giovedì 7 settembre 2017

Incontro con il Comitato Direttivo del CELAM. Discorso del Papa



Viaggio Apostolico del Santo Padre Francesco in Colombia (6-11 settembre 2017) – Incontro con il Comitato Direttivo del CELAM presso la Nunziatura Apostolica di Bogotá 
Sala stampa della Santa Sede

[Text: Italiano, Français, English, Español, Português]  
Presso la Nunziatura Apostolica di Bogotá, il Santo Padre Francesco incontra i membri del Comitato Direttivo del CELAM (Consiglio Episcopale Latinoamericano che raggruppa i Vescovi delle 22 Conferenze Episcopali dell’America Latina e dei Caraibi). Sono presenti 62 membri del Comitato: 5 membri della Presidenza, 35 Vescovi delle Commissioni e 22 Segretari Generali delle Conferenze Episcopali. Introdotto dall’indirizzo di saluto del Presidente del CELAM, Card. Rubén Salazar Gómez, il Papa pronuncia il discorso che riportiamo di seguito.
"Non si può, pertanto, ridurre il Vangelo a un programma al servizio di uno gnosticismo di moda, a un progetto di ascesa sociale o a una visione della Chiesa come burocrazia che si autopromuove, né tantomeno questa si può ridurre a un’organizzazione diretta, con moderni criteri aziendali, da una casta clericale".

ITALIANO 
Cari fratelli, grazie per questo incontro e per le calorose parole di benvenuto del Presidente della Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano. Avrei voluto incontrarvi nella sede del CELAM, ma non ho potuto per le esigenze del programma.
Vi ringrazio per la cortesia di essere qui in questo momento. Ringrazio per lo sforzo che fate per trasformare questa Conferenza Episcopale continentale in una casa di servizio della comunione e della missione della Chiesa in America Latina; in un centro propulsore della coscienza di discepoli e missionari; in un punto di riferimento vitale per la comprensione e l’approfondimento della “cattolicità latinoamericana”, delineata gradualmente da questo organismo di comunione durante decenni di servizio. E l’occasione mi è propizia per incoraggiare i recenti sforzi per poter esprimere tale sollecitudine collegiale mediante il “Fondo di Solidarietà della Chiesa Latinoamericana”. Quattro anni fa, a Rio de Janeiro, ho avuto l’opportunità di parlarvi dell’eredità pastorale di Aparecida, ultimo evento sinodale della Chiesa Latinoamericana e dei Caraibi. In quella circostanza sottolineavo la permanente necessità di imparare dal suo metodo, basato essenzialmente sulla partecipazione delle Chiese locali e in sintonia con i pellegrini che camminano in cerca del volto umile di Dio che volle manifestarsi nella “Vergine pescata nelle acque”, e che si prolunga nella missione continentale, la quale vuol essere non la somma di iniziative programmatiche che riempiono le agende e disperdono anche energie preziose, bensì lo sforzo per porre la missione di Gesù nel cuore della Chiesa stessa, trasformandola in criterio per misurare l’efficacia delle strutture, i risultati del lavoro, la fecondità dei ministri e la gioia che essi sono capaci di suscitare. Perché senza gioia non si attira nessuno. Mi soffermai allora sulle tentazioni, ancora presenti, della ideologizzazione del messaggio evangelico, del funzionalismo ecclesiale e del clericalismo, perché c’è sempre in gioco la salvezza che Cristo ci porta. Questa deve arrivare al cuore dell’uomo con la forza di interpellare la sua libertà, invitandolo a un esodo permanente dalla propria autoreferenzialità verso la comunione con Dio e con i fratelli. Dio, quando parla all’uomo in Gesù, non lo fa con un generico richiamo come a un estraneo, né con una convocazione impersonale alla maniera di un notaio, né con una dichiarazione di precetti da eseguire come fa qualsiasi funzionario del sacro. Dio parla con la voce inconfondibile del Padre che si rivolge al figlio, e rispetta il suo mistero perché lo ha formato con le sue stesse mani e lo ha destinato alla pienezza. La nostra più grande sfida come Chiesa è parlare all’uomo come portavoce di questa intimità di Dio, che lo considera un figlio, anche quando rinnega tale paternità, perché per Lui siamo sempre figli ritrovati. Non si può, pertanto, ridurre il Vangelo a un programma al servizio di uno gnosticismo di moda, a un progetto di ascesa sociale o a una visione della Chiesa come burocrazia che si autopromuove, né tantomeno questa si può ridurre a un’organizzazione diretta, con moderni criteri aziendali, da una casta clericale. La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù; la Chiesa è Mistero e Popolo (Lumen gentium, 5; 9), o meglio ancora: in essa si realizza il Mistero attraverso il Popolo di Dio. Perciò ho insistito sul discepolato missionario come una chiamata divina per questo oggi complesso e carico di tensioni, un “permanente uscire” con Gesù per conoscere come e dove vive il Maestro. E mentre usciamo in sua compagnia conosciamo la volontà del Padre, che sempre ci attende. Solo una Chiesa Sposa, Madre, Serva, che ha rinunciato alla pretesa di controllare quello che non è opera sua ma di Dio, può rimanere con Gesù anche quando il suo nido e il suo rifugio è la croce. Vicinanza e incontro cono gli strumenti di Dio che, in Cristo, si avvicinato e ci incontrato sempre. Il mistero della Chiesa è realizzarsi come sacramento di questa divina vicinanza e luogo permanente di questo incontro. Da qui la necessità della vicinanza del Vescovo a Dio, perché in Lui si trova la fonte della libertà e della forza del cuore del Pastore e della vicinanza al Popolo Santo che gli è stato affidato. In questa vicinanza l’anima dell’apostolo impara a rendere tangibile la passione di Dio per i suoi figli. Aparecida è un tesoro la cui scoperta è ancora incompleta. Sono sicuro che ognuno di voi scopre quanto si è radicata la sua ricchezza nelle Chiese che portate nel cuore. Come i primi discepoli mandati da Gesù nel suo progetto missionario, anche noi possiamo raccontare con entusiasmo “tutto quanto abbiamo fatto” (cfr Mc 6,30). Tuttavia, è necessario stare attenti. Le realtà indispensabili della vita umana e della Chiesa non sono mai un monumento ma un patrimonio vivo. Risulta molto più comodo trasformarle in ricordi di cui si celebrano gli anniversari – 50 anni di Medellín!, 20 di Ecclesia in America!, 10 di Aparecida! Invece è un’altra cosa: custodire e fare scorrere la ricchezza di tale patrimonio (patermunus) costituiscono il munus della nostra paternità episcopale verso la Chiesa del nostro Continente Sapete bene che la rinnovata consapevolezza che all’inizio di tutto c’è sempre l’incontro con Cristo vivo richiede che i discepoli coltivino la familiarità con Lui; diversamente il volto del Signore si offusca, la missione perde forza, la conversione pastorale retrocede. Pregare e coltivare il rapporto con Lui è, pertanto, l’attività più improrogabile della nostra missione pastorale. Ai suoi discepoli entusiasti della missione compiuta, Gesù disse: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto» (Mc 6,31). Noi abbiamo ancora più bisogno di questo “stare soli con il Signore” per ritrovare il cuore della missione della Chiesa in America Latina nelle attuali circostanze. C’è tanta dispersione interiore e anche esteriore! I numerosi eventi, la frammentazione della realtà, l’istantaneità e la velocità del presente, potrebbero farci cadere nella dispersione e nel vuoto. Ritrovare l’unità è un imperativo. Dove si trova l’unità? Sempre in Gesù. Ciò che rende permanente la missione non è l’entusiasmo che infiamma il cuore generoso del missionario, benché sempre necessario; piuttosto è la compagnia di Gesù mediante il suo Spirito. Se non partiamo con Lui in missione, ben presto perderemo la strada, rischiando di confondere le nostre vane necessità con la sua causa. Se la ragione del nostro andare non è Lui, sarà facile scoraggiarsi in mezzo alla fatica del cammino, o di fronte alla resistenza dei destinatari della missione, o davanti ai mutevoli scenari delle circostanze che segnano la storia, o per la stanchezza dei piedi dovuta all’insidioso logorio provocato dal “nemico”. Non fa parte della missione cedere allo scoraggiamento, quando forse, passato l’entusiasmo degli inizi, arriva il momento in cui toccare la carne di Cristo diventa molto duro. In una situazione come questa, Gesù non fomenta le nostre paure. E poiché sappiamo bene che da nessun altro possiamo andare perché solo Lui ha «parole di vita eterna» (Gv 6,68), è necessario di conseguenza approfondire la nostra chiamata. Che cosa significa concretamente andare con Gesù in missione oggi in America Latina? L’avverbio “concretamente” non è un dettaglio stilistico, ma appartiene al nucleo della domanda. Il Vangelo è sempre concreto, mai un esercizio di sterili speculazioni. Conosciamo bene la ricorrente tentazione di perdersi nel bizantinismo dei “dottori della legge”, di domandarsi fino a che punto si può arrivare senza perdere il controllo del proprio territorio delimitato o del presunto potere che i limiti garantiscono. Molto si è detto circa “la Chiesa in stato permanente di missione”. Uscire, partire con Gesù è la condizione di questa realtà. Il Vangelo parla di Gesù che, uscito dal Padre, percorre con i suoi i campi e i villaggi di Galilea. Non si tratta di un percorso inutile del Signore. Mentre cammina, incontra; quando incontra, si avvicina; quando si avvicina, parla; quando parla, tocca col suo potere; quando tocca, cura e salva. Condurre al Padre coloro che incontra è la meta del suo permanente uscire, sul quale dobbiamo riflettere continuamente. La Chiesa deve riappropriarsi dei verbi che il Verbo di Dio coniuga nella sua missione divina. Uscire per incontrare, senza passare oltre; chinarsi senza noncuranza; toccare senza paura. Si tratta di mettersi giorno per giorno nel lavoro sul campo, lì dove vive il Popolo di Dio che vi è stato affidato. Non ci è lecito lasciarci paralizzare dall’aria condizionata degli uffici, dalle statistiche e dalle strategie astratte. Bisogna rivolgersi alla persona nella sua situazione concreta; da essa non possiamo distogliere lo sguardo. La missione si realizza in un corpo a corpo. Una Chiesa capace di essere sacramento di unità Si vede tanta dispersione intorno a noi! E non mi riferisco solamente a quella della ricca diversità che ha sempre caratterizzato il continente, ma alle dinamiche di disgregazione. Bisogna stare attenti a non farsi prendere da queste trappole. La Chiesa non sta in America Latina come se avesse le valige in mano, pronta a partire dopo averla saccheggiata, come hanno fatto tanti nel corso del tempo. Quanti operano così guardano con senso di superiorità e disprezzo il suo volto meticcio; pretendono di colonizzare la sua anima con le stesse formule, fallite e riciclate, sulla visione dell’uomo e della vita; ripetono uguali ricette uccidendo il paziente mentre arricchiscono i medici che li mandano; ignorano