
Alla Vergine Maria, Regina degli Apostoli, rivolgiamo la nostra preghiera, che oggi è soprattutto per la Chiesa che vive a Roma e per questa città, di cui Pietro e Paolo sono i patroni. Essi le ottengano il benessere spirituale e materiale. La bontà e la grazia del Signore sostenga tutto il popolo romano, perché viva in fraternità e concordia, facendo risplendere la fede cristiana, testimoniata con intrepido ardore dai santi Apostoli Pietro e Paolo.

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Cari fratelli e sorelle, 
questa mattina, nella Basilica di San Pietro, ho celebrato l’Eucaristia con i cinque Cardinali che ho creato nel Concistoro di ieri, e ho benedetto i Palli degli Arcivescovi Metropoliti nominati in quest’ultimo anno, provenienti da diversi Paesi. Rinnovo il mio saluto e il mio augurio a loro e a quanti li hanno accompagnati in questo pellegrinaggio. Li incoraggio a proseguire con gioia la loro missione al servizio del Vangelo, in comunione con tutta la Chiesa. Nella stessa celebrazione ho accolto con affetto i Membri della Delegazione venuta a Roma a nome del Patriarca Ecumenico, il carissimo fratello Bartolomeo. Anche questa presenza è segno dei fraterni legami esistenti tra le nostre Chiese.
Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, famiglie, gruppi parrocchiali, associazioni e singoli fedeli provenienti dall’Italia e da tante parti del mondo, specialmente dalla Germania, dall’Inghilterra, dalla Bolivia, dall’Indonesia e dal Qatar. Saluto gli studenti delle scuole cattoliche di Salbris (Francia), di Osijek (Croazia) e di Londra. 
Il mio saluto oggi va soprattutto ai fedeli di Roma, nella festa dei santi Patroni della Città! Per tutti fedeli di Roma un grande applauso. Per tale ricorrenza la “Pro Loco” romana ha promosso la tradizionale Infiorata, realizzata da diversi artisti e dai volontari del Servizio Civile. Grazie per questa iniziativa e per le belle rappresentazioni floreali! E desidero ricordare anche lo spettacolo pirotecnico che avrà luogo stasera a Piazza del Popolo. 
A tutti auguro una buona festa. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

