sabato 9 settembre 2017

XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 10 settembre 2017. Ambientale e commento al Vangelo



Nella 23.ma Domenica del Tempo ordinario la liturgia propone il Vangelo (Mt 18, 15-20) sulla correzione fraterna:
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Correggere chi sta sbagliando è un atto d’amore veramente difficile, un opera di misericordia spirituale che richiede umiltà, libertà di rischiare il rifiuto, e di compromettere la relazione col prossimo per il suo bene. “Correggi lo stolto e ti odierà, correggi il saggio e ti amerà” ci ricordano i libri sapienziali, pertanto la correzione implica un amore al prossimo e alla verità che comporta dei rischi. A questo c’invita il Signore nel brano evangelico odierno, o meglio, il Signore ci promette, oggi, di poter compiere questo capolavoro in noi, se lo vogliamo. Il primo passo necessario per ricevere tale virtù consiste, anzitutto, nell’umiltà di saper accettare le correzioni. Solo chi si lascia correggere, infatti, sa correggere, e questo è dono della mitezza e del coraggio che vengono dallo Spirito Santo, quando dimora in noi. Gesù, inoltre, c’invita a saper discernere quando sia il momento opportuno per esercitare tale servizio suggerendoci di non offrire le “perle preziose” a chiunque. San Paolo c’insegna che la Scrittura è utile, anche “a correggere ed a esortare”. Lasciamoci correggere, allora, dalla Parola di Dio e dagli uomini sapendo che ogni pianta, quando viene potata, cresce meglio e dà buoni frutti. Preghiamo di saper riconoscere l’amore nei fatti e nelle persone che ci educano e di servire la Verità.