le ragioni profonde che abitano nel cuore del popolo e che lo rendono forte proprio nei suoi sogni, nei suoi miti, malgrado i numerosi disincanti e fallimenti; manipolano politicamente e tradiscono le loro speranza, lasciando dietro di sé terra bruciata e il terreno pronto per l’eterno ritorno dello stesso, anche quando si ripresenti con un vestito nuovo. Uomini e utopie forti hanno promesso soluzioni magiche, risposte istantanee, effetti immediati. La Chiesa, senza pretese umane, rispettosa del multiforme volto del continente, che considera non uno svantaggio ma una perenne ricchezza, deve continuare a prestare l’umile servizio al vero bene dell’uomo latinoamericano. Deve lavorare senza stancarsi per costruire ponti, abbattere muri, integrare la diversità, promuovere la cultura dell’incontro e del dialogo, educare al perdono e alla riconciliazione, al senso di giustizia, al ripudio della violenza e al coraggio della pace. Nessuna costruzione duratura in America Latina può prescindere da questo fondamento invisibile ma essenziale. La Chiesa conosce come pochi quell’unità sapienziale che precede qualunque realtà in America Latina. Convive quotidianamente con quel patrimonio morale su cui poggia l’edificio esistenziale del continente. Sono sicuro che, mentre sto parlando di questo voi, potreste dare un nome a questa realtà. Con essa dobbiamo continuamente dialogare. Non possiamo perdere il contatto con questo substrato morale, con questo humus vitale che abita nel cuore della nostra gente e in cui si percepisce la mescolanza quasi indistinta, ma al tempo stesso eloquente, del suo volto meticcio: non unicamente indigeno, né ispanico, né lusitano, né afroamericano, ma meticcio, latinoamericano! Guadalupe e Aparecida sono manifestazioni programmatiche di questa creatività divina. Sappiamo bene che ciò fa parte del fondamento su cui poggia la religiosità popolare del nostro popolo; fa parte della sua singolarità antropologica; è un dono con cui Dio ha voluto farsi conoscere alla nostra gente. Le pagine più luminose della storia della nostra Chiesa sono state scritte proprio quando abbiamo saputo nutrirci di questa ricchezza, parlare a questo cuore nascosto che palpita custodendo, come una piccola luce accesa sotto apparenti ceneri, il senso di Dio e della sua trascendenza, la sacralità della vita, il rispetto per il creato, i legami di solidarietà, la gioia di vivere, la capacità di essere felici senza condizioni. Per parlare a questa anima che è profonda, per parlare all’America Latina profonda, la Chiesa deve imparare continuamente da Gesù. Dice il Vangelo che parlava solo in parabole (cfr Mc 4,34). Immagini che coinvolgono e rendono partecipi, che trasformano quanti ascoltano la sua Parola in personaggi dei suoi racconti divini. Il santo Popolo fedele di Dio in America Latina non comprende altro linguaggio su di Lui. Siamo invitati ad andare in missione non con freddi concetti che si accontentano del possibile, ma con immagini che continuamente moltiplicano e dispiegano le loro forze nel cuore dell’uomo, trasformandolo in grano seminato nella terra buona, in lievito che aumenta la sua capacità di trarre il pane dalla massa, in seme che nasconde la potenzialità della pianta feconda. Una Chiesa capace di essere sacramento di speranza Molti si lamentano di un certo deficit di speranza nell’America Latina di oggi. A noi non è permessa la “ombrosità lamentosa”, perché la speranza che abbiamo viene dall’alto. Inoltre, sappiamo bene che il cuore latinoamericano è stato addestrato alla speranza. Come diceva un cantautore brasiliano: «La speranza è equilibrista; danza sull’instabile corda con il suo ombrello» (João Bosco, L’ubriaco e la equilibrista). Quando si pensa che sia esaurita, eccola qui nuovamente dove meno la si aspettava. Il nostro popolo ha imparato che nessuna delusione è in grado di piegarlo. Segue Cristo flagellato e mite, sa aspettare che il cielo si rischiari e sta saldo nella speranza della sua vittoria, perché – in fondo – è consapevole di non appartenere totalmente a questo mondo. E’ fuor di dubbio che la Chiesa in queste terre sia in modo particolare un sacramento di speranza, ma è necessario vigilare sulla concretizzazione di questa speranza. Tanto più trascendente quanto più deve trasformare il volto immanente di quelli che la possiedono. Vi prego di vigilare sulla concretizzazione della speranza, e permettetemi di ricordarvi alcuni dei suoi volti già visibili in questa Chiesa latinoamericana. La speranza in America Latina ha un volto giovane Si parla spesso dei giovani – si declamano statistiche sul continente del futuro –; alcuni riportano notizie sulla loro presunta decadenza e su quanto siano assopiti, altri approfittano del loro potenziale come consumatori, non pochi propongono loro il ruolo di manovalanza dello spaccio e della violenza. Non lasciatevi catturare da simili caricature sui giovani. Guardateli negli occhi e cercate in loro il coraggio della speranza. Non è vero che sono pronti a ripetere il passato. Aprite loro spazi concreti nelle Chiese particolari a voi affidate, investite tempo e risorse nella loro formazione. Proponete programmi educativi incisivi e obiettivi da realizzare, chiedendo loro, come i genitori chiedono ai figli, di mettere in atto le loro potenzialità ed educando il loro cuore alla gioia della profondità, non della superficialità. Non accontentatevi della retorica o di scelte scritte nei piani pastorali e mai messe in pratica. Ho pensato proprio a Panamá, l’istmo di questo continente, per la giornata Mondiale della Gioventù 2019, che sarà celebrata seguendo l’esempio della Vergine che proclama: «Ecco la serva» e «avvenga per me» (Lc 1,38). Sono sicuro che in ogni giovane si nasconde un “istmo”, nel cuore di tutti i nostri ragazzi c’è un pezzo di terreno stretto e allungato che si può percorrere per condurli verso un futuro che solo Dio conosce e a Lui appartiene. Tocca a noi presentare loro grandi proposte per suscitare in essi il coraggio di rischiare insieme c Dio e di rendersi, come la Vergine, disponibili. La speranza in America Latina ha un volto femminile Non è necessario che mi dilunghi per parlare del ruolo della donna nel nostro continente e nella nostra Chiesa. Dalle sue labbra abbiamo imparato la fede; quasi con il latte del suo seno abbiamo acquisito i tratti della nostra anima meticcia e l’immunità di fronte ad ogni disperazione. Penso alle madri indigene o “morenas”, penso alle donne delle città con il loro triplo turno di lavoro, penso alle nonne catechiste, penso alle consacrate e alle così discrete “artigiane” del bene. Senza le donne la Chiesa del continente perderebbe la forza di rinascere continuamente. Sono le donne che, con meticolosa pazienza, accendono e riaccendono la fiamma della fede. È un serio dovere comprendere, rispettare, valorizzare, promuovere la forza ecclesiale e sociale di quanto realizzano. Hanno accompagnato Gesù missionario; non si sono allontanate dai piedi della croce; in solitudine hanno aspettato che la notte della morte restituisse il Signore della vita; hanno inondato il mondo con la sua presenza risuscitata. Se vogliamo una fase nuova e vitale della fede in questo continente, non la otterremo senza le donne. Per favore, non possono essere ridotte a serve del nostro recalcitrante clericalismo; esse sono, invece, protagoniste nella Chiesa latinoamericana: nel loro uscire con Gesù; nel loro perseverare, anche nelle sofferenze del suo Popolo; nel loro aggrapparsi alla speranza che vince la morte; nel loro gioioso modo di annunciare al mondo che Cristo è vivo, è risorto. La speranza in America Latina passa attraverso il cuore, la mente e le braccia dei laici Vorrei ribadire quanto recentemente ho detto alla Pontificia Commissione per l’America Latina. È indispensabile superare il clericalismo che rende infantili i Christifideles laici e impoverisce l’identità dei ministri ordinati. Anche se si è compiuto un notevole sforzo e alcuni passi sono stati fatti, le grandi sfide del continente rimangono sul tavolo e continuano ad attendere l’attuazione serena, responsabile, competente, lungimirante, articolata, consapevole, di un laicato cristiano che, in quanto credente, sia disposto a contribuire: nei processi di un autentico sviluppo umano, nel consolidamento della democrazia politica e sociale, nel superamento strutturale della povertà endemica, nella costruzione di una prosperità inclusiva fondata su riforme durature e capaci di tutelare il bene sociale, nel superare le disuguaglianze e salvaguardare la stabilità, nel delineare modelli di sviluppo economico sostenibili che rispettino la natura e il vero futuro dell’uomo – che non si esaurisce nel consumismo illimitato –, come pure nel rifiuto della violenza e nella difesa della pace. Di più: in questo senso la speranza deve sempre vedere il mondo con gli occhi dei poveri e a partire dalla situazione dei poveri. Essa è povera come il chicco di grano che muore (cfr Gv 12,24), ma che ha la forza di spargere i piani di Dio. La ricchezza autosufficiente spesso priva la mente umana della capacità di vedere, sia la realtà del deserto sia le oasi che vi sono nascoste. Propone risposte da manuale e ripete certezze da talkshow; balbetta la proiezione di sé stessa, vuota, senza avvicinarsi minimamente alla realtà. Sono sicuro che in questo difficile e confuso, ma provvisorio momento che viviamo, le soluzioni dei problemi complessi che ci sfidano nascono dalla semplicità cristiana che si nasconde ai potenti e si mostra agli umili: la purezza della fede nel Risorto, il calore della comunione con Lui, la fraternità, la generosità e la solidarietà concreta che pure sgorgano dall’amicizia con Lui. E tutto questo lo vorrei riassumere in una espressione che vi lascio come sintesi e ricordo di questo incontro. Se vogliamo servire, come CELAM, la nostra America Latina, dobbiamo farlo con passione. Oggi c’è bisogno di passione. Mettere il cuore in tutto quello che facciamo. Passione del giovane innamorato e dell’anziano saggio, passione che trasforma le idee in utopie praticabili, passione nel lavoro delle nostre mani, passione che ci trasforma in incessanti pellegrini nelle nostre Chiese come – permettetemi di ricordarlo – san Toribio di Mogrovejo, che non si installò nella sua sede: di 24 anni di episcopato, 18 li passò nei paesi della sua diocesi. Fratelli, per favore, vi chiedo passione, passione evangelizzatrice. Affido voi, fratelli Vescovi del CELAM, le Chiese locali che rappresentate e l’intero popolo dell’America Latina e dei Caraibi, alla protezione della Vergine, invocata con i nomi di Guadalupe e Aparecida, con la serena certezza che Dio, che ha parlato a questo continente con il volto meticcio e moreno di sua Madre, non mancherà di far risplendere la sua luce benigna nella vita di tutti.