29 Giugno. Santi Pietro e Paolo. Commento al Vangelo.

mercoledì 28 giugno 2017

Un cardinale pericoloso

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Matthew Schmitz

Per gentile concessione del Catholic Herald, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un articolo di Matthew Schmitz apparso nel numero del 23 giugno del magazine cattolico londinese. Il testo originale in inglese è pubblicato in questa pagina.
Una folla sempre più numerosa vuole la testa del cardinale Robert Sarah su un piatto. Aprite un qualunque periodico cattolico liberal e probabilmente vi troverete un appello al licenziamento del cardinale guineano che in Vaticano guida la Congregazione per il Culto divino: «È giunto il tempo per [papa Francesco] di sostituire il cardinal Sarah» (Maureen FiedlerNational Catholic Reporter); «Potrebbe esserci bisogno di vino nuovo alla Congregazione per il Culto divino» (Christopher LambThe Tablet); «I rappresentanti della Curia che si rifiutano di adeguarsi al programma di Francesco dovrebbero dimettersi. O il Papa dovrebbe mandarli da qualche altra parte» (Robert MickensCommonweal); «Papa Francesco deve puntare i piedi. I cardinali come Robert Sarah… possono credere che con un pontificato che va nella direzione sbagliata, sia un dovere resistere. Ma questo non significa che Francesco debba arrendersi a loro» (The Tablet).
Sarah non è sempre stato trattato come l’uomo più pericoloso della cristianità. Quando fu scelto per l’incarico da papa Francesco nel 2014, beneficiò della benevolenza anche di quelli che oggi lo criticano. Mickens lo descrisse come «poco ambizioso, un buon ascoltatore e, nonostante abbia mostrato chiaramente un lato conservatore da quando è arrivato a Roma… un “uomo del Vaticano II”». Le fonti di Lamb gli riferironoche Sarah sarebbe piaciuto ai liberal, il tipo di vescovo che guarda simpateticamente alla “inculturazione”. John Allen sintetizzò così il consenso intorno al Vaticano: Sarah è un vescovo di basso profilo, «caloroso, simpatico e modesto».
Tutto questo mutò il 6 di ottobre del 2015, il terzo giorno del controverso Sinodo sulla famiglia. I padri sinodali erano divisi da due richieste apparentemente contrastanti, quella di avvicinarsi alle persone che si sentono stigmatizzate dall’insegnamento della Chiesa riguardo al sesso e quella di proclamare coraggiosamente la verità a un mondo ostile. In quello che divenne noto come il discorso delle “bestie dell’apocalisse”, Sarah insistette che entrambe le cose sono possibili. «Non combattiamo contro creature di carne e sangue», disse ai suoi fratelli vescovi. «Dobbiamo essere inclusivi e accoglienti verso tutto ciò che è umano». Ma la Chiesa deve continuare a proclamare la verità di fronte a due grandi sfide. «Da una parte, l’idolatria della libertà occidentale; dall’altra il fondamentalismo islamico: secolarismo ateo contro fanatismo religioso».
Da giovane prete Sarah aveva studiato alla École Biblique di Gerusalemme e progettato una dissertazione su “Isaia, capitoli 9-11, alla luce della linguistica semitica nordoccidentale: ugaritico, fenicio e punico”. Perciò non sorprende che [al Sinodo] impiegò il linguaggio biblico per spiegarsi. La libertà occidentale e il fondamentalismo islamico, disse all’assemblea, sono come le due «bestie dell’apocalisse». L’immagine viene dal Libro della Rivelazione, che parla di due bestie che attaccheranno la Chiesa. La prima emergerà dal mare con sette teste, dieci corna e blasfemia sulle labbra. La seconda sorgerà dalla terra facendo grandi prodigi e convincerà il mondo ad adorare la prima.
Questa strana dinamica – una minaccia mostruosa che porta gli uomini ad abbracciarne un’altra – è quella che Sarah vede all’opera nella nostra epoca. La paura della repressione religiosa induce alcuni a venerare una libertà idolatrica. (Mi ricordo la volta che fui l’unico a rimanere seduto mentre Ayaan Hirsi Ali terminava un suo discorso chiedendo alla platea di fare un’ovazione «alla blasfemia!»). D’altra parte, gli attacchi alla natura umana spingono altri ad abbracciare la falsa sicurezza del fondamentalismo religioso, che ha la sua espressione più terribile sotto l’insegna nera dell’Isis. Ciascun male tenta coloro che lo temono a soccombere al suo opposto. Così come con il comunismo e il nazismo nel XX secolo, bisogna resistere a entrambi.
L’arcivescovo Stanisław Gądecki, capo della Conferenza episcopale polacca, scrisse che l’intervento di Sarah aveva un «livello teologico e intellettuale molto alto», ma sembra che altri non ne abbiano inteso il significato. L’arcivescovo di Brisbane, Mark Coleridge, deprecò l’uso del «linguaggio apocalittico». (Viene da chiedersi che cosa pensi del resto della Rivelazione di Giovanni). «Ai giovani non piace che gli si ricordi il giudizio», ironizzò un cardinale dopo il discorso di Sarah.