***

Il tagliando dell’amore


Come stanno le nostre parrocchie? Come camminano le nostre comunità? La liturgia di questa domenica è come un “tagliando” per verificare le loro condizioni; è necessario farlo di tanto in tanto perché una carrozzeria senza ammaccature potrebbe nascondere danni gravi e pericolosi al motore.
Allo stesso modo, una comunità con i suoi lettori, i cantori, le mamme catechiste, i ministranti, i volontari della Caritas, i campetti del minibasket e l’oratorio, guidata magari da un prete molto dinamico e pieno di iniziative, potrebbe nascondere un cancro terribile.
Vediamo allora, alla luce della Parola, come stiamo messi. Il motore di una comunità è l’amore, quello che appare quando ci si prende cura gli uni degli altri perché si ha a cuore il loro bene, gratuitamente. Non quella poltiglia nevrotica e sempre in agitazione per foraggiare la propria carne che sono i rimproveri e le correzioni che facciamo agli altri.
Non è difficile sbattere in faccia all’altro il suo peccato, anzi. E neanche postarlo sui social-networks o “dirlo all’assemblea”. Ma questo non ha nulla a che vedere con l’amore. E’ piuttosto un giudizio covato da tempo, l’esplosione di un efferato senso di giustizia che polverizza l’altro per affermare se stessi.
Un bravo meccanico però si accorge subito di come gira un motore, gli basta accenderlo e ascoltarlo: se è a punto suona come una “sinfonia”, il termine greco originale reso con “accordano” riferito ai “due” che pregano: la “Chiesa” è un’orchestra composta da strumenti “accordati” tra loro nell’amore per eseguire la “sinfonia” capace di salvare il mondo.
Ecco, quando ci incontriamo per celebrare la liturgia, per ascoltare la Parola di Dio, o per decidere qualcosa, siamo “accordati”? Con i miei “fratelli” o solo dei conoscenti? E per che chiedere cosa? Qui si tocca il cuore di una comunità, ciò che la muove e la tiene insieme. 
E qui iniziano i problemi, perché, in fondo, anche se ci stringiamo la mano durante il segno della pace, nel nostro cuore risuona la domanda del fariseo che voleva giustificarsi davanti a Gesù: “chi è il mio prossimo? Ovvero, chi è il mio fratello?”.
Ditemi se nelle nostre parrocchie ci si conosce davvero o se, invece, l’unico che si sa gli uni degli altri è frutto del pettegolezzo, delle “chiacchiere” di cui parla spesso Papa Francesco…
Un racconto degli hassidin ci aiuta a comprendere. Un rabbino racconta che ha imparato il significato di Ama il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18) da due contadini che aveva sentito parlare: “Boris mi ami tu?” e l’altro dice “Ivan certo che ti voglio bene”; il primo riprende “Boris sai cosa mi addolora?” e l’altro risponde “Ivan come posso sapere cio che ti addolora?”; il primo riprende “Boris se non sai cosa mi addolora come puoi dire che mi ami veramente?”.
Un cristiano sa per esperienza che la sofferenza viene sempre dal peccato; per questo ogni altro è per lui un “fratello” e non può restare indifferente, ma “và e lo ammonisce”. La carità di Cristo lo spinge per “guadagnarlo” a Lui e alla sua misericordia rigenerante.
Ma forse dobbiamo ammettere che non amiamo nessuno perché nessuno è nostro “fratello”. Non abbiamo mai guardato ai loro peccati come al veleno che ne sta uccidendo l’anima. Pensaci, ti sei mai preoccupato che l’altro stia soffrendo perché sfugge alla volontà di Dio infilandosi nella morte? 
Di questo sta parlando Gesù. Non si scherza, è in gioco la vita del “fratello” e la missione della Chiesa. Essa è un segno del Cielo offerto al mondo, una testimonianza credibile che Cristo è risuscitato e ha vinto il peccato e la morte.
Ma se anche un solo suo membro cade in un peccato serio tutta la Chiesa ne rimane ferita: smette di essere un sacramento di salvezza, e si trasforma in uno scandalo per i piccoli schiavi del mondo.
Nella Chiesa, infatti, l’amore è effuso sui “fratelli” perché attraverso di essi raggiunga ogni uomo. Per questo, prendendosi cura delle sofferenze del “fratello” che è caduto in un peccato, i cristiani vedono in esse anche quelle di chi, legato a lui, resta privato della sua testimonianza per credere e salvarsi. 