  
SPAGNOLO 
Queridos hermanos, gracias por este encuentro y por las cálidas palabras de bienvenida del Presidente de la Conferencia del Episcopado Latinoamericano. De no haber sido por las exigencias de la agenda, hubiera querido encontrarlos en la sede del CELAM. Les agradezco la delicadeza de estar aquí en este momento. Agradezco el esfuerzo que hacen para transformar esta Conferencia Episcopal continental en una casa al servicio de la comunión y de la misión de la Iglesia en América Latina; en un centro propulsor de la conciencia discipular y misionera; en una referencia vital para la comprensión y la profundización de la catolicidad latinoamericana, delineada gradualmente por este organismo de comunión durante décadas de servicio. Y hago propicia la ocasión para animar los recientes esfuerzos con el fin de expresar esta solicitud colegial mediante el Fondo de Solidaridad de la Iglesia Latinoamericana. Hace cuatro años, en Río de Janeiro, tuve ocasión de hablarles sobre la herencia pastoral de Aparecida, último acontecimiento sinodal de la Iglesia Latinoamericana y del Caribe. En aquel momento subrayaba la permanente necesidad de aprender de su método, sustancialmente compuesto por la participación de las Iglesias locales y en sintonía con los peregrinos que caminan en busca del rostro humilde de Dios que quiso manifestarse en la Virgen pescada en las aguas, y que se prolonga en la misión continental que quiere ser, no la suma de iniciativas programáticas que llenan agendas y también desperdician energías preciosas, sino el esfuerzo para poner la misión de Jesús en el corazón de la misma Iglesia, transformándola en criterio para medir la eficacia de las estructuras, los resultados de su trabajo, la fecundidad de sus ministros y la alegría que ellos son capaces de suscitar. Porque sin alegría no se atrae a nadie. Me detuve entonces en las tentaciones, todavía presentes, de la ideologización del mensaje evangélico, del funcionalismo eclesial y del clericalismo, porque está siempre en juego la salvación que nos trae Cristo. Esta debe llegar con fuerza al corazón del hombre para interpelar su libertad, invitándolo a un éxodo permanente desde la propia autorreferencialidad hacia la comunión con Dios y con los demás hermanos. Dios, al hablar en Jesús al hombre, no lo hace con un vago reclamo como a un forastero, ni con una convocación impersonal como lo haría un notario, ni con una declaración de preceptos a cumplir como lo hace cualquier funcionario de lo sacro. Dios habla con la inconfundible voz del Padre al hijo, y respeta su misterio porque lo ha formado con sus mismas manos y lo ha destinado a la plenitud. Nuestro mayor desafío como Iglesia es hablar al hombre como portavoz de esta intimidad de Dios, que lo considera hijo, aun cuando reniegue de esa paternidad, porque para Él somos siempre hijos reencontrados. No se puede, por tanto, reducir el Evangelio a un programa al servicio de un gnosticismo de moda, a un proyecto de ascenso social o a una concepción de la Iglesia como una burocracia que se autobeneficia, como tampoco esta se puede reducir a una organización dirigida, con modernos criterios empresariales, por una casta clerical. La Iglesia es la comunidad de los discípulos de Jesús; la Iglesia es Misterio (cf. Lumen Gentium, 5) y Pueblo (cf. ibíd., 9), o mejor aún: en ella se realiza el Misterio a través del Pueblo de Dios. Por eso insistí sobre el discipulado misionero como un llamado divino para este hoy tenso y complejo, un permanente salir con Jesús para conocer cómo y dónde vive el Maestro. Y mientras salimos en su compañía conocemos la voluntad del Padre, que siempre nos espera. Sólo una Iglesia Esposa, Madre, Sierva, que ha renunciado a la pretensión de controlar aquello que no es su obra sino la de Dios, puede permanecer con Jesús aun cuando su nido y su resguardo es la cruz. Cercanía y encuentro son los instrumentos de Dios que, en Cristo, se ha acercado y nos ha encontrado siempre. El misterio de la Iglesia es realizarse como sacramento de esta divina cercanía y como lugar permanente de este encuentro. De ahí la necesidad de la cercanía del obispo a Dios, porque en Él se halla la fuente de la libertad y de la fuerza del corazón del pastor, así como de la cercanía al Pueblo Santo que le ha sido confiado. En esta cercanía el alma del apóstol aprende a hacer tangible la pasión de Dios por sus hijos. Aparecida es un tesoro cuyo descubrimiento todavía está incompleto. Estoy seguro de que cada uno de ustedes descubre cuánto se ha enraizado su riqueza en las Iglesias que llevan en el corazón. Como los primeros discípulos enviados por Jesús en plan misionero, también nosotros podemos contar con entusiasmo todo cuanto hemos hecho (cf. Mc 6,30). Sin embargo, es necesario estar atentos. Las realidades indispensables de la vida humana y de la Iglesia no son nunca un monumento sino un patrimonio vivo. Resulta mucho más cómodo transformarlas en recuerdos de los cuales se celebran los aniversarios: ¡50 años de Medellín, 20 de Ecclesia in America, 10 de Aparecida! En cambio, es otra cosa: custodiar y hacer fluir la riqueza de tal patrimonio (pater - munus) constituyen el munus de nuestra paternidad episcopal hacia la Iglesia de nuestro continente. Bien saben que la renovada conciencia, de que al inicio de todo está siempre el encuentro con Cristo vivo, requiere que los discípulos cultiven la familiaridad con Él; de lo contrario el rostro del Señor se opaca, la misión pierde fuerza, la conversión pastoral retrocede. Orar y cultivar el trato con Él es, por tanto, la actividad más improrrogable de nuestra misión pastoral. A sus discípulos, entusiastas de la misión cumplida, Jesús les dijo: «Vengan ustedes solos a un lugar deshabitado» (Mc 6,31). Nosotros necesitamos más todavía este estar a solas con el Señor para reencontrar el corazón de la misión de la Iglesia en América Latina en sus actuales circunstancias. ¡Hay tanta dispersión interior y también exterior! Los múltiples acontecimientos, la fragmentación de la realidad, la instantaneidad y la velocidad del presente, podrían hacernos caer en la dispersión y en el vacío. Reencontrar la unidad es un imperativo. ¿Dónde está la unidad? Siempre en Jesús. Lo que hace permanente la misión no es el entusiasmo que inflama el corazón generoso del misionero, aunque siempre es necesario; más bien es la compañía de Jesús mediante su Espíritu. Si no salimos con Él en la misión pronto perderíamos el camino, arriesgándonos a confundir nuestras necesidades vacuas con su causa. Si la razón de nuestro salir no es Él será fácil desanimarse en medio de la fatiga del camino, o frente a la resistencia de los destinatarios de la misión, o ante los cambiantes escenarios de las circunstancias que marcan la historia, o por el cansancio de los pies debido al insidioso desgaste causado por el enemigo. No forma parte de la misión ceder al desánimo cuando, quizás, habiendo pasado el entusiasmo de los inicios, llega el momento en el que tocar la carne de Cristo se vuelve muy duro. En una situación como esta, Jesús no alienta nuestros miedos. Y como bien sabemos que a ningún otro podemos ir, porque sólo Él tiene palabras de vida eterna (cf. Jn 6,68), es necesario en consecuencia, profundizar nuestra elección. ¿Qué significa concretamente salir con Jesús en misión hoy en América Latina? El adverbio «concretamente» no es un detalle de estilo literario, más bien pertenece al núcleo de la pregunta. El Evangelio es siempre concreto, jamás un ejercicio de estériles especulaciones. Conocemos bien la recurrente tentación de perderse en el bizantinismo de los doctores de la ley, de preguntarse hasta qué punto se puede llegar sin perder el control del propio territorio demarcado o del presunto poder que los límites prometen. Mucho se ha hablado sobre la Iglesia en estado permanente de misión. Salir con Jesús es la condición para tal realidad. El Evangelio habla de Jesús que, habiendo salido del Padre, recorre con los suyos los campos y los poblados de Galilea. No se trata de un recorrido inútil del Señor. Mientras camina, encuentra; cuando encuentra, se acerca; cuando se acerca, habla; cuando habla, toca con su poder; cuando toca, cura y salva. Llevar al Padre a cuantos encuentra es la meta de su permanente salir, sobre el cual debemos reflexionar continuamente. La Iglesia debe reapropiarse de los verbos que el Verbo de Dios conjuga en su divina misión. Salir para encontrar, sin pasar de largo; reclinarse sin desidia; tocar sin miedo. Se trata de que se metan día a día en el trabajo de campo, allí donde vive el Pueblo de Dios que les ha sido confiado. No nos es lícito dejarnos paralizar por el aire acondicionado de las oficinas, por las estadísticas y las estrategias abstractas. Es necesario dirigirse al hombre en su situación concreta; de él no podemos apartar la mirada. La misión se realiza en un cuerpo a cuerpo. Una Iglesia capaz de ser sacramento de unidad ¡Se ve tanta dispersión en nuestro entorno! Y no me refiero solamente a la de la rica diversidad que siempre ha caracterizado el continente, sino a las dinámicas de disgregación. Hay que estar atentos para no dejarse atrapar en estas trampas. La Iglesia no está en América Latina como si tuviera las maletas en la mano, lista para partir después de haberla saqueado, como han hecho tantos a lo largo del tiempo. Quienes obran así miran con sentido de superioridad y desprecio su rostro mestizo; pretenden colonizar su alma con las mismas fallidas y recicladas fórmulas sobre la visión del hombre y de la vida, repiten iguales recetas matando al paciente mientras enriquecen a los médicos que los mandan; ignoran las razones profundas que habitan en el corazón de su pueblo y que lo hacen fuerte exactamente en sus sueños, en sus mitos, a pesar de los numerosos desencantos y fracasos; manipulan políticamente y traicionan sus esperanzas, dejando detrás de sí tierra quemada y el terreno pronto para el eterno retorno de lo mismo, aun cuando se vuelva a presentar con vestido nuevo. Hombres y utopías fuertes han prometido soluciones mágicas, respuestas instantáneas, efectos inmediatos. La Iglesia, sin pretensiones humanas, respetuosa del rostro multiforme del continente, que considera no una desventaja sino una perenne riqueza, debe continuar prestando el humilde servicio al verdadero bien del hombre latinoamericano. Debe trabajar sin cansarse para construir puentes, abatir muros, integrar la diversidad, promover la cultura del encuentro y del diálogo, educar al perdón y a la reconciliación, al sentido de justicia, al rechazo de la violencia y al coraje de la paz. Ninguna construcción duradera en América Latina puede prescindir de este fundamento invisible pero esencial. La Iglesia conoce como pocos aquella unidad sapiencial que precede cualquier realidad en América Latina. Convive cotidianamente con aquella reserva moral sobre la que se apoya el edificio existencial del continente. Estoy seguro de que mientras estoy hablando de esto ustedes podrían darle nombre a esta realidad. Con ella debemos dialogar continuamente. No podemos perder el contacto con este sustrato moral, con este humus vital que reside en el corazón de nuestra gente, en el que se percibe la mezcla casi indistinta, pero al mismo tiempo elocuente, de su rostro mestizo: no únicamente indígena, ni hispánico, ni lusitano, ni afroamericano, sino mestizo, ¡latinoamericano! Guadalupe y Aparecida son manifestaciones programáticas de esta creatividad divina. Bien sabemos que esto está en la base sobre la que se apoya la religiosidad popular de nuestro pueblo; es parte de su singularidad antropológica; es un don con el que Dios se ha querido dar a conocer a nuestra gente. Las páginas más luminosas de la historia de nuestra Iglesia han sido escritas precisamente cuando se ha sabido nutrir de esta riqueza, hablar a este corazón recóndito que palpita custodiando, como una pequeña luz encendida bajo las aparentes cenizas, el sentido de Dios y de su trascendencia, la sacralidad de la vida, el respeto por la creación, los lazos de solidaridad, la alegría de vivir, la capacidad de ser feliz sin condiciones. Para hablar a esta alma que es profunda, para hablar a la Latinoamérica profunda, la Iglesia debe aprender continuamente de Jesús. Dice el Evangelio que hablaba sólo en parábolas (cf. Mc 4,34). Imágenes que involucran y hacen partícipes, que transforman a los oyentes de su Palabra en personajes de sus divinos relatos. El santo Pueblo fiel de Dios en América Latina no comprende otro lenguaje sobre Él. Estamos invitados a salir en misión no con conceptos fríos que se contentan con lo posible, sino con imágenes que continuamente multiplican y despliegan sus fuerzas en el corazón del hombre, transformándolo en grano sembrado en tierra buena, en levadura que incrementa su capacidad de hacer pan de la masa, en semilla que esconde la potencia del árbol fecundo. Una Iglesia capaz de ser sacramento de esperanza Muchos se lamentan de cierto déficit de esperanza en la América Latina actual. A nosotros no nos está consentida la «quejumbrosidad», porque la esperanza que tenemos viene de lo alto. Además, bien sabemos que el corazón latinoamericano ha sido amaestrado por la esperanza. Como decía un cantautor brasileño «a esperança è equilibrista; dança na corda bamba de sombrinha» (João Bosco, O Bêbado e a Equilibrista). Cuando se piensa que se ha acabado, hela aquí nuevamente donde menos se la esperaba. Nuestro pueblo ha aprendido que ninguna desilusión es suficiente para doblegarlo. Sigue al Cristo flagelado y manso, sabe desensillar hasta que aclare y permanece en la esperanza de su victoria, porque —en