mercoledì 21 giugno 2017

I preti ribelli che il papa porta nel cuore



La Stampa
(Enzo Bianchi) Il vescovo di Roma che testifica la fedeltà al vangelo di due preti ai margini, così diversi tra loro e così capaci di parlare al cuore della chiesa: questo il senso del pellegrinaggio di papa Francesco sulle tombe di don Mazzolari e di don Milani. Convinto com’è che «i destini del mondo si maturano in periferia», Francesco ha voluto raccogliersi in preghiera silenziosa davanti alle due tombe di questi preti periferici: lunghi minuti in cui chiunque scrutasse il volto dell’anziano vescovo di Roma non poteva fare a meno di unirsi alla meditazione e al rendimento di grazie.Che poi la chiesa a suo tempo non abbia saputo ascoltare la profezia di questi suoi due figli è motivo di riflessione e di impegno per l’oggi dei cristiani nel mondo. Non a caso papa Francesco, pur di fronte anche a persone avanti negli anni che conobbero il parroco di Bozzolo e il priore di
Barbiana, ha dedicato particolare attenzione ai bambini e ai giovani preti presenti nel paese della bassa mantovana e sulle colline del Mugello, fino a lasciare come saluto finale della giornata un significativo: «Prendete la fiaccola e portatela avanti».
A Bozzolo Francesco si è fatto a più riprese eco schietta delle parole di don Mazzolari, attenendosi con scrupolo al testo scritto - che ha confessato di voler leggere per intero nonostante gli fosse stato consigliato di abbreviarlo - così da citare testualmente frasi da omelie e scritti che quel parroco
sapeva indirizzare a un pubblico vasto ed eterogeneo proprio perché nascevano pensando a degli uditori ben precisi e noti, i suoi parrocchiani. Quell’invito al «buon senso», al «non massacrare le spalle della povera gente» - radicato nella parola di Gesù sui capi religiosi che caricano sugli altri fardelli che loro non spostano - è attualissimo ancora oggi in ogni pastorale che voglia conservare la freschezza del vangelo della misericordia, ma sgorga dalla sollecitudine di don Primo per il duro mestiere di vivere dei suoi parrocchiani, da quell’osservare e conoscere il fiume, le cascine, la
pianura che attraversavano l’esistenza dei contadini durante e dopo la tragedia della guerra. Papa Giovanni aveva definito don Primo «la tromba profetica della Val Padana» e ora papa Francesco ne conferma tutta la profezia di «portaparola» del Signore.
A Barbiana poi, il vescovo di Roma - come lui stesso si è esplicitamente definito - ha insistito sul ministero di educatore svolto da don Milani, per rimarcarne la dimensione pastorale: è come prete che don Lorenzo ha dato il meglio della sua passione educativa, del suo ardente desiderio di
«risvegliare l’umano» in quel piccolo gregge di minimi che gli era stato affidato quasi come condanna e che diventerà negli anni - e ancor più dopo la sua morte - la sua corona di gloria.
«Ridare ai poveri la parola», renderli consapevoli che «senza parola non c’è dignità né libertà né giustizia» non era per don Milani un corollario del suo ministero presbiterale, era l’esplicitazione per volti e persone ben precise della sua vocazione pastorale, il frutto maturo della sua fede genuina,
l’anelito di chi «si prende cura» delle persone a lui affidate. Al suo vescovo don Milani chiese invano solo di riconoscere questa sua fedeltà al vangelo: «Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato». E credo non ci sia nulla di più doloroso per un presbitero che il vedere la propria opera pastorale considerata come un fatto privato. Don Milani non era un prete generato dal concilio, dalla sua preparazione e dalla sua dinamica, bensì un prete ispirato solo dal vangelo, fattosi ultimo con gli ultimi e che ha pagato a caro prezzo le proprie posizioni e parole profetiche. 
C’è stato un lungo silenzio su don Milani fino alla vigilia di questa visita papale, anche perché scarsa è stata la condivisione del suo mondo persino da parte della chiesa cosiddetta conciliare e riformatrice: questa non sempre ha saputo vedere quella passione radicale per Gesù Cristo, gli ultimi e i poveri, che don Milani era riuscito a esprimere con la sua intera esistenza dedicata a loro. Eppure proprio questa radicalità di scelta è la causa della sua santità di prete.