Un importante osservatore di cose vaticane mi scrisse da Roma: «[Sarah] è intervenuto oggi parlando delle due bestie dell’Apocalisse. Il suo potenziale papabile ha subìto un brutto colpo». Il padre gesuita James Martin dichiarò che Sarah aveva violato il Catechismo, «che ci chiede di trattare le persone LGBT con “rispetto, compassione, delicatezza”».
A volte viene da chiedersi se, per i cattolici come padre Martin, esistano parole con cui l’insegnamento della Chiesa a riguardo del sesso possa essere difeso – dal momento che loro non le utilizzano mai. Comunque, la reazione al discorso di Sarah probabilmente aveva a che fare più con il semplice analfabetismo che con una qualche differenza di principio. Il cardinale di Durban, Wilfred Napier, alla vigilia del Sinodo disse che gli europei soffrono di una «diffusa ignoranza e rifiuto non solo dell’insegnamento della Chiesa ma anche della Scrittura». Aveva ragione. Coloro che non vivono nella Scrittura e non conoscono personalmente le sue immagini sono più propensi a ritenere il linguaggio biblico irrilevante o incendiario.
Il 14 ottobre, una settimana dopo il discorso di Sarah, il cardinale Walter Kasper si lamentò degli interventi africani al Sinodo. «Io posso parlare solo della Germania, dove una larga maggioranza vuole un’apertura verso i divorziati risposati. Lo stesso vale per il Regno Unito e ovunque». O meglio, non proprio ovunque: «Con l’Africa è impossibile. Ma non dovrebbero essere loro a dirci cosa fare».
Il rigetto di Sarah e degli altri africani da parte di Kasper scatenò una immediata protesta. Obianuju Ekeocha, una cattolica nigeriana che si batte contro l’aborto, scrisse: «Figuratevi il mio shock oggi quando ho letto le parole di uno dei più importanti padri sinodali… In quanto donna africana che oggi vive in Europa, vedo le mie idee e i miei valori morali continuamente screditati come “questioni africane”». D’accordo il cardinale Napier: «È preoccupante leggere espressioni com “il teologo del Papa” riferite al cardinale Kasper… Kasper non è molto rispettoso verso la Chiesa africana e i suoi pastori».
La dichiarazione di Kasper ruppe la diga. Da quel momento, una ondata di abusi si è abbattuta su Sarah. I suoi critici lo hanno descritto come arrogante, ignorante e un criminale potenziale – o quanto meno meritevole di una bella lezione.
Michael Sean Winters del National Catholic Reporter ha ricordato a Sarah il suo ruolo («In fondo i cardinali di Curia sono dipendenti, dipendenti rispettati, ma dipendenti»). Padre William Grim su La Croix ha definito il suo lavoro «asinesco… palesemente stupido… idiozia». Andrea Grillo, un liturgista italiano liberal, ha scritto: «Sarah ha mostrato, da anni, una sostanziale inadeguatezza e incompetenza in ambito liturgico».
Su The Tablet, padre Anthony Ruff ha corretto Sarah. «Sarebbe bene che studiasse le riforme più approfonditamente e riuscisse a comprendere, per esempio, cosa significa “mistero” nella teologia cattolica». Massimo Faggioli, un vaticanista che frequenta le gelaterie di Roma, ha osservato innocentemente che il discorso delle bestie dell’apocalisse di Sarah «sarebbe passibile di denuncia penale in alcuni paesi». (Avendo amministrato per anni sotto la brutale dittatura marxista di Sékou Touré, Sarah non ha proprio bisogno che gli si ricordi che la professione della fede cristiana può essere un crimine).
Dopo che papa Francesco ha respinto l’appello di Sarah ai sacerdoti a celebrare la Messa ad orientem, il disprezzo verso di lui è esploso in una scarica di botte: «È assai insolito per il Vaticano schiaffeggiare pubblicamente un principe della Chiesa, eppure non sorprende del tutto visto come si è mosso il cardinal Sarah…» (Christopher LambTablet); «Il Papa ha schiaffeggiato Sarah abbastanza sonoramente, salvandogli la faccia solo un po’» (Anthony RuffPray Tell); «Il Papa schiaffeggia Sarah» (Robert Mickens su Twitter); «Papa Francesco… lo ha schiaffeggiato» (sempre Mickens, per Commonweal); «Un altro schiaffo» (Mickens ancora una volta, qualche mese dopo per La Croix). Sommato tutto insieme, fa una notevole lezione.
Scambiarsi accuse di insensibilità probabilmente non è il modo migliore per risolvere le dispute dottrinali, ma la retorica dei critici di Sarah rivela qualcosa di importante a riguardo della vita cattolica oggi: nelle dispute dottrinali, morali e liturgiche, i cattolici liberal sono diventati nazionalisti ecclesiali.
I cattolici tradizionali sono inclini a sostenere standard dottrinali e atteggiamenti pastorali coerenti a prescindere dai confini nazionali. Se non prediligono la Messa in latino, vogliono che le traduzioni nelle lingue locali ricalchino il latino il più esattamente possibile. Non sono scandalizzati dal modo in cui gli africani parlano dell’omosessualità o i cristiani d’Oriente dell’islamismo.
I cattolici liberal, invece, si battono per le traduzioni scritte in stile idiomatico e approvate dalle conferenze episcopali nazionali, non da Roma. Le realtà locali esigono che la verità venga regolata ogni volta che oltrepassa un confine. Le affermazioni dottrinali cattoliche dovrebbero essere accennate in un linguaggio pastoralmente sensibile – sensibile cioè verso le sensibilità dell’Occidente ricco e istruito.