el fondo— tiene conciencia de que no pertenece totalmente a este mundo. Es indudable que la Iglesia en estas tierras es particularmente un sacramento de esperanza, pero es necesario vigilar sobre la concretización de esta esperanza. Tanto más trascendente cuanto más debe transformar el rostro inmanente de aquellos que la poseen. Les ruego que vigilen sobre la concretización de la esperanza y consiéntanme recordarles algunos de sus rostros ya visibles en esta Iglesia latinoamericana. La esperanza en América Latina tiene un rostro joven Se habla con frecuencia de los jóvenes —se declaman estadísticas sobre el continente del futuro—, algunos ofrecen noticias sobre su presunta decadencia y sobre cuánto estén adormilados, otros aprovechan de su potencial para consumir, no pocos les proponen el rol de peones del tráfico y de la violencia. No se dejen capturar por tales caricaturas sobre sus jóvenes. Mírenlos a los ojos y busquen en ellos el coraje de la esperanza. No es verdad que estén listos para repetir el pasado. Ábranles espacios concretos en las Iglesias particulares que les han sido confiadas, inviertan tiempo y recursos en su formación. Propongan programas educativos incisivos y objetivos pidiéndoles, como los padres le piden a los hijos, el resultado de sus potencialidades y educando su corazón en la alegría de la profundidad, no de la superficialidad. No se conformen con retóricas u opciones escritas en los planes pastorales jamás puestos en práctica. He escogido precisamente Panamá, el istmo de este continente, para la Jornada Mundial de la Juventud 2019 que será celebrada siguiendo el ejemplo de la Virgen que proclama: «He aquí la sierva» y «se cumpla en mí» (Lc 1,38). Estoy seguro de que en todos los jóvenes se esconde un istmo, en el corazón de todos nuestros chicos hay un pequeño y alargado pedazo de terreno que se puede recorrer para conducirlos hacia un futuro que sólo Dios conoce y a Él le pertenece. Toca a nosotros presentarles grandes propuestas para despertar en ellos el coraje de arriesgarse junto a Dios y de hacerlos, como la Virgen, disponibles. La esperanza en América Latina tiene un rostro femenino No es necesario que me alargue para hablar del rol de la mujer en nuestro continente y en nuestra Iglesia. De sus labios hemos aprendido la fe; casi con la leche de sus senos hemos adquirido los rasgos de nuestra alma mestiza y la inmunidad frente a cualquier desesperación. Pienso en las madres indígenas o morenas, pienso en las mujeres de la ciudad con su triple turno de trabajo, pienso en las abuelas catequistas, pienso en las consagradas y en las tan discretas artesanas del bien. Sin las mujeres la Iglesia del continente perdería la fuerza de renacer continuamente. Son las mujeres que, con meticulosa paciencia, encienden y reencienden la llama de la fe. Es un serio deber comprender, respetar, valorizar, promover la fuerza eclesial y social de cuanto realizan. Acompañaron a Jesús misionero; no se retiraron del pie de la cruz; en soledad esperaron que la noche de la muerte devolviese al Señor de la vida; inundaron el mundo con su presencia resucitada. Si queremos una nueva y vivaz etapa de la fe en este continente, no la obtendremos sin las mujeres. Por favor, no pueden ser reducidas a siervas de nuestro recalcitrante clericalismo; ellas son, en cambio, protagonistas en la Iglesia latinoamericana; en su salir con Jesús; en su perseverar, aun en el sufrimiento de su Pueblo; en su aferrarse a la esperanza que vence a la muerte; en su alegre modo de anunciar al mundo que Cristo está vivo, y ha resucitado. La esperanza en América Latina pasa a través del corazón, la mente y los brazos de los laicos Quisiera reiterar lo que recientemente he dicho a la Pontificia Comisión para América Latina. Es un imperativo superar el clericalismo que infantiliza a los Christifideles laici y empobrece la identidad de los ministros ordenados. Si bien se invirtió mucho esfuerzo y algunos pasos han sido dados, los grandes desafíos del continente permanecen sobre la mesa y continúan esperando la concretización serena, responsable, competente, visionaria, articulada, consciente, de un laicado cristiano que, como creyente, esté dispuesto a contribuir en los procesos de un auténtico desarrollo humano, en la consolidación de la democracia política y social, en la superación estructural de la pobreza endémica, en la construcción de una prosperidad inclusiva fundada en reformas duraderas y capaces de preservar el bien social, en la superación de la desigualdad y la custodia de la estabilidad, en la delineación de modelos de desarrollo económico sostenibles que respeten la naturaleza y el verdadero futuro del hombre, que no se resuelve con el consumismo desmesurado, así como también en el rechazo de la violencia y la defensa de la paz. Y algo más: en este sentido, la esperanza debe siempre mirar al mundo con los ojos de los pobres y desde la situación de los pobres. Ella es pobre como el grano de trigo que muere (cf. Jn 12,24), pero tiene la fuerza de diseminar los planes de Dios. La riqueza autosuficiente con frecuencia priva a la mente humana de la capacidad de ver, sea la realidad del desierto sea los oasis ahí escondidos. Propone respuestas de manual y repite certezas de talkshows; balbucea la proyección de sí misma, vacía, sin acercarse mínimamente a la realidad. Estoy seguro de que en este difícil y confuso pero provisorio momento que vivimos, las soluciones para los problemas complejos que nos desafían nacen de la sencillez cristiana que se esconde a los poderosos y se muestra a los humildes: la limpieza de la fe en el Resucitado, el calor de la comunión con Él, la fraternidad, la generosidad y la solidaridad concreta que también brota de la amistad con Él. Y todo esto lo quisiera resumir en una frase que les dejo como síntesis y recuerdo de este encuentro: Si queremos servir desde el CELAM, a nuestra América Latina, lo tenemos que hacer con pasión. Hoy hace falta pasión. Poner el corazón en todo lo que hagamos, pasión de joven enamorado y de anciano sabio, pasión que transforma las ideas en utopías viables, pasión en el trabajo de nuestras manos, pasión que nos convierte en continuos peregrinos en nuestras Iglesias como —permítanme recordarlo— santo Toribio de Mogrovejo, que no se instaló en su sede: de 24 años de episcopado, 18 los pasó entre los pueblos de su diócesis. Hermanos, por favor, les pido pasión, pasión evangelizadora. A ustedes, hermanos obispos del CELAM, a las Iglesias locales que representan y al entero pueblo de América Latina y del Caribe, los confío a la protección de la Virgen, invocada con los nombres de Guadalupe y Aparecida, con la serena certeza de que Dios, que ha hablado a este continente con el rostro mestizo y moreno de su Madre, no dejará de hacer resplandecer su benigna luz en la vida de todos.  
FRANCESE 
Chers frères, merci pour cette rencontre et pour les chaleureuses paroles de bienvenue du Président de la Conférence de l’Épiscopat Latino-américain. N’eussent été les exigences de l’agenda, j’aurais voulu vous rencontrer au siège du CELAM. Je vous remercie pour la délicatesse d’être ici en ce moment. Je suis reconnaissant pour les efforts que vous faites afin de transformer cette Conférence Épiscopale continentale en une maison au service de la communion et de la mission de l’Église en Amérique Latine ; en un centre propulseur de la conscience d’être disciple et missionnaire ; en une référence vitale pour la compréhension et l’approfondissement de la catholicité latino-américaine, esquissée progressivement par cet organisme de communion durant des décennies de service. Et je profite de l’occasion pour encourager les efforts récents en vue d’exprimer cette sollicitude collégiale à travers le Fond de Solidarité de l’Église Latino-américaine. Il y a quatre ans, à Rio de Janeiro, j’ai eu l’occasion de vous parler au sujet de l’héritage pastoral d’Aparecida, dernier événement synodal de l’Église Latino-américaine et des Caraïbes. Je soulignais alors la nécessité permanente d’apprendre de sa méthode, substantiellement constituée par la participation des Églises locales et par la syntonie avec les pèlerins marchant à la recherche du visage humble de Dieu qui a voulu se manifester dans la Vierge pêchée dans les eaux, et qui se prolonge dans la mission continentale. Celle-ci veut être, non pas la somme des initiatives pragmatiques qui remplissent les agendas et perdent les énergies précieuses, mais l’effort pour mettre la mission de Jésus dans le coeur de l’Église elle-même, en la transformant en critère pour mesurer l’efficacité des structures, des résultats de son travail, la fécondité de ses ministres et la joie qu’ils sont capables de susciter. En effet, sans la joie, on n’attire personne. Je m’étais ensuite arrêté sur les tentations, encore présentes, de l’idéologisation du message évangélique, du fonctionnalisme ecclésial et du cléricalisme, car le salut que nous apporte le Christ se trouve toujours en jeu. Ce salut doit arriver avec force au coeur de l’homme pour interpeller sa liberté, en l’invitant à un exode permanent de sa propre auto-référentialité vers la communion avec Dieu et avec les autres frères. Dieu, en parlant à l’homme en Jésus, ne le fait pas par une vague plainte comme à un étranger, ni par une convocation impersonnelle comme le ferait un notaire, ni par une déclaration de préceptes à observer comme le fait n’importe quel fonctionnaire du sacré. Dieu parle par la voix à nulle autre pareille du Père au fils, et respecte son mystère parce qu’il l’a formé de ses propres mains et l’a destiné à la plénitude. Notre plus grand défi en tant qu’Église, c’est de parler à l’homme comme porte-voix de cette intimité avec Dieu qui le considère fils, même lorsqu’il renie cette paternité, car pour lui nous sommes toujours des enfants retrouvés. On ne peut pas, par conséquent, réduire l’Évangile à un programme au service d’un gnosticisme à la mode, à un projet d’ascension sociale ou à une conception de l’Église comme une bureaucratie qui s’accorde elle-même des bénéfices, comme celle-ci ne peut pas non plus être réduite à une organisation dirigée, selon des critères modernes d’entreprise, par une caste cléricale. L’Église est la communauté des disciples de Jésus ; l’Église est mystère (cf. Lumen gentium, n. 5) et peuple (cf. ibid., n. 9), ou mieux encore : en elle se réalise le mystère à travers le peuple de Dieu. C’est pourquoi, j’ai souligné le fait d’être disciple missionnaire comme un appel divin pour cet aujourd’hui non dénué de tensions et de complexités, une sortie permanente avec Jésus pour savoir comment et où vit le Maître. Et tandis que nous sortons en sa compagnie nous prenons connaissance de la volonté du Père, qui nous attend toujours. Seule une Église épouse, Mère, Servante, qui a renoncé à la prétention de contrôler ce qui n’est pas son oeuvre mais une oeuvre de Dieu peut demeurer avec Jésus même quand son nid et son abri sont la croix. Proximité et rencontre sont les instruments de Dieu qui, dans le Christ, s’est approché et nous a toujours rencontrés. Le mystère de l’Église, c’est qu’elle se réalise comme sacrement de cette divine proximité et comme lieu permanent de cette rencontre. D’où la nécessité de la proximité de l’évêque avec Dieu, car en lui se trouve la source de la liberté et de la force du coeur du pasteur, ainsi que de la proximité avec le peuple saint qui lui a été confié. Dans cette proximité, l’âme de l’apôtre apprend à rendre tangible la passion de Dieu pour ses enfants. Aparecida est un trésor dont la découverte est encore incomplète. Je suis sûr que chacun de vous découvre combien sa richesse s’est enracinée dans les Églises que vous portez dans le coeur. Comme les premiers disciples envoyés par Jésus pour la mission, nous aussi nous pouvons raconter avec enthousiasme tout ce que nous avons accompli (cf. Mc 6, 30). Toutefois, il faut être attentif. Les réalités indispensables de la vie humaine et de l’Église ne sont jamais un monument mais un patrimoine vivant. Il est beaucoup plus confortable de les transformer en des souvenirs dont on célèbre les anniversaires : 50 ans de Medellin, 20 d’Ecclesia in America, 10 d’Aparecida ! En revanche, il s’agit de quelque chose d’autre : préserver et faire couler la richesse de ce patrimoine (pater – munus) constituent le munus de notre paternité épiscopale envers l’Église de notre continent. Vous le savez bien, la conscience renouvelée du fait qu’à la source de tout il y a toujours la rencontre avec le Christ vivant demande que les disciples cultivent la familiarité avec lui ; autrement, le visage du Seigneur devient opaque, la mission perd sa force, la conversion pastorale régresse. Prier et cultiver l’union avec lui sont, par conséquent, l’activité la plus pressante de notre mission pastorale. À ses disciples, enthousiastes de la mission accomplie, Jésus a dit : « Venez à l’écart dans un endroit désert » (Mc 6, 31). Nous avons plus encore besoin de cet être-seuls-avec-le-Seigneur pour trouver le coeur de la mission de l’Église en Amérique Latine dans les circonstances actuelles. Il y a beaucoup de dispersion intérieure et également extérieure ! Les nombreux événements, la fragmentation de la réalité, l’instantanéité et la rapidité du présent pourraient nous faire tomber dans la dispersion et dans le vide. Il est impératif de retrouver l’unité. Où se trouve l’unité? Toujours en Jésus. Ce qui rend permanente la mission, ce n’est pas l’enthousiasme qui enflamme le coeur généreux du missionnaire, bien que ce soit toujours nécessaire ; c’est plutôt la compagnie de Jésus à travers son Esprit. Si nous