Papa Francesco ha compiuto una doppia visita «privata» che più pubblica ed ecclesiale non poteva essere: non per la dimensione ostentata di onori e folle, ma per il «gridare dai tetti» quel vangelo vissuto come seme nascosto nel terreno, quel far conoscere il respiro dilatato e il cuore largo di due
preti che, ciascuno con i propri carismi, hanno saputo rendere conto del loro essere «innamorati di Gesù e del suo desiderio che tutti abbiano la salvezza». Questo, ha ricordato papa Francesco, è «servire il Vangelo, i poveri e la chiesa stessa».

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Sul prete di Barbiana. Don Milani, Concilio, Bibbia e comunità. Sergio Tanzarella risponde ad Enzo Bianchi
“Adista” - Segni nuovi –  n. 23 del 24 giugno 2017
Pubblichiamo l’intervento, tenuto il 19 maggio al Salone del Libro di Torino, dal teologo ed ex priore di Bose Enzo Bianchi in occasione della presentazione dell’Opera omnia di Lorenzo Milani (Tutte le opere, Mondadori, 2017), intitolata “Le strade di don Milani”. Sul contenuto di questo intervento è in disaccordo uno dei curatori dell’Opera omnia, lo storico della Chiesa Sergio Tanzarella, docente presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, del quale riportiamo a seguire una replica a Enzo Bianchi.
Concilio bibbia e comunità di Enzo Bianchi
«Forse non dovrei parlare non avendo ascoltato gli altri. Però, brevemente, vorrei dire due cose che mi stanno a cuore. La prima è che don Lorenzo - di cui abbiamo finalmente i Meridiani, che ci testimoniano, al di là dei testi già pubblicati, anche la sua vita più personale attraverso le lettere e tutto ciò che lui esprimeva con le persone con cui era in relazione - appare certamente un grande cristiano, un cristiano per il quale davvero Gesù Cristo ha un valore decisivo, fondamentale; la sua vita è legata a Gesù Cristo, e i riferimenti sono essenzialmente a Gesù Cristo, quel Gesù Cristo che ha ricevuto dalla Chiesa dei suoi tempi. Questa è la sua forza e dirò perché è anche il suo limite.
Seconda cosa: è un prete, e certamente leggere tutte le sue lettere ci dà la testimonianza di che cosa era la maggior parte dei preti nei tempi del preconcilio e come, quando ci si trovava di fronte a un prete intelligente, l’atteggiamento della gerarchia fosse quello che si è mostrato con don Milani; ma vorrei far capire che in tutte le diocesi, anche le più piccole, in quegli anni ci son stati preti come don Milani, confinati in piccoli paesi di 70 abitanti a fare il parroco, anche nella mia piccola diocesi di Acqui, ma per quelli che erano un po’ attenti, più vivaci e intellettualmente più espressivi, il luogo era davvero una messa in disparte e una forma di persecuzione senza che ci fossero delle censure manifeste. Ecco, don Milani si dimostra un prete con una fedeltà al ministero, alla figura del prete come l’aveva ricevuta e come l’aveva assunta quando aveva deciso di entrare in seminario, certamente straordinaria. Detto questo, vorrei dire perché anche don Milani non è stato molto accolto in questi decenni passati dopo la sua morte, e non da chi, come la gerarchia, sentiva una voce che era stata profetica e difficilmente, oserei dire, rieditabile. Ho sentito più volte anche cardinali di Firenze dire “Cautela, cautela”, senza per altro muovere più delle censure. Perché un uomo come Milani appariva molto lontano a Dossetti, appariva molto lontano al cardinal Martini, per dire di persone estremamente attente, e anche a me, che salii da lui nel ‘66 a trovarlo, dico la verità, non fece questa grande impressione. Mi fece molta più impressione un Balducci e lo stesso Rosadoni che in quel momento conobbi dell’ambiente fiorentino. Perché? Perché la grandezza di don Milani, come è stata, non era, come posso dire, accoglibile in quel mondo spirituale cattolico che veniva fuori dal Concilio in poi. Per don Milani, leggete, il Concilio è una cosa estranea, è una dimensione che non lo tocca. E se penso che ero più giovane di lui di un po’ di anni, e a come invece mi aveva toccato e aveva mutato completamente la mia vita, lui certamente non è uno che è toccato dal Concilio. Non è toccato nemmeno dalla parola di Dio; per lui la parola è soprattutto lo strumento umano con cui uno trova la libertà, la soggettività, attua quella che nel ’68 sarà chiamata la prise de parole e lui voleva dare questa parola ai poveri e ai semplici. Ma certo non c’è in lui una teologia della Parola di Dio: anche quando qualche volta la scrive con la maiuscola, non c’è dentro una concezione della Parola di Dio. E nelle mie conversazioni, ad esempio, con Dossetti, erano questi i limiti che sentivamo.