Come è possibile allora accettare la superficialità nelle nostre parrocchie? Non ci rendiamo conto quale è la posta in gioco? Ma per superare l’indifferenza che frustra la missione della Chiesa occorre che in essa si impari innanzitutto a riconoscere nell’altro un “fratello”. 
E non è cosa di un giorno, un colpo di bacchetta magica e oplà, ecco la comunione e l’amore. E’ necessario aver sperimentato che Cristo è venuto a cercarmi, per “ammonirmi fra me e Lui solo”, con la predicazione e i sacramenti, specialmente la confessione, come ha fatto con Pietro, con Zaccheo e la Maddalena, con la prostituta e tanti altri. 
Che mi “dimostrato” il suo amore, secondo l’originale tradotto con “ammonire”, attraverso i pastori e i catechisti, la cui “parola” mi ha “testimoniato” la sua opera e la sua misericordia nella mia vita. Che mi ha condotto e accolto nella “Chiesa”, l’”assemblea” della comunità dove mi ha annunciato mille volte il perdono e la possibilità di vivere una vita nuova.
Occorre cioè un cammino serio di conversione fondato sulla Pasqua, l’iniziazione cristiana dove, nella liturgia e nell’ascolto, i “fratelli” “accordano” i cuori, le menti e le forze per chiedere a Dio la liberazione dalla schiavitù al peccato, nella certezza che “il Padre la concederà”. 
Un cristiano adulto nella fede, infatti, ha sperimentato che Cristo è risorto e vivo in una comunità che agisce “nel suo nome”, cioè nel suo potere sul peccato e la morte che ha dato a Pietro e alla Chiesa. Il potere di compiere nella storia di ogni uomo il suo Mistero Pasquale, ovvero di “slegare” dalle catene del demonio e di “legare” al Padre che è nei Cieli.
Per celebrare la Pasqua ogni ebreo doveva provvedere a togliere dalla casa qualsiasi residuo di lievito vecchio, considerato come l’immagine dell’istinto malvagio che cova nel cuore. Allo stesso modo, per compiere la propria missione, la Chiesa deve continuamente purificarsi, come ammoniva San Paolo: “togliete via il lievito vecchio per essere pasta nuova, perché Cristo nostra Pasqua è stato immolato, e voi siete siete azzimi”. 
E’ celebrare insieme la Pasqua, e solo questo, il motivo che spinge un cristiano nella libertà che il mondo non conosce. Quella di uscire da se stesso per “ammonire” il fratello, anche a costo di essere rifiutato e caricare i suoi peccati. 
Ogni passo che Gesù indica alla Chiesa per “guadagnare il fratello”, infatti, è l’attualizzazione nella storia di quello che ha fatto Lui nella sua Passione: per “guadagnare” ciascuno di noi, si è fatto peccato, è stato accusato nell’assemblea e alla fine è stato gettato fuori, a morire crocifisso, “come un pagano e un pubblicano”. Sulla Croce, infatti, Cristo ci ha “ammonito”, rivelandoci l’unica verità che compie l’esistenza.
Allo stesso modo vivono i cristiani la relazione con i “fratelli” che peccano: come il buon samaritano si chinano sulle loro ferite, le curano con la verità che smaschera il demonio responsabile di tanta sofferenza, e li affidano alla Chiesa, perché si prenda cura di loro. 
Per questo, a volte è necessaria la massima severità, che è il segno della più grande misericordia. La Chiesa sa che Dio ha creato l’uomo libero, anche di uccidere suo Figlio, come di indurirsi sino alla fine nel peccato.
Per amore di ogni “fratello” che si rifiuta ostinatamente di “ascoltare”, non c’è allora altra soluzione che lasciarlo libero di tornare a vivere come prima dell’incontro con Cristo: come “un pubblicano e un pagano”. 
Far finta di niente, in una falsa misericordia che scioglie la verità, sarebbe rendere vana la Croce di Cristo; sarebbe anche fare torto alla dignità del “fratello”, obbligandolo all’ipocrisia. 
Alleandosi con il peccato che rompe la comunione egli se ne è chiamato fuori. La verità, invece, e solo la verità delle conseguenze amare del peccato e dell’amore infinito di Dio può percuotere, alla lunga, il cuore più indurito.
Ma, come il padre del figlio prodigo, la Chiesa sa che questo fratello sarà sempre figlio del Padre celeste e fratello di Cristo; anche se “perduta”, farà comunque parte delle cento pecore che compongono il gregge. 
Considerare il “fratello” che “ha peccato” come un “pagano” e un “pubblicano”, significa allora innanzitutto amarlo come uno dei fratelli più “piccoli”, che hanno “i loro angeli”, ovvero i fratelli della comunità, che “guardano sempre il volto del Padre”, pregando con Cristo per la sua salvezza.
Japicca