ne sortons pas avec lui dans la mission, bientôt nous perdrions le chemin, en prenant le risque de confondre nos besoins futiles avec sa cause. Si la raison de notre sortie, ce n’est pas lui, il sera facile de se décourager dans la fatigue du chemin, ou face à la résistance des destinataires de la mission, ou face aux situations changeantes des circonstances qui marquent l’histoire, ou par l’épuisement des pieds en raison de l’usure insidieuse causée par l’ennemi. Céder au découragement ne fait pas partie de la mission, lorsque peut-être, passé l’enthousiasme des débuts, arrive le moment où toucher la chair du Christ devient très dur. Dans une telle situation, Jésus n’encourage pas nos peurs. Et comme nous le savons bien, nous ne pouvons aller à personne d’autre, parce que lui seul a les paroles de la vie éternelle (cf. Jn 6, 68) ; il est nécessaire, par conséquent, d’approfondir notre appel. Que signifie concrètement sortir avec Jésus en mission aujourd’hui en Amérique Latine ? L’adverbe ‘‘concrètement’’ n’est pas une figure de style littéraire ; il appartient plutôt au noyau de la question. L’Évangile est toujours concret, il n’est jamais un exercice de spéculations stériles. Nous connaissons bien la tentation récurrente de se perdre dans le byzantinisme des docteurs de la loi, de se demander jusqu’à quel point on peut arriver sans perdre le contrôle de son propre territoire marqué ou du présumé pouvoir que les limites promettent. On a beaucoup parlé de l’Église en état permanent de mission. Sortir avec Jésus est la condition de cette réalité. L’Évangile parle de Jésus qui, sorti du Père, parcourt avec les siens les campagnes et les villages de la Galilée. Il ne s’agit pas d’un déplacement inutile du Seigneur. Tandis qu’il marche, il rencontre ; quand il rencontre, il s’approche ; quand il s’approche, il parle ; quand il parle, il touche par son pouvoir ; quand il touche, il guérit et sauve. Conduire au Père ceux qu’il rencontre est l’objectif de sa sortie permanente, sur laquelle nous devons réfléchir continuellement. L’Église doit se réapproprier les verbes que le Verbe de Dieu conjugue dans sa mission divine. Sortir pour rencontrer, sans passer au large ; se pencher sans négligence ; toucher sans peur. Il s’agit pour vous de vous consacrer quotidiennement au travail de campagne, là où vit le peuple de Dieu qui vous a été confié. Il ne nous est pas permis de nous laisser paralyser par la climatisation des bureaux, par les statistiques et les stratégies abstraites. Il faut s’adresser à l’homme dans sa situation concrète ; ne détournons pas le regard de lui. La mission se réalise dans un corps à corps. Un Église capable d’être sacrement d’unité. On observe tant de dispersion autour de nous ! Et je ne me réfère pas uniquement à celle de la riche diversité qui a toujours caractérisé le continent, mais aux dynamiques de désagrégation. Il faut être attentif pour ne pas se laisser prendre à ces pièges. L’Église n’est pas en Amérique Latine comme si elle avait les valises à la main, prête à partir après l’avoir pillée, comme l’ont fait beaucoup tout au long de l’histoire. Ceux qui agissent ainsi regardent avec un sentiment de supériorité et de mépris son visage métisse ; ils prétendent coloniser son âme avec les mêmes formules infructueuses et recyclées sur la vision de l’homme et de la vie, répètent des recettes identiques en tuant le patient tandis qu’ils enrichissent les médecins qui les envoient ; ils ignorent les raisons profondes qui habitent le coeur de votre peuple et qui le rendent fort précisément dans ses rêves, dans ses mythes, malgré les désenchantements et les échecs nombreux ; ils manipulent politiquement et trahissent ses espérances, en laissant derrière eux une terre brûlée et un terrain prêt pour l’éternel retour de la même chose, même quand on revient le présenter sous un habit nouveau. Des hommes et des utopies forts ont promis des solutions magiques, des réponses instantanées, des effets immédiats. L’Église, sans prétentions humaines, respectueuse du visage multiforme du continent, qu’elle considère non pas comme un désavantage mais comme une richesse permanente, doit continuer à prêter l’humble service au bien authentique de l’homme latino-américain. Elle doit travailler, sans se lasser, à construire des ponts, à abattre des murs, à intégrer la diversité, promouvoir la culture de la rencontre et du dialogue, à éduquer au pardon et à la réconciliation, au sens de la justice, au rejet de la violence et au courage de la paix. Aucune construction durable en Amérique Latine ne peut se passer de ce fondement invisible mais essentiel. L’Église connaît comme peu cette unité sapientielle qui précède n’importe quelle réalité en Amérique Latine. Elle cohabite quotidiennement avec cette réserve morale sur laquelle s’appuie l’édifice existentiel du continent. Tandis que j’en parle avec vous, je suis sûr que vous pourriez donner un nom à cette réalité. Avec elle, nous devons dialoguer continuellement. Nous ne pouvons pas perdre le contact avec ce substrat moral, avec cet humus vital qui réside dans le coeur de notre peuple, dans lequel on perçoit le mélange presqu’indistinct, mais en même temps éloquent, de son visage métisse : ni uniquement indigène, ni uniquement hispanique, ni uniquement lusitanien, ni uniquement afro-américain, mais métisse, latino-américain ! Guadalupe et Aparecida sont des manifestations programmatiques de cette créativité divine. Nous le savons bien, elles se trouvent dans le fondement sur lequel s’appuie la religiosité populaire de notre peuple ; elles font partie de sa singularité anthropologique ; il s’agit d’un don par lequel Dieu a voulu se faire connaître à notre peuple. Les pages les plus lumineuses de l’histoire de notre Église ont été écrites précisément quand elle a su se nourrir de cette richesse, parler à ce coeur profond qui palpite, préservant, comme une petite lumière vive sous les cendres apparentes, le sens de Dieu et de sa transcendance, la sacralité de la vie, le respect de la création, les liens de solidarité, la joie de vivre, la capacité d’être heureux sans conditions. Pour parler à cette âme qui est profonde, pour parler à l’Amérique Latine profonde, l’Église doit apprendre continuellement de Jésus. L’Évangile dit qu’il parlait uniquement en paraboles (cf. Mc 4, 34). Des images qui impliquent et font participer, qui transforment les auditeurs de sa Parole en personnages de ses récits divins. Le saint peuple fidèle de Dieu en Amérique Latine ne comprend pas un autre langage le concernant. Nous sommes invités à aller en mission non pas avec des concepts froids qui se contentent du possible, mais avec des images qui multiplient et déploient continuellement ses forces dans le coeur de l’homme, en le transformant en grain semé dans une terre bonne, en levain qui accroît sa capacité de faire du pain à partir de la pâte, en semence qui cache la puissance de l’arbre fécond. Une Église capable d’être sacrement de l’espérance Beaucoup se plaignent d’un certain manque d’espérance dans l’Amérique Latine actuelle. À nous autres, la ‘‘lamentitude’’ n’est pas permise, car l’espérance que nous avons vient d’en haut. En outre, nous savons bien que le coeur latino-américain a été éduqué à l’espérance. Comme le disait un chanteur brésilien ‘‘l’espérance est équilibriste ; elle danse sur la corde raide de l’ombre’’ (Joao Bosco, O Bêbado e a Equilibrista). Quand on pense qu’elle est épuisée, la voici de nouveau là où on l’attendait le moins. Notre peuple a appris qu’aucune désillusion n’est suffisante pour le faire plier. Il suit le Christ flagellé et doux, il sait desseller jusqu’à ce que survienne la clarté et il demeure dans l’espérance de sa victoire, car – au fond – il est conscient de ne pas appartenir totalement à ce monde. Il est indéniable que l’Église en ces terres est particulièrement un sacrement d’espérance, mais il faut veiller sur la concrétisation de cette espérance. Plus elle est transcendante, plus elle doit transformer le visage immanent de ceux qui la possèdent. Je vous prie de veiller à la concrétisation de l’espérance et permettez-moi de vous rappeler quelques-uns de ses visages déjà visibles dans cette Église de l’Amérique Latine. L’espérance en Amérique Latine a un visage jeune On parle fréquemment des jeunes – on déclame les statistiques sur le continent de l’avenir –, certains offrent des informations sur leur présumée décadence et sur combien ils sont endormis, d’autres profitent de leur potentiel de consommation, beaucoup leur proposent le rôle de pions du trafic et de la violence. Ne vous laissez pas prendre par de telles caricatures sur vos jeunes. Regardez-les dans les yeux et cherchez en eux le courage de l’espérance. Ce n’est pas vrai qu’ils sont prêts à répéter le passé. Ouvrez-leur des espaces concrets dans les Églises particulières qui vous ont été confiées, investissez du temps et des ressources dans leur formation. Proposez des programmes éducatifs incisifs et objectifs en leur demandant, comme les parents le font avec leurs enfants, des résultats de leurs potentialités et en éduquant leur coeur à la joie de la profondeur, non pas de la superficialité. Ne vous contentez pas de rhétoriques ou de choix consignés par écrit dans les plans pastoraux jamais mis en pratique. J’ai choisi précisément le Panama, l’isthme de ce continent, pour les Journées Mondiales de la Jeunesse 2019 qui seront célébrées en suivant l’exemple de la Vierge qui proclame : « Voici la servante du Seigneur » et « que tout m’advienne selon sa parole » (Lc 1, 38). Je suis sûr que chez tous les jeunes se cache un isthme, dans le coeur de tous nos jeunes il y a un bout de terre petit et oblong qu’on peut parcourir pour les conduire vers un avenir que Dieu seul connaît et qui n’appartient qu’à lui. Il nous revient de leur présenter de grandes propositions pour réveiller en eux le courage de prendre des risques avec Dieu et de les rendre disponibles comme la Vierge. L’espérance en Amérique Latine a un visage féminin Il n’est pas nécessaire de m’attarder à parler du rôle de la femme dans notre continent et dans notre Église. De ses lèvres nous avons appris la foi ; presqu’avec le lait de ses seins nous avons acquis les traits de notre âme métisse et l’immunité face à tout désespoir. Je pense aux mères indigènes ou noires, je pense aux femmes des villes avec leur triple tour de travail, je pense aux grand-mères catéchistes, je pense aux consacrées et aux très nombreuses femmes artisans du bien. Sans les femmes, l’Église du continent perdrait la force de renaître continuellement. Ce sont les femmes qui, avec une patience méticuleuse, allument et rallument la flamme de la foi. C’est un devoir sérieux de comprendre, de respecter, de valoriser, de promouvoir la force ecclésiale et sociale de ce qu’elles font. Elles ont accompagné Jésus missionnaire ; elles ne se sont pas retirées du pied de la croix ; dans la solitude, elles ont attendu que la nuit de la mort restitue le Seigneur de la vie ; elles ont inondé le monde de sa présence ressuscitée. Si nous voulons une étape nouvelle et vivace de la foi dans ce continent, nous ne l’obtiendrons pas sans les femmes. S’il vous plaît, elles ne peuvent pas être réduites à des servantes de notre cléricalisme récalcitrant ; elles sont, en revanche, protagonistes dans l’Église de l’Amérique Latine ; dans sa sortie avec Jésus ; dans sa sauvegarde, même dans la souffrance de son peuple ; dans son attachement à l’espérance qui l’emporte sur la mort ; dans sa façon joyeuse d’annoncer au monde que le Christ est vivant et est ressuscité. L’espérance en Amérique Latine passe à travers le coeur, l’esprit et les bras des laïcs Je voudrais réitérer ce que j’ai récemment dit à la Commission Pontificale pour l’Amérique Latine. Il faut impérativement surmonter le cléricalisme qui infantilise les Christifideles laici et appauvrit l’identité des ministres ordonnés. Bien que beaucoup d’efforts aient été réalisés et quelques pas faits, les grands défis du continent demeurent sur la table et continuent d’attendre l’avènement serein, responsable, compétent, visionnaire, articulé, conscient, d’un laïcat chrétien qui, comme croyant, soit disposé à contribuer : aux processus d’un authentique développement humain, à la consolidation de la démocratie politique et sociale, à l’éradication structurelle de la pauvreté endémique, à la construction d’une prospérité inclusive fondée sur des réformes durables et à même de préserver le bien social, à l’éradication de l’inégalité et à la sauvegarde de la stabilité, à l’élaboration de modèles de développement économique soutenable respectant la nature et le vrai avenir de l’homme qui ne se réduit pas à la consommation démesurée, ainsi qu’au rejet de la violence et à la défense de la paix. Et une chose en plus : en ce sens, l’espérance doit toujours regarder le monde avec les yeux des pauvres et à partir de la situation des pauvres. L’espérance est pauvre comme le grain de blé qui meurt (cf. Jn 12, 24), mais elle a la force de répandre les plans de Dieu. La richesse autosuffisante prive souvent l’esprit humain de la capacité de voir aussi bien la réalité du désert que les oasis qui y sont cachées. Elle propose des réponses de manuel et répète des certitudes de ‘‘talkshows’’ ; elle balbutie la projection d’elle-même, vide, sans s’approcher le moindre du monde de la réalité. Je suis sûr qu’en ces temps difficiles et confus mais provisoires que nous vivons, les solutions aux problèmes complexes représentant pour nous des défis naissent de la simplicité chrétienne qui se cache aux puissants et se révèle aux humbles : la pureté de la foi dans le Ressuscité, la chaleur de la communion avec lui, la fraternité, la générosité et la solidarité concrète qui jaillit aussi de l’amitié avec lui. Et tout cela, je voudrais le résumer dans une phrase que je vous laisse comme synthèse et souvenir de cette rencontre : Si nous voulons servir, à partir du CELAM, notre Amérique Latine, nous devons le faire avec passion. Aujourd’hui, manque la passion. Mettre notre coeur dans tout ce que nous faisons, de la passion de jeune amoureux et d’ancien sage, de la passion qui transforme les idées en utopies viables, de la passion dans le travail de nos mains, de la passion qui fait de nous des pèlerins permanents dans nos Églises comme – permettez-moi de le rappeler – saint Toribio de Mogrovejo, qui ne s’installait pas à son siège : sur les 24 ans d’épiscopat, il en a passé 18 parmi les populations de son diocèse. Chers frères, s’il vous plaît, je vous demande de la passion, de la passion évangélisatrice. Vous, évêques du CELAM, les Églises locales que vous représentez et le peuple tout entier de l’Amérique et des Caraïbes, je vous confie à la protection de la Vierge, invoquée sous les noms de Guadalupe et d’Aparecida, avec la sereine certitude que Dieu, qui a parlé à ce continent par le  visage métisse et noir de sa Mère, ne cessera pas de faire resplendir sa lumière bienfaisante dans la vie de tous. INGLESE 