Un’altra cosa che totalmente mancava era la comunità cristiana. Per lui c’erano questi poveri ragazzi, neanche la povertà sociologica che negli anni ‘60 significava il mondo operaio. C’era la povertà più esistenziale verso la quale lui con grande carità cristiana si piegava, se ne prendeva cura e attraverso la sua forma didattica cercava di dare davvero libertà, di dare speranza e così mostrava il suo amore. Ecco, queste cose fecero sì che anche uomini del postconcilio, aperti, abbiano sentito in don Milani soprattutto - chi lo leggeva, attenzione, questo lo dico per me - il grande cristiano e il grande prete; certamente il significato che lui ha avuto per me con la lettera ai cappellani militari in un momento in cui alcuni nella Chiesa cattolica la pagammo gravemente per aver alzato la voce a favore di un’obiezione di coscienza, ma ben prima che ci si avventurasse in quello che poi è stato il cammino. Certamente don Milani è questo testimone cristiano e di prete, e credo che questa opera sia essenziale per capirlo. Con ciò credo che sia bene vedere anche i suoi limiti rispetto al Concilio, alla Parola di Dio, alla comunità cristiana, realtà che non sono presenti nella sua opera, neanche in Esperienze pastorali dove il problema è quello della comunicazione ma non di una comunità che diventa soggetto.
Questi sono limiti che non tolgono nulla, oserei dire, alla sua grandezza sia umana, sia di prete, sia di cristiano. Della sua santità non mi importa molto, è stato un grande prete e un grande cristiano.
La sua santità la giudicherà Dio e non sta certo alle nostre alchimie».

Enzo Bianchi
Le strade di don Milani non sono quelle di Enzo Bianchi di Sergio Tanzarella
Egregio Enzo Bianchi,
sono uno dei quattro curatori dell’opera omnia di don Milani. Se lei il giorno della presentazione a Torino avesse potuto ascoltare gli altri relatori forse ci avrebbe risparmiato di sentire tante sue affermazioni sbagliate e scorrette in pochi minuti. Se poi avesse anche letto qualcuna delle pagine del libro che era invitato a presentare avrebbe fatto un discorso meno assertivo e le sarebbe riuscito di cominciare ad intendere un prete al quale lei fece visita 50 anni fa senza riceverne, come dice, «una grande impressione». Infatti, mi chiedo cosa era andato a fare a Barbiana e cosa pensava di vedere di tanto impressionante e utile per lei? Ma ciò che è più grave è che a distanza di mezzo secolo lei non ha capito ancora nulla di Milani. Lo dimostrano tre affermazioni del suo discorso torinese nel quale chiama in causa due morti che non possono smentirla: Dossetti e Martini. Del primo non possediamo alcun riferimento dedicato a Milani e il secondo scrisse su Milani un articolo che non è certo tra i suoi migliori. Martini fu un grande studioso e un grande pastore, ma certo gli mancavano alcune categorie per intendere Milani. In ogni caso le riflessioni di Martini, presentate da lui con «timore e tremore» nel 1983, sono oggi datate e non giustificano le affermazioni fatte da lei a Torino oltre trent’anni dopo, travisando lo stesso Martini. Dietro una cornice di belli e generici 
complimenti che lei fa a Milani gli muove poi delle accuse, senza prove, che nemmeno i peggiori detrattori gli hanno mai fatto. Accuse che semmai fossero vere distruggerebbero alla radice la testimonianza della vita di Milani. Ma esse sono false e se lei avesse frequentato appena i suoi scritti, quelli che avrebbe dovuto presentare a Torino, lo saprebbe da sé. Lei dice che Milani non è toccato dalla parola di Dio? Questa è una prima grave falsità che lei sostiene, ma poggiata su cosa? 