Uno dei vantaggi del nazionalismo ecclesiale è che consente ai liberal di evitare di argomentare in campo dottrinale, dove i “rigoristi” tradizionali di solito hanno la meglio. Se la verità deve essere mediata dalle realtà locali, nessuno a Roma o ad Abuja avrà granché da dire sulla fede di Bruxelles e di Stoccarda (ecco qual era il punto dietro il rigetto degli africani da parte di Kasper).
È quel che emerge in certi autori come Rita Ferrone di Commonweal, la quale dice che invece di badare a Sarah, chi parla inglese dovrebbe «fidarsi del nostro popolo e del nostro buon senso per quanto riguarda la preghiera nella nostra lingua». Il “noi” che sta dietro quel “nostro” non è globale e cattolico, ma borghese e americano.
E se invece di essere rimesso al suo posto, schiaffeggiato e sbattuto in galera per aver violato i codici linguistici dell’Occidente, Sarah diventasse papa? Ecco quello che i suoi critici temono di più. Mickens scrive della cupa possibilità di un «Pio XII (anche noto come Robert Sarah». Lamb dice che Sarah potrebbe finire per essere «il primo papa nero». (Sarebbe stupendo – i genitori di Sarah, due convertiti del remoto villaggio di Ourous, in Guinea, immaginavano che solo gli uomini bianchi potessero diventare preti e risero quando il loro figlio disse loro che voleva entrare in seminario). Lo stesso osservatore bene informato che mi disse che il potenziale di Sarah era precipitato durante il Sinodo, ora dice che le sue prospettive stanno migliorando. «La gente ha visto tutti gli attacchi, e il suo generoso rifiuto di rispondere a tono».
È davvero notevole il fatto che Sarah abbia sopportato una tale gragnuola di insulti con tanta grazia. Nel suo nuovo libro La forza del silenzio sentiamo il suo grido soffocato di angoscia:
«Ho provato sulla mia pelle la dolorosa esperienza dell’assassinio attraverso il chiacchiericcio, la calunnia e la pubblica umiliazione, e ho imparato che quando una persona ha deciso di distruggerti, non le mancheranno le parole, la cattiveria e l’ipocrisia; la menzogna ha una capacità immensa di costruire argomenti, prove e verità sulla sabbia. Quando tale è il comportamento degli uomini di Chiesa, e dei vescovi in particolare, il dolore è anche più profondo. Ma… dobbiamo restare calmi e in silenzio, chiedendo che la grazia non ceda mai al rancore, all’odio e alla sensazione dell’impotenza. Restiamo saldi nel nostro amore per Dio e per la sua Chiesa, nell’umiltà».
Nonostante tutto questo, Sarah è un uomo indomito. Il suo libro ribadisce l’appello alla Messa ad orientem e al resto della “riforma della riforma”. «Se Dio vorrà, quando vorrà e come vorrà, sarà realizzata la riforma della riforma nella liturgia. Malgrado lo stridore di denti, essa avverrà, perché c’è in gioco il futuro della Chiesa».
Se Sarah si è rifiutato di rendersi accondiscendente con quelli che comandano a Roma, non si metterà nemmeno al servizio altri schieramenti. In questo libro meravigliosamente personale, racconta vecchie storie popolari islamiche, ama profondamente i deboli e gli afflitti, e depreca gli interventi armati: «Come possiamo non essere scandalizzati e inorriditi dall’azione dei governi dell’America e dell’Occidente in Iraq, Libia, Afghanistan e Siria?». Sarah li considera spargimenti di sangue idolatrici «nel nome della dea Democrazia» e «nel nome della Libertà, un’altra divinità dell’Occidente». Si oppone allo sforzo di costruire «una religione senza confini e una nuova etica globale». E se questa vi sembra un’iperbole, ricordate che sei giorni dopo che i missili avevano colpito Baghdad, Tony Blair mandò a George W. Bush un promemoria che diceva: «La nostra ambizione è grande: costruire un’agenda globale attorno alla quale possiamo unire il mondo… per diffondere i nostri valori di libertà, democrazia, tolleranza». Sarah vede questo programma come qualcosa di contiguo alla blasfemia.
Ha opinioni altrettanto taglienti sull’economia moderna: «La Chiesa commetterebbe un errore fatale se si logorasse nel tentativo di dare una specie di volto sociale al mondo moderno che è stato scatenato dal capitalismo del libero mercato».
Guerra, persecuzione, sfruttamento: tutte queste forze fanno parte di una «dittatura del rumore» i cui slogan incessanti distraggono gli uomini e screditano la Chiesa. Per resistere ad essa, Sarah si rivolge all’esempio di Fratello Vincent, un giovane recentemente scomparso che Sarah amava con tutto il cuore. Solo se amiamo e preghiamo come Vincent possiamo sentire la musica callada, la musica silenziosa che gli angeli suonarono per Giovanni della Croce. Sì, questo libro mostra che Sarah ha molto da dire: sulla vita mistica, sulla Chiesa e sull’attualità mondiale. Ma su tutto il resto, rimane in silenzio – mentre il mondo parla di lui.