Dear Brothers, I thank you for our meeting and for the warm words of welcome by the President of the Latin American Episcopal Council. Were it not for the demands of my schedule, I would have liked to visit you at the CELAM offices. I thank you for your thoughtfulness in meeting me here. I appreciate your efforts to make this continental Episcopal Conference a home at the service of communion and the mission of the Church in Latin America, as well as a centre for fostering a sense of discipleship and missionary spirit. Over these decades of service to communion, CELAM has also become a vital point of reference for the development of a deeper understanding of Latin American Catholicism. I take this occasion to encourage your recent efforts to express this collegial concern through the Solidarity Fund of the Latin American Church. Four years ago, in Rio de Janeiro, I spoke to you about the pastoral legacy of Aparecida, the last synodal event of the Church in Latin America and the Caribbean. I stressed the continuing need to learn from its method, marked in essence by the participation of the local Churches and attuned to God’s pilgrim people as they seek his humble face revealed in the Virgin fished from the waters. That method is also reflected in the continental mission, which is not meant to be a collection of programmes that fill agendas and waste precious energies. Instead, it is meant to place the mission of Jesus at the heart of the Church, making it the criterion for measuring the effectiveness of her structures, the results of her labours, the fruitfulness of her ministers and the joy they awaken. For without joy, we attract no one. I went on to mention the ever-present temptations of making the Gospel an ideology, ecclesial functionalism and clericalism. At stake is the salvation that Christ brings us, which has to touch the hearts of men and women by its power and appealing to their freedom, inviting them to a permanent exodus from themselves and their self-absorption, towards fellowship with God and with our brothers and sisters. When God speaks to us in Jesus, he does not nod vaguely to us as if we were strangers, or deliver an impersonal summons like a solicitor, or lay down rules to be followed like certain functionaries of the sacred. God speaks with the unmistakable voice of the Father to his children; he respects the mystery of man because he formed us with his own hands and gave us a meaningful purpose. Our great challenge as a Church is to speak to men and women about this closeness of God, who considers us his sons and daughters, even when we reject his fatherhood. For him, we are always children to be encountered anew. The Gospel, then, cannot be reduced to a programme at the service of a trendy gnosticism, a project of social improvement or the Church conceived as a comfortable bureaucracy, any more than she can be reduced to an organization run according to modern business models by a clerical caste. The Church is the community of Jesus’ disciples. The Church is a Mystery (cf. Lumen Gentium, 5) and a People (cf. ibid., 9). Better yet, in the Church the Mystery becomes present through God’s People. Hence my insistence that missionary discipleship is a call from God for today’s busy and complicated world, a constant setting out with Jesus, in order to know how and where the Master lives. When we set out with him, we come to know the will of the Father who is always waiting for us. Only a Church which is Bride, Mother and Servant, one that has renounced the claim to control what is not her own work but God’s, can remain with Jesus, even when the only place he can lay his head is the cross. Closeness and encounter are the means used by God, who in Christ always draws near to meet us. The mystery of the Church is to be the sacrament of this divine intimacy and the perennial place of this encounter. Hence, the need for the bishop to be close to God, for in God he finds the source of his freedom, his steadfastness as a pastor and his closeness to the holy people entrusted to his care. In this closeness, the soul of the apostle learns how to make tangible God's passion for his children. Aparecida is a treasure yet to be fully exploited. I am certain that each of you has seen how its richness has taken root in the Churches you hold in your hearts. Like the first disciples sent forth by Jesus on mission, we too can recount with enthusiasm all that we have accomplished (cf. Mk 6:30). Nonetheless, we have to be attentive. The essential things in life and in the Church are never written in stone, but remain a living legacy. It is all too easy to turn them into memories and anniversaries to be celebrated: fifty years since Medellín, twenty since Ecclesia in America, ten since Aparecida! Something more is required: by cherishing the richness of this patrimony (pater/munus) and allowing it to flourish, we exercise the munus of our episcopal paternity towards the Church in our continent. As you well know, the renewed awareness born of an encounter with the living Christ requires that his disciples foster their relationship with him; otherwise, the face of the Lord is obscured, the mission is weakened, pastoral conversion falters. To pray and to foster our relationship with him: these are the most essential and urgent activities to be carried out in our pastoral mission. When the disciples returned excited by the mission they had carried out, Jesus said to them: “Come away by yourselves to a lonely place” (Mk 6:31). How greatly we need to be alone with the Lord in order to encounter anew the heart of the Church’s mission in Latin America at the present time. How greatly we need to be recollected, within and without! Our crowded schedules, the fragmentation of reality, the rapid pace of our lives: all these things might make us lose our focus and end up in a vacuum. Recovering unity is imperative. Where do we find unity? Always in Jesus. What makes the mission last is not the generosity and enthusiasm that burn in the heart of the missionary, even though these are always necessary. It is rather the companionship of Jesus in his Spirit. If we do not we set out with him on our mission, we quickly become lost and risk confusing our vain needs with his cause. If our reason for setting out is not Jesus, it becomes easy to grow discouraged by the fatigue of the journey, or the resistance we meet, by constantly changing scenarios or by the weariness brought on by subtle but persistent ploys of the enemy. It is not part of the mission to yield to discouragement, once our initial enthusiasm has faded and the time comes when touching the flesh of Christ becomes very hard. In situations like this, Jesus does not feed our fears. We know very well that to him alone can we go, for he alone has the words of eternal life (cf. Jn 6:68). So we need to understand and appreciate more deeply the fact that he has chosen us. Concretely, what does it mean to set out on mission with Jesus today, here in Latin America? The word “concretely” is not a mere figure of speech: it goes to the very heart of the matter. The Gospel is always concrete, and never an exercise in fruitless speculation. We are well aware of the recurring temptation to get lost in the cavils of the doctors of the law, to wonder how far we can go without losing control over our own bailiwick or our petty portion of power. We often hear it said that the Church is in a permanent state of mission. Setting out with Jesus is the condition for this. The Gospel speaks of Jesus who, proceeding from the Father, journeys with his disciples through the fields and the towns of Galilee. His journeying is not meaningless. As Jesus walks, he encounters people. When he meets people, he draws near to them. When he draws near to them, he talks to them. When he talks to them, he touches them with his power. When he touches them, he brings them healing and salvation. His aim in constantly setting out is to lead the people he meets to the Father. We must never stop reflecting on this. The Church has to re-appropriate the verbs that the Word of God conjugates as he carries out his divine mission. To go forth to meet without keeping a safe distance; to take rest without being idle; to touch others without fear. It is a matter of working by day in the fields, where God’s people, entrusted to your care, live their lives. We cannot let ourselves be paralyzed by our air-conditioned offices, our statistics and our strategies. We have to speak to men and women in their concrete situations; we cannot avert our gaze from them. The mission is carried out by one to one contact. A Church able to be a sacrament of unity What lack of focus we see all around us! I am referring not only to the squandering of our continent’s rich diversity, but also to a constant process of disintegration. We need to be attentive lest we let ourselves fall into these traps. The Church is not present in Latin America with her suitcases in hand, ready, like so many others over time, to abandon it after having plundered it. Such people look with a sense of superiority and scorn on its mestizo face; they want to colonize its soul with the same failed and recycled visions of man and life; they repeat the same old recipes that kill the patient while lining the pockets of the doctors. They ignore the deepest concerns present in the heart of its people, the visions and the myths that give strength in spite of frequent disappointments and failures. They manipulate politics and betray hopes, leaving behind scorched land and a terrain ready for more of the same, albeit under a new guise. Powerful figures and utopian dreams have promised magic solutions, instant answers, immediate effects. The Church, without human pretensions, respects the varied face of the continent, which she sees not as an impediment but rather a perennial source of wealth. She must continue working quietly to serve the true good of the men and women of Latin America. She must work tirelessly to build bridges, to tear down walls, to integrate diversity, to promote the culture of encounter and dialogue, to teach forgiveness and reconciliation, the sense of justice, the rejection of violence. No lasting construction in Latin America can do without this unseen yet essential foundation. The Church appreciates like few others the deep-rooted shared wisdom that is the basis of every reality in Latin America. She lives daily with that reserve of moral values on which the life of the continent rests. I am sure that, even as I say this, you can put a name on this reality. We must constantly be in dialogue with it. We cannot lose contact with this moral substratum, with this rich soil present in the heart of our people, wherein we see the subtle yet eloquent elements that make up its mestizo face – not merely indigenous, Hispanic, Portuguese or African, but mestizo: Latin American! Guadalupe and Aparecida are programmatic signs of the divine creativity that has bought this about and that underlies the popular piety of our people, which is part of its anthropological uniqueness and a gift by which God wants our people to come to know him. The most luminous pages of our Church’s history were written precisely when she knew how to be nourished by this richness and to speak to this hidden heart. For it guards, like a spark beneath a coat of ashes, the sense of God and of his transcendence, a recognition of the sacredness of life, respect for creation, bonds of human solidarity, the sheer joy of living, the ability to find happiness without conditions. To speak to this deepest soul, to speak to the most profound reality of Latin America, the Church must continually learn from Jesus. The Gospel tells us that Jesus spoke only in parables (cf. Mk 4:34). He used images that engaged those who heard his word and made them characters in his divine stories. God’s holy and faithful people in Latin America understand no other way of speaking about him. We are called to set out on mission not with cold and abstract concepts, but with images that keep multiplying and unfolding their power in human hearts, making them grain sown on good ground, yeast that makes the bread rise from the dough, and seed with the