Forse sulle poche citazioni che lui fa della Sacra Scrittura? Certo lei le valuta a peso! Esse invece ci sono (e in filigrana attraversano tutta la vita di Milani) e sono decisive e nella loro esiguità rispondono ad una scelta precisa. Legga per esempio quanto scrive nel 1959: «Quelli che si danno pensiero di immettere nei loro discorsi a ogni piè sospinto le verità della fede sono anime che reggono la Fede disperatamente attaccata alla mente con la volontà e la reggono con le unghie e coi denti per paura di perderla perché sono interiormente rosi dal terrore che non sia poi proprio tutto vero ciò che insegnano.[...]. Gente sempre col puntello in mano accanto al palazzo che sono incaricati di custodire e della cui solidità dubitano» (10 novembre 1959). Al contrario di ciò che lei afferma, l’epistolario milaniano mostra il suo interesse per l’esegesi biblica fin dagli anni del seminario e la richiesta di commentari e di sinossi che cercava di procurarsi. E poi c’è l’impostazione storico biblica data al suo Catechismo e le sue omelie fondate su uno studio profondo delle parole delle letture bibliche del giorno.
La seconda falsità è che per Milani il Concilio era una cosa estranea che non lo toccava. Infatti Milani ha anticipato il Concilio. Tuttavia anche qui le citazioni non mancano, pur nell’isolamento di Barbiana, a smentire questa sua affermazione. Veda la citazione dello schema XIII che egli fa nella Lettera ai giudici, veda la lettera a Florit dell’1 ottobre del 1964: «Il Papa ha chiamato i Vescovi a dialogo, perché il Vescovo chiamasse a dialogo i parroci, il parroco i parrocchiani lontani e vicini. Se manca un solo anello di questa catena il messaggio di Giovanni XXIII e il Concilio non raggiungono il loro scopo. A Firenze un anello manca certamente: il dialogo tra il Vescovo e i parroci e questo proprio nel momento in cui maturava l’esigenza del dialogo coi lontani: comunisti, ebrei, protestanti. Abbiamo da parlare con tutti e non parliamo al Vescovo e il Vescovo non parla a noi! Il 90% dei Vescovi e due Papi hanno scelto la via dell’apertura e del dialogo».
Infine la terza falsità è sostenere che in Milani mancasse la comunità ecclesiale. E le parrocchie di san Donato a Calenzano e di Sant’Andrea di Barbiana cosa erano? Quella che lei chiama - con termine generico, anonimo e asettico - la comunità ecclesiale, per Milani erano la Chiesa nella sua concretezza di volti, di vite, di nomi. Poche decine di persone da amare realmente contro quell’amore universale bello e innocuo che fonda ancora tante spiritualità comode e appagate, perché volendo amare tutti si finisce per non amare nessuno se non se stessi e la propria immagine. 
E che dire poi di quel suo riduzionismo sul confino di Milani a Barbiana comune ad altri preti di altre diocesi che conobbero la medesima sorte? Per il vero non furono tanti, ma certo ancora meno realizzarono esperienze come quelle di Barbiana. Lei è un personaggio pubblico, scrive e parla in centinaia di luoghi, ascoltato e venerato in diocesi, comunità religiose, associazioni, centri culturali e lei ha una grave responsabilità nei confronti di tanti che si fidano del suo giudizio. La sua esperienza è diametralmente opposta a quella del povero prete di Barbiana e al suo piccolo mondo di montanari. Lei Milani non lo intende ed è certo legittimo dissentire da lui, ma potrebbe almeno parlarne ponderando le parole e accompagnando le sue affermazioni con prove e con fonti?
Egregio Bianchi, cerco di comprenderla: il pomeriggio del suo insinuante discorso su Milani lei aveva ben altri due interventi da fare al Salone nel giro di tre ore sui più disparati argomenti. Una moderazione alla sua fitta agenda eviterebbe scivoloni. Studi di più e parli solo su ciò che conosce e faccia una cosa alla volta. E forse le riuscirà di capire davvero Milani e la sua strada che lei invano percorse andando a Barbiana. Una strada sempre in salita che non porta né al successo, né al denaro, né al potere mediatico, editoriale o gerarchico che sia.
Sergio Tanzarella