Tempi

Concistoro di Papa Francesco per la creazione di 5 nuovi cardinali. Allocuzione del Papa.



Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 5 nuovi Cardinali. Allocuzione del Santo Padre 
Sala stampa della Santa Sede 

Alle ore 16 di oggi, nella Basilica Vaticana, il Santo Padre Francesco tiene un Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 5 nuovi Cardinali, per l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo o Diaconia. Riportiamo di seguito il testo dell’Allocuzione che il Santo Padre Francesco pronuncia nel corso del Concistoro:
Allocuzione del Santo Padre
«Gesù camminava davanti a loro». Questa è l’immagine che ci viene dal Vangelo che abbiamo ascoltato (Mc 10,32-45), e che fa da sfondo anche all’atto che stiamo compiendo: un Concistoro per la creazione di alcuni nuovi Cardinali.
Gesù cammina decisamente verso Gerusalemme. Sa bene che cosa lo attende e ne ha parlato più volte ai suoi discepoli. Ma tra il cuore di Gesù e i cuori dei discepoli c’è una distanza, che solo lo Spirito Santo potrà colmare. Gesù lo sa; per questo è paziente con loro, parla loro con franchezza, e soprattutto li precede, cammina davanti a loro.

Lungo il cammino, i discepoli stessi sono distratti da interessi non coerenti con la “direzione” di Gesù, con la sua volontà che è un tutt’uno con la volontà del Padre. Ad esempio – abbiamo sentito – i due fratelli Giacomo e Giovanni pensano a come sarebbe bello sedere alla destra e alla sinistra del re d’Israele (cfr v. 37). Non guardano la realtà! Credono di vedere e non vedono, di sapere e non sanno, di capire meglio degli altri e non capiscono…
La realtà invece è tutt’altra, è quella che Gesù ha presente e che guida i suoi passi. La realtà è la croce, è il peccato del mondo che Lui è venuto a prendere su di sé e sradicare dalla terra degli uomini e delle donne. La realtà sono gli innocenti che soffrono e muoiono per le guerre e il terrorismo; sono le schiavitù che non cessano di negare la dignità anche nell’epoca dei diritti umani; la realtà è quella di campi profughi che a volte assomigliano più a un inferno che a un purgatorio; la realtà è lo scarto sistematico di tutto ciò che non serve più, comprese le persone.
E’ questo che Gesù vede, mentre cammina verso Gerusalemme. Durante la sua vita pubblica Egli ha manifestato la tenerezza del Padre, risanando tutti quelli che erano sotto il potere del maligno (cfr At 10,38). Adesso sa che è venuto il momento di andare a fondo, di strappare la radice del male, e per questo va risolutamente verso la croce.
Anche noi, fratelli e sorelle, siamo in cammino con Gesù su questa strada. In particolare mi rivolgo a voi, carissimi nuovi Cardinali. Gesù “cammina davanti a voi” e vi chiede di seguirlo decisamente sulla sua via. Vi chiama a guardare la realtà, a non lasciarvi distrarre da altri interessi, da altre prospettive. Lui non vi ha chiamati a diventare “principi” nella Chiesa, a “sedere alla sua destra o alla sua sinistra”. Vi chiama a servire come Lui e con Lui. A servire il Padre e i fratelli. Vi chiama ad affrontare con il suo stesso atteggiamento il peccato del mondo e le sue conseguenze nell’umanità di oggi. Seguendo Lui, anche voi camminate davanti al popolo santo di Dio, tenendo fisso lo sguardo alla Croce e alla Risurrezione del Signore.
E allora, per intercessione della Vergine Madre, invochiamo con fede lo Spirito Santo, perché colmi ogni distanza tra i nostri cuori e il cuore di Cristo, e tutta la nostra vita diventi servizio a Dio e ai fratelli.

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Concistoro - 28 giugno 2017. Indirizzo di saluto di Mons. Juan José Omella, Arcivescovo di Barcellona 
Sala stampa della Santa Sede 
Santo Padre,
Arrivando a Roma per la via Cassia Sant’Ignazio di Loyola, San Pietro Fabbro, e il Padre Diego de Laínez per mettersi a disposizione del Santo Padre Paulo III, pregando in una chiesetta isolata, dove il cammino fa una impervia svolta, alla Storta, Ignazio ebbe un lume dall’alto: Ego vobis Romae propitius ero. -Io vi sarò propizio a Roma-. Laínez poi rammentò lo sbalorditivo commento che fece Ignazio cercando di capire quella comunicazione interiore: -Non so che sarà di noi, forse saremmo crocifissi a Roma-. Ignazio il favore divino a prima vista non lo concepiva in chiave di benemerenze, ma piuttosto come il dono supremo del martirio.

La memoria di questo evento ci aiuta a capire la natura profonda di questa chiamata del Signore e della benignità della Vostra Santità a diventare ancor più stretti collaboratori cum Petro et sub Petro della vostra cattolica sollecitudine pastorale per tutta la Chiesa. A differenza dei pregi mondani, nella Chiesa non ci sono altri titoli di quelli che segnano il cammino di un servizio più solerte ed impegnato per l’annuncio del Vangelo e il riscatto nel nome del Signore di tutti, soprattutto dei più bisognosi. L’infuocato colore vermiglio che ora indossiamo non sia per noi vanto, ma strenua memoria del nostro Redentore che ci riscattò al prezzo del suo sangue. Diventerà d’ora in poi un segno vocazionale di un nuovo spoglio dei nostri interessi, per donarci in tutto e per tutti finché per l’amore del popolo di Dio, e per la fedeltà al Buon Pastore Gesù e al Suo Vicario in terra si consumino tutte le nostre risorse.
Siamo convocati dalla Vostra Paternità Universale da chiese geograficamente distanti, bensì fiere dalla loro fedeltà al Vangelo in circostanze non sempre facili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Testimoni della tenuta dell’unica Chiesa di Cristo Gesù che sussiste in comunità provate sia per il logorio della miscredenza, sia per la guerra, per la povertà, o che hanno condiviso il dolore della morte violenta del proprio presule per la difesa del Vangelo dei poveri. Or ora la gioia di questi popoli riecheggia pure nei nostri cuori.
Da parte nostra scaturisce dal profondo del cuore la preghiera paolina: Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, (Ef 1,3-4). Veramente tutto è grazia, e tutto abbiamo ricevuto gratuitamente. Ed è per questo che vogliamo riconsegnare tutto, spendere tutta la nostra vita gratuitamente, fare di essa un’oblazione eucaristica al Padre di ogni misericordia in Cristo nello Spirito.
Questo servizio alla Chiesa e all’umanità che ci chiede la Vostra Santità ci porta a lavorare traboccanti di letizia e di speranza per consegnare al mondo la Nuova Novella di Gesù. Sì, è proprio il tesoro del Vangelo, seppur portato povera e modestamente in vassoi d’argilla (Cfr. 2Cor 4,7), ma nel contempo spronati dalla brama di un fuoco che accende altri fino ai confini della terra, e non si accontenta con trattenerlo ai propri ripari. Caritas Christi urget nos (2Cor 5,14). Non vogliamo essere una Chiesa autoreferenziale; vogliamo essere una Chiesa pellegrina per le strade del mondo alla ricerca di tutti quanti, mescendo nei loro cuori il balsamo della letizia e della pace, asciugando le lacrime di tanti e sollevando la loro speranza avverata definitivamente nella riconciliazione procurataci dal Figlio di Dio.
Santa Maria, Madre di Dio, e Madre della Chiesa, ci spinga, stretti, stretti, al Cuore di Gesù, e ci aiuti a guardare, come un grappolo affiatato e unito al Vostro ministero petrino, Santo Padre, vero cardine della comunione di tutta la Chiesa, con lo stesso sguardo di Gesù rivolto all’umanità bisognosa di consolazione.
Grazie, Santo Padre.