power to become a fruitful tree. A Church able to be a sacrament of hope Many people decry a certain deficit of hope in today’s Latin America. We cannot take part in their “moaning”, because we possess a hope from on high. We know all too well that the Latin American heart has been taught by hope. As a Brazilian songwriter has said, “hope dances on the tightrope with an umbrella” (João Bosco, O Bêbado e a Equilibrista). Once you think hope is gone, it returns where you least expect it. Our people have learned that no disappointment can crush it. It follows Christ in his meekness, even under the scourge. It knows how to rest and wait for the dawn, trusting in victory, because – deep down – it knows that it does not belong completely to this world. The Church in these lands is, without a doubt and in a special way, a sacrament of hope. Still, there is a need to watch over how that hope takes concrete shape. The loftier it is, the more it needs to be seen on the faces of those who possess it. In asking you to keep watch over the expression of hope, I would now like to speak of some of its traits that are already visible in the Latin American Church. In Latin America, hope has a young face We often speak of young people and we often hear statistics about ours being the continent of the future. Some point to supposed shortcomings and a lack of motivation on the part of the young, while others eye their value as potential consumers. Others would enlist them in trafficking and violence. Pay no attention to these caricatures of young people. Look them in the eye and seek in them the courage of hope. It is not true that they want to return to the past. Make real room for them in your local Churches, invest time and resources in training them. Offer them incisive and practical educational programmes, and demand of them, as fathers demand of their children, that they use their gifts well. Teach them the joy born of living life to the full, and not superficially. Do not be content with the palaver and the proposals found in pastoral plans that never get put into practice. I purposely chose Panama, the isthmus of this continent, as the site of the 2019 World Youth Day, which will propose the example of the Virgin Mary, who speaks of herself as a servant and is completely open to all that is asked of her (cf. Lk 1:38). I am certain that in all young people there is hidden an “isthmus”, that in the heart of every young person there is a small strip of land which can serve as a path leading them to a future that God alone knows and holds for them. It is our task us to present the young with lofty ideals and to encourage them to stake their lives on God, in imitation of the openness shown by Our Lady. In Latin America, hope has a woman’s face I need not dwell on the role of women on our continent and in our Church. From their lips we learned the faith, and with their milk we took on the features of our mestizo soul and our immunity to despair. I think of indigenous or black mothers, I think of mothers in our cities working three jobs, I think of elderly women who serve as catechists, and I think of consecrated woman and those who quietly go about doing so much good. Without women, the Church of this continent would lose its power to be continually reborn. It is women who keep patiently kindling the flame of faith. We have a grave obligation to understand, respect, appreciate and promote the ecclesial and social impact of all that they do. They accompanied Jesus on his mission; they did not abandon him at the foot of the cross; they alone awaited for the night of death to give back the Lord of life; they flooded the world with his risen presence. If we hope for a new and living chapter of faith in this continent, we will not get it without women. Please, do not let them be reduced to servants of our ingrained clericalism. For they are on the front lines of the Latin American Church, in their setting out with Jesus, in their persevering amid the sufferings of their people, in their clinging to the hope that conquers death, and in their joyful way of proclaiming to the world that Christ is alive and risen. In Latin America, hope passes through the hearts, the minds and the arms of the laity I would like to repeat something I recently said to the Pontifical Commission for Latin America. It is imperative to overcome the clericalism that treats the Christifideles laici as children and impoverishes the identity of ordained ministers. Though much effort has been invested and some steps have been taken, the great challenges of the continent are still on the table. They still await the quiet, responsible, competent, visionary, articulated and conscious growth of a Christian laity. Men and women believers, who are prepared to contribute to the spread of an authentic human development, the strengthening of political and social democracy, the overturning of structures of endemic poverty and the creation of an inclusive prosperity based on lasting reforms capable of preserving the common good. So too, the overcoming of inequality and the preservation of stability, the shaping of models of sustainable economic development that respect nature and the genuine future of mankind, which unfettered consumerism cannot ensure, and the rejection of violence and the defence of peace. One more thing: in this sense, hope must always look at the world with the eyes of the poor and from the situation of the poor. Hope is poor, like the grain of wheat that dies (cf. Jn 12:24), yet has the power to make God’s plans take root and spread. Wealth, and the sense of self-sufficiency it brings, frequently blind us to both the reality of the desert and the oases hidden therein. It offers textbook answers and repeats platitudes; it babbles about its own empty ideas and concerns, without even coming close to reality. I am certain that in this difficult and confused, yet provisional moment that we are experiencing, we will find the solutions to the complex problems we face in that Christian simplicity hidden to the powerful yet revealed to the lowly. The simplicity of straightforward faith in the risen Lord, the warmth of communion with him, fraternity, generosity, and the concrete solidarity that likewise wells up from our friendship with him. I would like to sum up all of this in a phrase that I leave to you as a synthesis and reminder of this meeting. If we want to serve this Latin America of ours from CELAM, we have to do so with passion, a passion that nowadays is often lacking. We need to put our heart into everything we do. We need to have the passion of young lovers and of wise elders, a passion that turns ideas into viable utopias, a passion for the work of our hands, a passion that makes us constant pilgrims in our Churches. May I say that we need to be like Saint Toribius of Mogrovejo, who was never really installed in his see: of the twenty-four years of his episcopacy, eighteen were passed visiting the towns of his diocese. My brothers, please, I ask you for passion, the passion of evangelization. I commend you, my brother bishops of CELAM, the local Churches that you represent, and all the people of Latin America and the Caribbean, to the protection of Our Lady under the titles of Guadalupe and Aparecida. I do so, in the serene certainty that God who spoke to this continent with the mestizo and black features of his Mother, will surely make his kindly light shine in the lives of all.  
PORTOGHESE 
Queridos irmãos! Obrigado por este encontro e pelas calorosas palavras de boas-vindas do Presidente da Conferência do Episcopado Latino-Americano. Se o programa da viagem consentisse, teria preferido encontrar-vos na sede do CELAM. Agradeço-vos a delicadeza de estardes aqui neste momento. Agradeço o esforço que fazeis para transformar esta Conferência Episcopal Continental numa casa ao serviço da comunhão e da missão da Igreja na América Latina; num centro propulsor da consciência de discípulos e missionários; num ponto de referência vital para a compreensão e aprofundamento da catolicidade latino-americana, delineada gradualmente por este organismo de comunhão durante decénios de serviço. E considero propícia a ocasião para encorajar os recentes esforços tendentes a expressar esta solicitude colegial por meio do Fundo de Solidariedade da Igreja Latino-Americana. Há quatro anos, no Rio de Janeiro, tive a oportunidade de vos falar sobre a herança pastoral de Aparecida, último evento sinodal da Igreja da América Latina e do Caribe. Então destacara a necessidade permanente de aprender com o seu método, baseado essencialmente na participação das Igrejas locais e em sintonia com os peregrinos que caminham em busca do rosto humilde de Deus, que quis manifestar-Se na Virgem pescada nas águas; método que se prolonga na missão continental que pretende ser, não a soma de iniciativas programáticas que enchem as agendas e também desperdiçam preciosas energias, mas o esforço por colocar a missão de Jesus no coração da própria Igreja, transformando-a em critério para medir a eficácia das estruturas, os resultados do trabalho, a fecundidade dos ministros e a alegria que são capazes de suscitar. Porque, sem alegria, não se atrai ninguém. Detive-me então nas tentações, ainda presentes, da ideologização da mensagem evangélica, do funcionalismo eclesial e do clericalismo, porque em jogo está sempre a salvação que Cristo nos traz. Esta deve chegar ao coração do homem com a força de interpelar a sua liberdade, convidandoo a um êxodo permanente da sua autorreferencialidade para a comunhão com Deus e com os irmãos. Deus, quando fala ao homem em Jesus, não o faz com um apelo vago como a um estranho, nem com uma convocação impessoal como faria um notário, nem mesmo com uma declaração de preceitos para cumprir como faz qualquer funcionário do sagrado. Deus fala com a voz inconfundível do Pai que se dirige ao filho, e respeita o seu mistério pois foi Ele que o formou com as suas próprias mãos e destinou à plenitude. O nosso maior desafio como Igreja é falar ao homem como porta-voz desta intimidade de Deus, que o considera um filho, mesmo quando este renega tal paternidade, porque, para Ele, somos sempre filhos reencontrados. Por isso, não se pode reduzir o Evangelho a um programa ao serviço de um gnosticismo na moda, a um projeto de promoção social nem a uma visão da Igreja como burocracia que se autopromove; e a Igreja também não pode ser reduzida a uma organização dirigida, com modernos critérios empresariais, por uma casta clerical. A Igreja é a comunidade dos discípulos de Jesus; a Igreja é Mistério e Povo (cf. Lumen gentium, 5; 9), ou melhor dito: nela realiza-se o Mistério através do Povo de Deus. Por isso, insisti sobre o discipulado missionário como uma chamada divina para este tempo de hoje, complexo e carregado de tensões, um permanente sair com Jesus para conhecer como e onde vive o Mestre. E, ao mesmo tempo que saímos na sua companhia, conhecemos a vontade do Pai, que sempre nos ouve. Só uma Igreja Esposa, Mãe, Serva, que renunciou à pretensão de controlar o que não é obra sua mas de Deus, pode permanecer com Jesus, mesmo quando o seu ninho e refúgio é a cruz. Proximidade e encontro são os instrumentos de Deus, que, em Cristo, Se aproximou e sempre nos encontrou. O mistério da Igreja é realizar-se como sacramento desta proximidade divina e como lugar permanente deste encontro. Daqui a necessidade da proximidade do Bispo a Deus, porque n’Ele está a fonte da liberdade e da força do coração do Pastor, bem como da proximidade ao Povo santo que lhe foi confiado. Nesta proximidade, a alma do apóstolo aprende a tornar palpável a paixão de Deus pelos seus filhos. Aparecida é um tesouro, cuja descoberta ainda está incompleta. Tenho certeza de que cada um de vós descobre quanto a sua riqueza se enraizou nas Igrejas que trazeis no coração. Como os primeiros discípulos enviados por Jesus no seu projeto missionário, também nós podemos contar com entusiasmo tudo o que fizemos (cf. Mc 6, 30). Mas é necessário estar atentos. As realidades indispensáveis da vida humana e da Igreja não são jamais um monumento, mas um património vivo. É muito mais cómodo transformá-las em recordações, de que se celebram os aniversários: 50 anos de Medellín, 20 de Ecclesia in America, 10 de Aparecida! Trata-se, porém, de algo diverso: salvaguardar e fazer fluir a riqueza desse património (pater munus) constituem o munus da nossa paternidade episcopal para com a Igreja do nosso Continente. Bem sabeis que a renovada consciência, de que no início de tudo está sempre o encontro com Cristo vivo, exige que os discípulos cultivem a familiaridade com Ele; caso contrário, ofuscase o rosto do Senhor, a missão perde força, retrocede a conversão pastoral. Assim, rezar e cultivar o relacionamento com Ele é a atividade mais improrrogável da nossa missão pastoral. Aos seus discípulos, entusiasmados com a missão cumprida, Jesus dizia: «Vinde, retiremonos para um lugar deserto» (Mc 6, 31). Nós precisamos ainda mais deste estar a sós com o Senhor, para reencontrar o coração da missão da Igreja na América Latina, nas circunstâncias atuais. Há tanta dispersão interior e também exterior! Os numerosos eventos, a fragmentação da realidade, a instantaneidade e a velocidade do presente poderiam fazer-nos cair na dispersão e no vazio. Reencontrar a unidade é um imperativo. Onde se encontra a unidade? Sempre em Jesus. O que torna permanente a missão não é o entusiasmo que inflama o coração generoso do missionário, embora sempre necessário; mas sim a companhia de Jesus por meio do seu Espírito. Se em missão não sairmos com