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Allegati:

Kiko Arguello: La sofferenza degli Innocenti a Trieste

Udienza di Papa Francesco ai Delegati della CISL



Udienza di Papa Francesco ai Delegati della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL): "Sindacato è una bella parola che proviene dal greco syn-dike, cioè “giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi"
Sala stampa della Santa Sede
Alle ore 9 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Delegati della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL) in occasione del XVIII Congresso Nazionale sul tema: “Per la persona, per il lavoro” (28 giugno, 1° luglio 2017).
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto in occasione del vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.
Avete scelto un motto molto bello per questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e smarrisce sé stesso. 
Ma se pensiamo la persona senza lavoro, diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro. La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di persone cooperano semplicemente lavorando: educando i nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta avanti il mondo.
Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia, è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini: “Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”. Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra cultura. Perché la persona non è solo lavoro, perché non sempre lavoriamo, e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi che lavorano e non studiano, mentre lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del tempo del lavoro diventino perenni. O quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti, ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti. Quando i giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.
Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo essenziale per il bene comune.
La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando è profezia. Ma nelle nostre società capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è la profezia.
Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha insegnato San Giovanni Paolo II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste, specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice, quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata… Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del sindacato di oggi e di domani. Non c’è una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Vi ringrazio per questo incontro, vi benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso e il vostro lavoro quotidiano. E quando noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta, cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!
E adesso, vi chiedo di pregare per me, perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la benedizione del Signore.
[Benedizione]

L'Udienza generale di Papa Francesco. "I cristiani amano, ma non sempre sono amati...



L'Udienza generale di Papa Francesco. "I cristiani amano, ma non sempre sono amati. Fin da subito Gesù ci mette davanti questa realtà: in una misura più o meno forte, la confessione della fede avviene in un clima di ostilità"

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi riflettiamo sulla speranza cristiana come forza dei martiri. Quando, nel Vangelo, Gesù invia i discepoli in missione, non li illude con miraggi di facile successo; al contrario, li avverte chiaramente che l’annuncio del Regno di Dio comporta sempre una opposizione. E usa anche un’espressione estrema: «Sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Mt 10,22). I cristiani amano, ma non sempre sono amati. Fin da subito Gesù ci mette davanti questa realtà: in una misura più o meno forte, la confessione della fede avviene in un clima di ostilità.
I cristiani sono dunque uomini e donne “controcorrente”. E’ normale: poiché il mondo è segnato dal peccato, che si manifesta in varie forme di egoismo e di ingiustizia, chi segue Cristo cammina in direzione contraria. Non per spirito polemico, ma per fedeltà alla logica del Regno di Dio, che è una logica di speranza, e si traduce nello stile di vita basato sulle indicazioni di Gesù.
La prima indicazione è la povertà. Quando Gesù invia i suoi in missione, sembra che metta più cura nello “spogliarli” che nel “vestirli”! In effetti, un cristiano che non sia umile e povero, distaccato dalle ricchezze e dal potere e soprattutto distaccato da sé, non assomiglia a Gesù. Il cristiano percorre la sua strada in questo mondo con l’essenziale per il cammino, però con il cuore pieno d’amore. La vera sconfitta per lui o per lei è cadere nella tentazione della vendetta e della violenza, rispondendo al male col male. Gesù ci dice: «Io vi mando come pecore in mezzo a lupi» (Mt 10,16). Dunque senza fauci, senza artigli, senza armi. Il cristiano piuttosto dovrà essere prudente, a volte anche scaltro: queste sono virtù accettate dalla logica evangelica. Ma la violenza mai. Per sconfiggere il male, non si possono condividere i metodi del male.
L’unica forza del cristiano è il vangelo. Nei tempi di difficoltà, si deve credere che Gesù sta davanti a noi, e non cessa di accompagnare i suoi discepoli. La persecuzione non è una contraddizione al vangelo, ma ne fa parte: se hanno perseguitato il nostro Maestro, come possiamo sperare che ci venga risparmiata la lotta? Però, nel bel mezzo del turbine, il cristiano non deve perdere la speranza, pensando di essere stato abbandonato. Gesù rassicura i suoi dicendo: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati» (Mt 10,30). Come dire che nessuna delle sofferenze dell’uomo, nemmeno le più minute e nascoste, sono invisibili agli occhi di Dio. Dio vede, e sicuramente protegge; e donerà il suo riscatto. C’è infatti in mezzo a noi Qualcuno che è più forte del male, più forte delle mafie, delle trame oscure, di chi lucra sulla pelle dei disperati, di chi schiaccia gli altri con prepotenza… Qualcuno che ascolta da sempre la voce del sangue di Abele che grida dalla terra.
I cristiani devono dunque farsi trovare sempre sull’“altro versante” del mondo, quello scelto da Dio: non persecutori, ma perseguitati; non arroganti, ma miti; non venditori di fumo, ma sottomessi alla verità; non impostori, ma onesti.
Questa fedeltà allo stile di Gesù – che è uno stile di speranza – fino alla morte, verrà chiamata dai primi cristiani con un nome bellissimo: “martirio”, che significa “testimonianza”. C’erano tante altre possibilità, offerte dal vocabolario: lo si poteva chiamare eroismo, abnegazione, sacrificio di sé. E invece i cristiani della prima ora lo hanno chiamato con un nome che profuma di discepolato. I martiri non vivono per sé, non combattono per affermare le proprie idee, e accettano di dover morire solo per fedeltà al vangelo. Il martirio non è nemmeno l’ideale supremo della vita cristiana, perché al di sopra di esso vi è la carità, cioè l’amore verso Dio e verso il prossimo. Lo dice benissimo l’apostolo Paolo nell’inno alla carità: «Se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Ripugna ai cristiani l’idea che gli attentatori suicidi possano essere chiamati “martiri”, questi non sono martiri: non c’è nulla nella loro fine che possa essere avvicinato all’atteggiamento dei figli di Dio.
A volte, leggendo le storie di tanti martiri di ieri e di oggi, che sono più dei martiri dei primi tempi, rimaniamo stupiti di fronte alla fortezza con cui hanno affrontato la prova. Questa fortezza è segno della grande speranza che li animava: la speranza certa che niente e nessuno li poteva separare dall’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo (cfr Rm 8,38-39).

Che Dio ci doni sempre la forza di essere suoi testimoni. Ci doni di vivere la speranza cristiana soprattutto nel martirio nascosto di fare bene e con amore i nostri doveri di ogni giorno. Grazie!

Mercoledì della XII settimana del Tempo Ordinario

martedì 27 giugno 2017

Kiko Arguello: INCONTRO DI PREGHIERA - Risiera di San Sabba TRIESTE

Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali presenti a Roma. Omelia del Papa



Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali presenti a Roma, in occasione del XXV anniversario di Ordinazione Episcopale del Santo Padre. Omelia di Francesco
Sala stampa della Santa Sede