Ele, rapidamente perderemos o caminho, arriscando-nos a confundir as nossas vãs necessidades com a sua causa. Se a razão do nosso caminhar não é Ele, será fácil desanimar no meio da fadiga do caminho, perante a resistência dos destinatários da missão, face aos cenários mutáveis das circunstâncias que marcam a história, ou pelo cansaço dos pés devido ao desgaste insidioso causado pelo inimigo. Não faz parte da missão ceder ao desânimo, quando porventura, passado o entusiasmo do início, chega o momento em que tocar a carne de Cristo se torna muito duro. Numa situação como esta, Jesus não acalenta os nossos medos. E, como sabemos muito bem que não há mais ninguém para quem possamos ir porque só Ele tem palavras de vida eterna (cf. Jo 6, 68), consequentemente é necessário aprofundar a nossa vocação. Concretamente, que significa sair com Jesus em missão, hoje, na América Latina? O advérbio «concretamente» não é um detalhe de estilo, mas pertence ao núcleo da pergunta. O Evangelho é sempre concreto, nunca um exercício de estéreis especulações. Conhecemos bem a tentação frequente de perder-se em bizantinismos dos «doutores da lei», de saber até aonde se pode ir sem perder o controle do próprio território demarcado ou do suposto poder que os limites garantem. Muito se falou sobre a Igreja em estado permanente de missão. Sair, partir com Jesus é a condição desta realidade. O Evangelho fala de Jesus que, saído do Pai, percorre, com os seus, os campos e as povoações da Galileia. Não é inútil este percurso do Senhor. Enquanto caminha, encontra; quando encontra, aproxima-Se; quando Se aproxima, fala; quando fala, toca com o seu poder; quando toca, cura e salva. Levar ao Pai aqueles que encontra é o objetivo do seu permanente sair, sobre o qual devemos refletir continuamente. A Igreja deve reapropriar-se dos verbos que o Verbo de Deus conjuga na sua missão divina. Sair para encontrar, sem passar ao largo; reclinar-se sem desleixo; tocar sem medo. Trata-se de ir dia após dia trabalhar no campo, lá onde vive o Povo de Deus que vos foi confiado. Não é lícito deixar-nos paralisar pelo ar condicionado dos escritórios, pelas estatísticas e pelas estratégias abstratas. É necessário dirigir-se à pessoa na sua situação concreta; não podemos afastar o olhar dela. A missão realiza-se num corpo a corpo. Uma Igreja capaz de ser sacramento de unidade Vê-se tanta dispersão ao nosso redor! E não me refiro apenas à rica diversidade que sempre caraterizou o Continente, mas às dinâmicas de desagregação. É preciso ter cuidado para não ficar preso nestas armadilhas. A Igreja não está na América Latina como se tivesse as malas na mão, pronta a partir depois de a ter saqueado, como muitos fizeram ao longo do tempo. Aqueles que assim se comportam, olham com um sentido de superioridade e desprezo para o seu rosto mestiço; pretendem colonizar a sua alma com as mesmas fórmulas, falidas e recicladas, sobre a visão do homem e da vida, repetem receitas iguais matando o paciente enquanto enriquecem os médicos que os mandam; ignoram as razões profundas que habitam no coração do seu povo e que o tornam forte precisamente nos seus sonhos, nos seus mitos, apesar dos numerosos desencantos e falimentos; manipulam politicamente e atraiçoam as suas esperanças, deixando atrás de si terra queimada e o terreno pronto para o eterno retorno do mesmo, ainda que se reapresente com novas vestes. Homens e utopias fortes prometeram soluções mágicas, respostas instantâneas, efeitos imediatos. A Igreja, sem pretensões humanas, respeitosa do rosto multiforme do Continente – que considera, não uma desvantagem, mas uma riqueza perene – deve continuar humildemente a prestar o seu serviço ao verdadeiro bem do homem latino-americano. Deve trabalhar incansavelmente por construir pontes, abater muros, integrar a diversidade, promover a cultura do encontro e do diálogo, educar para o perdão e a reconciliação, para o sentido de justiça, a rejeição da violência e a coragem da paz. Nenhuma construção duradoura na América Latina pode prescindir desta base invisível, mas essencial. A Igreja conhece, como poucos, aquela unidade sapiencial que antecede toda e qualquer realidade na América Latina. Convive diariamente com aquele património moral sobre o qual se baseia o edifício existencial do Continente. Estou certo de que, ao mesmo tempo que vos digo isto, à vossa mente já veio o nome a dar a esta realidade. Com ela, devemos dialogar continuamente. Não podemos perder o contacto com este substrato moral, com este humus vital que habita no coração do nosso povo; nele se percebe a mistura quase indistinta mas ao mesmo tempo eloquente do seu rosto mestiço: não apenas indígena, nem hispânico, nem lusitano nem afro-americano, mas mestiço, latino-americano! Guadalupe e Aparecida são manifestações programáticas desta criatividade divina. Bem sabemos que isto faz parte do fundamento sobre o qual se apoia a religiosidade popular do nosso povo; faz parte da sua singularidade antropológica; é um dom com que Deus Se quis dar a conhecer ao nosso povo. As páginas mais luminosas da história da nossa Igreja foram escritas precisamente quando soubemos nutrir-nos desta riqueza, falar a este recôndito coração que palpita salvaguardando, como um pequeno tição aceso sob as cinzas aparentes, o sentido de Deus e da sua transcendência, a sacralidade da vida, o respeito pela criação, os laços de solidariedade, a alegria de viver, a capacidade de ser felizes sem condições. Para falar a esta alma que é profunda, para falar à América Latina profunda, a Igreja deve aprender continuamente com Jesus. O Evangelho diz que falava só em parábolas (cf. Mc 4, 34). Imagens que coenvolvem e tornam participantes, que transformam os ouvintes da sua Palavra em personagens das suas narrações divinas. O santo Povo fiel de Deus na América Latina não compreende outra linguagem sobre Ele. Somos convidados a ir em missão não com conceitos frios que se contentam com o possível, mas com imagens que continuamente multiplicam e desenvolvem as suas forças no coração do homem, transformando-o em grão semeado em terreno bom, em fermento que aumenta a capacidade de fazer pão da massa, em semente que esconde a força da árvore fecunda. Uma Igreja capaz de ser sacramento de esperança Muitos se lamentam duma certa falta de esperança na América Latina de hoje. A nós, não é permitido ser lamurientos, porque a esperança que temos vem do Alto. Além disso, sabemos bem que o coração latino-americano foi treinado para a esperança. Como dizia um cantor e compositor brasileiro, «a esperança é equilibrista; dança na corda bamba de sombrinha» (cf. João Bosco, O Bêbado e a Equilibrista). Quando se pensava que tinha acabado, eis que ressurge onde menos se esperava. O nosso povo aprendeu que nenhuma deceção é capaz de o vencer. Segue Cristo flagelado e manso, sabe aguardar que se faça dia e permanecer na esperança da sua vitória, porque, no fundo, está ciente de não pertencer totalmente a este mundo. Não há dúvida que a Igreja, nestas terras, é de modo particular um sacramento de esperança, mas é necessário vigiar sobre a concretização desta esperança. Quanto mais transcendente, tanto mais deve transformar o rosto imanente daqueles que a possuem. Peço-vos que vigieis sobre a concretização da esperança e permiti que vos lembre alguns dos seus rostos já visíveis nesta Igreja latino-americana. A esperança na América Latina tem um rosto jovem Fala-se frequentemente dos jovens (proclamam-se estatísticas sobre o Continente do futuro); alguns referem notícias sobre a sua alegada decadência e quanto estejam adormecidos, outros aproveitam-se do seu poder de consumir, e não falta quem lhes proponha o papel de peões dos tráficos ilícitos e da violência. Não vos deixeis capturar por tais caricaturas sobre os jovens. Fixaios nos olhos e procurai neles a coragem da esperança. Não é verdade que estão prontos a repetir o passado. Abri-lhes espaços concretos nas Igrejas particulares que vos estão confiadas, investi tempo e recursos na sua formação. Proponde programas educacionais incisivos e objetivos a realizar, pedindo-lhes – como os pais pedem aos filhos – que ponham em ato as suas potencialidades e educando o seu coração para a alegria da profundidade, não da superficialidade. Não vos contenteis com retóricas ou opções escritas nos planos pastorais mas jamais postas em prática. Escolhi precisamente o Panamá, o istmo deste Continente, para a Jornada Mundial da Juventude de 2019, que será celebrada seguindo o exemplo da Virgem que proclama: «Eis aqui a serva» e «faça-se em mim» (Lc 1, 38). Tenho a certeza de que, em cada jovem, se esconde um «istmo»; no coração de todos os nossos moços e moças, há um pedaço estreito e comprido de terreno que se pode percorrer para os levar rumo a um futuro que só Deus conhece e a Ele pertence. Cabe a nós apresentar-lhes grandes propostas, para despertar neles a coragem de arriscar juntamente com Deus e se tornar disponíveis como a Virgem Maria. A esperança na América Latina tem um rosto feminino Não há necessidade de me alongar sobre o papel da mulher no nosso Continente e na nossa Igreja. Dos seus lábios, aprendemos a fé; quase com o leite do seu seio, adquirimos os traços da nossa alma mestiça e a imunidade contra qualquer desespero. Penso nas mães indígenas ou morenas, penso nas mulheres das cidades com o seu triplo turno de trabalho, penso nas avós catequistas, penso nas consagradas e nas artesãs tão discretas do bem. Sem as mulheres, a Igreja do Continente perderia a força de renascer continuamente. São as mulheres que, com meticulosa paciência, acendem e reacendem a chama da fé. É uma séria obrigação compreender, respeitar, valorizar e promover a força eclesial e social do que elas fazem. Acompanharam Jesus missionário; não se retiraram do pé da cruz; na solidão, esperaram que a noite da morte devolvesse o Senhor da vida; inundaram o mundo com a sua presença ressuscitada. Se quisermos uma fase nova e vital da fé neste Continente, não a obteremos sem as mulheres. Por favor, não as reduzamos a servas do nosso clericalismo recalcitrante; mas sejam, ao invés, protagonistas na Igreja latino-americana: no seu sair com Jesus, no seu perseverar, mesmo no meio do sofrimento do seu povo; no seu agarrar-se à esperança que vence a morte; na sua maneira jubilosa de anunciar ao mundo que Cristo está vivo, ressuscitou. A esperança na América Latina passa através do coração, da mente e dos braços dos leigos Gostaria de repetir o que disse recentemente à Pontifícia Comissão para a América Latina. É indispensável superar o clericalismo que torna infantis os christifideles laici e empobrece a identidade dos ministros ordenados. Embora se tenha feito um notável esforço e tenham sido dados alguns passos, os grandes desafios do Continente permanecem sobre a mesa e continuam à espera da realização serena, responsável, competente, clarividente, articulada e consciente dum laicado cristão, que esteja disposto a contribuir, como crente, nos processos dum desenvolvimento humano autêntico, na consolidação da democracia política e social, na superação estrutural da pobreza endémica, na construção duma prosperidade inclusiva fundada em reformas duradouras e capazes de tutelar o bem social, na superação das desigualdades e na salvaguarda da estabilidade, no delineamento de modelos de desenvolvimento económico sustentável que respeitem a natureza e o verdadeiro futuro do homem – que não passa pro um consumismo ilimitado – e também na rejeição da violência e na defesa da paz. Mais ainda: neste sentido, a esperança deve sempre fixar o mundo com os olhos dos pobres e a partir da situação dos pobres. Ela é pobre como o grão de trigo que morre (cf. Jo 12, 24), mas tem a força de promover os planos de Deus. Com frequência, a riqueza autossuficiente priva a mente humana da capacidade de ver tanto a realidade do deserto como os oásis lá escondidos. Propõe respostas de manual e repete certezas de «talk-show»; balbucia a projeção de si mesma, vazia, sem aderir minimamente à realidade. Tenho a certeza de que, neste momento difícil e confuso mas provisório que vivemos, as soluções para os problemas complexos que nos desafiam nascem da simplicidade cristã que se esconde aos poderosos e manifesta aos humildes: a pureza da fé no Ressuscitado, o calor da comunhão com Ele, a fraternidade, a generosidade e a solidariedade concreta que brotam também da amizade com Ele. E gostaria de resumir tudo isto numa frase que vos deixo como síntese e recordação deste encontro: se queremos servir, como CELAM, a nossa América Latina, temos de o fazer com paixão. Hoje faz falta paixão. Pôr o coração em tudo o que fazemos, paixão do jovem enamorado e do idoso sábio, paixão que transforma as ideias em utopias viáveis, paixão no trabalho das nossas mãos, paixão que nos transforma em incessantes peregrinos pelas nossas Igrejas como – deixai lembrá-lo – São Toríbio de Mogrovejo, que não se instalou na sua sede: de 24 anos de episcopado, 18 passouos nas localidades da sua diocese. Por favor, irmãos, peço-vos paixão, paixão evangelizadora. À proteção da Virgem, invocada com os nomes de Guadalupe e Aparecida, vos confio – vós, irmãos Bispos do CELAM, as Igrejas locais que representais e todo o povo da América Latina e do Caribe – com a serena certeza de que Deus, que falou a este Continente com o rosto mestiço e moreno da sua Mãe, não deixará de fazer resplandecer a sua luz benigna na vida de todos. Al termine dell’incontro, dopo il saluto individuale ai membri della Presidenza del CELAM e la foto di gruppo, il Santo Padre si trasferisce in auto al Parco Simón Bolívar per la Celebrazione Eucaristica