"Qualcuno che non ci vuole bene dice di noi che siamo la gerontocrazia della Chiesa. E’ una beffa. Non capisce quello che dice. Noi non siamo geronti: siamo dei nonni, siamo dei nonni." 
Alle ore 8 di questa mattina, nella Cappella Paolina del Palazzo Apostolico, il Santo Padre Francesco ha presieduto la Concelebrazione Eucaristica con i Cardinali presenti a Roma, in occasione del XXV anniversario della Sua Ordinazione Episcopale.
Omelia del Santo Padre
Nella prima Lettura abbiamo sentito come continua il dialogo tra Dio e Abramo, quel dialogo che incominciò con quel “Vattene. Vattene dalla tua terra…” (Gen 12,1). E in questa continuazione del dialogo, troviamo tre imperativi: “Alzati!”, “guarda!”, “spera!”. Tre imperativi che segnano la strada che deve percorrere Abramo e anche il modo di fare, l’atteggiamento interiore: alzati, guarda, spera.
“Alzati!”. Alzati, cammina, non stare fermo. Tu hai un compito, tu hai una missione e devi compierla in cammino. Non rimanere seduto: alzati, in piedi. E Abramo cominciò a camminare. In cammino, sempre. E il simbolo di questo è la tenda. Dice il Libro della Genesi che Abramo andava con la tenda, e quando si fermava c’era la tenda. 
Mai Abramo ha fatto una casa per sé, mentre c’era questo imperativo: “Alzati!”. Soltanto, costruì un altare: l’unica cosa. Per adorare Colui che gli ordinava di alzarsi, di essere in cammino, con la tenda. “Alzati!”.
“Guarda!”. Secondo imperativo. «Alza gli occhi e, dal luogo dove stai, spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente» (Gen 13,14). Guarda. Guarda l’orizzonte, non costruire muri. Guarda sempre. E vai avanti. E la mistica [la spiritualità] dell’orizzonte è che quanto più si va avanti, sempre c’è più lontano l’orizzonte. Spingere lo sguardo, spingerlo in avanti, camminando, ma verso l’orizzonte.
Terzo imperativo: “Spera!”. C’è quel dialogo bello: “[Signore,] tu mi hai dato tanto, ma l’erede sarà questo domestico” – “L’erede uscirà da te, sarà nato da te. Spera!” (cfr Gen 15,3-4). E questo, detto a un uomo che non poteva avere eredità, sia per la sua età sia per la sterilità della moglie. Ma sarà “da te”. E la tua eredità – da te – sarà «come la polvere della terra: se uno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti» (Gen 13,16). E un po’ più avanti: “Alza lo sguardo, guarda il cielo: conta la stelle, se riesci. Così sarà la tua discendenza”. E
Abramo credette, e il Signore glielo accreditò come giustizia (cfr Gen 15,5-6). Nella fede di Abramo incomincia quella giustizia che [l’apostolo] Paolo porterà più avanti nella spiegazione della giustificazione.
“Alzati! Guarda! – l’orizzonte, niente muri, l’orizzonte – Spera!”. E la speranza è senza muri, è puro orizzonte.
Ma quando Abramo fu chiamato, aveva più o meno la nostra età: stava per andare in pensione, in pensione per riposarsi… Incominciò a quell’età. Un uomo anziano, con il peso della vecchiaia, quella vecchiaia che porta i dolori, le malattie… Ma tu, come se fossi un giovanotto, alzati, vai, vai! Come se fossi uno scout: vai! Guarda e spera. E questa Parola di Dio è anche per noi, che abbiamo un’età che è come quella di Abramo… più o meno – ci sono alcuni giovani qui, ma la maggioranza di noi è in questa età –; e a noi oggi il Signore dice lo stesso: “Alzati! Guarda! Spera!”. Ci dice che non è l’ora di mettere la nostra vita in chiusura, di non chiudere la nostra storia, di non compendiare la nostra storia. Il Signore ci dice che la nostra storia è aperta, ancora: è aperta fino alla fine, è aperta con una missione. E con questi tre imperativi ci indica la missione: “Alzati! Guarda! Spera!”.
Qualcuno che non ci vuole bene dice di noi che siamo la gerontocrazia della Chiesa. E’ una beffa. Non capisce quello che dice. Noi non siamo geronti: siamo dei nonni, siamo dei nonni. E se non sentiamo questo, dobbiamo chiedere la grazia di sentirlo. Dei nonni ai quali i nostri nipotini guardano. Dei nonni che devono dare loro un senso della vita con la nostra esperienza. Nonni non chiusi nella malinconia della nostra storia, ma aperti per dare questo. E per noi, questo “alzati, guarda, spera”, si chiama “sognare”. Noi siamo dei nonni chiamati a sognare e dare il nostro sogno alla gioventù di oggi: ne ha bisogno. Perché loro prenderanno dai nostri sogni la forza per profetizzare e portare avanti il loro compito.
Mi viene alla mente quel passo del Vangelo di Luca (2,21-38), Simeone e Anna: due nonni, ma quanta capacità di sognare avevano, questi due! E tutto questo sogno lo hanno detto, a San Giuseppe, alla Madonna, alla gente… E Anna andava chiacchierando qua e là e diceva: “E’ lui! E’ lui!”, e diceva il sogno della sua vita. E questo è ciò che oggi il Signore chiede a noi: di essere nonni. Di avere la vitalità di dare ai giovani, perché i giovani lo aspettano da noi; di non chiuderci, di dare il nostro meglio: loro aspettano dalla nostra esperienza, dai nostri sogni positivi per portare avanti la profezia e il lavoro.
Chiedo al Signore per tutti noi che ci dia questa grazia. Anche per quelli che ancora non sono diventati nonni: vediamo il presidente [dei vescovi] del Brasile, è un giovanotto,... ma arriverai! La grazia di essere nonni, la grazia di sognare, e dare questo sogno ai nostri giovani: ne hanno bisogno.
[Alla fine della Messa, prima della benedizione]
Voglio ringraziare tutti voi per le parole che mi ha rivolto il cardinale Sodano, decano, con il nuovo vice-decano che è accanto a lui - tanti auguri! -. Ringraziarvi per questa preghiera comune in questo anniversario, chiedendo il perdono per i miei peccati e la perseveranza nella fede, nella speranza, nella carità. Vi ringrazio tanto per questa compagnia fraterna e chiedo al Signore che vi benedica e vi accompagni nella strada del servizio alla Chiesa. Grazie tante.