***

Lectio divina sulle letture della XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 10 settembre 2017

di Francesco Follo


1) Correggere perdonando.
Il Vangelo di oggi ci propone due insegnamenti di Cristo circa la vita della Chiesa, quale comunità di fratelli, perché figli nel Figlio di Dio.
Il primo riguarda la correzione fraterna e dice come procedere in caso di conflitto tra i membri della comunità (Mt 18,15-18). Il brano evangelico di oggi è dedicato alla vita della comunità cristiana e ci insegna che l’amore fraterno comporta anche un senso di responsabilità reciproca, per cui, se un nostro fratello commette una colpa contro di noi, dobbiamo usare carità verso di lui, parlandogli  a tu per tu per fargli capire l’errore commesso verso di noi. Questo modo di fare si chiama correzione fraterna, che non deve essere una reazione all’offesa subita, ma deve essere mossa dall’amore per il fratello, come spiega bene Sant’Agostino: “Colui che ti ha offeso, offendendoti, ha inferto a se stesso una grave ferita, e tu non ti curi della ferita di un tuo fratello? … Tu devi dimenticare l’offesa che hai ricevuto, non la ferita di un tuo fratello” (Discorsi 82, 7).
Il secondo insegnamento riguarda l’“onnipotenza d’intercessione” (omnipotentia supplex) della preghiera fatta dalla comunità, anche se molto piccola, “perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18. 19-20). Dunque, il Signore è presente nell’assemblea liturgica che prega e loda,  nei sacramenti, che comunicano la sua vita e nella sua Parola: “è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (Conc. Vat. II, Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, 7). Certo la preghiera personale è indispensabile, ma il Signore assicura la sua presenza alla comunità che  è unita e concorde, perché essa riflette la realtà stessa di Dio Uno e Trino, comunione perfetta d’amore.
Continuiamo la nostra riflessione approfondendo brevemente il primo insegnamento che Cristo ci offre oggi e che riguarda il dovere di carità della correzione.
In una predica durante la Santa Messa nella chiesa di Casa Santa Marta, Papa Francescoha detto: “Chi giudica un fratello sbaglia e finirà per essere giudicato allo stesso modo. Dio è l’unico giudice e chi è giudicato potrà contare sempre sulla difesa di Gesù, il suo primo difensore, e sullo Spirito Santo…. Se noi vogliamo andare sulla strada di Gesù, più che accusatori dobbiamo essere difensori degli altri davanti al Padre e parlare loro con carità”. Ciò dicendo il Santo Padre ha riproposto pure l’esortazione odierna di san  Paolo: “Fratelli, non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole…L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rm13, 8-10). Fondandosi sull’insegnamento di Cristo, Papa Francesco insegna che la correzione è espressione di amore umile e dolce perché il fratello non sia vittima del male e conosca la gioia del bene.
La correzione fraterna è un frutto puro dell’amore, forse la sua incarnazione più difficile, perché per correggere occorre amare l’altro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati. In effetti “correggere” significa “reggere insieme”, per camminare insieme sul retto cammino.
Perché la correzione sia fraterna deve fondarsi sulla preghiera concorde dei fratelli. Quando la preghiera della comunità è unanime, Cristo è presente e porta al raduno concorde della Chiesa la misericordia del Padre.
Quando  nella preghiera viviamo la relazione con i “fratelli che peccano” e li amiamo in Cristo, non li giudichiamo, ma fremiamo di compassione e di misericordia, li guardiamo con gli occhi del cuore e non li lasciamo andar via senza il perdono, che è la correzione secondo il cuore di Cristo.  La preghiera concorde – cioè con il nostro cuore unito a quello dei fratelli e a quello di Cristo – è una preghiera giusta, pura, umile e confidente che ci pone nella luce della comunione con Dio-Trinità, La preghiera è cristiana in quanto è comunione con Cristo e si dilata nella Chiesa, che è  il suo corpo. Le sue dimensioni sono quelle dell’amore di Cristo, presente nella comunità che è luogo del perdono e della festa per il peccatore pentito, corretto dal perdono.
2) Preghiera concorde.
A questo insegnamento sulla correzione fraterna Cristo unisce quello sull’importanza della preghiera, che è l’onnipotenza dell’intercessione, soprattutto quando è fatta in comunità. La preghiera concorde, anche se fatta da due o tre persone solamente, rende presente Dio in essa.
E’ la presenza di Cristo che rende efficace la preghiera comune di coloro che sono riuniti nel suo nome. Quando ci riuniamo concordi per pregare, è Gesù stesso che è in mezzo a noi. Noi siamo sono uno con Colui che è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, quando siamo riconciliati con Lui dal suo perdono, che dobbiamo condividere con i nostri fratelli e sorelle.
E’ davvero consolante sapere che se siamo riuniti concordi in preghiera, Cristo è in mezzo a noi. Ma Cristo non insiste solo sul fatto che dobbiamo uniti, <l<ui dice anche dice che dobbiamo  riunirci nel suo nome. Ci sono tante ragioni per stare insieme: per lavorare, per divertirci, per stare in famiglia, per mangiare, per manifestare, ecc., ecc. Ma c’è un modo di essere insieme che è garanzia della Presenza di Gesù tra noi: se siamo uniti nel suo Nome.
Cosa vuol dire essere riuniti nel suo Nome? Vuol dire:
  • pregare per Cristo: per mezzo di lui, per i suoi meriti, per la forza del suo comando, per la sua autorità;
  • pregare con Cristo: uniti a lui nostro fratello.;
  • pregare in Cristo: chiedere uniti indissolubilmente a lui nella mente, nel cuore, nei pensieri e nei sentimenti, negli ideali, nei desideri: in tutto.
Se, da una parte, la preghiera concorde  è la condizione perché essa sia esaudita, d’altra parte la presenza di Cristo in questa concordia è la garanzia dell’esaudimento della preghiera rivolta al Padre da noi figli nel Figlio. E questo l’insegnamento che Cristo oggi ci dà dicendo: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19 -20).
Se, consultiamo un vocabolario, alla voce “accordo” possiamo trovare che questa parola può voler dire: o: concordanza di sentimenti, conformità d’idee, essere in perfetta concordia = lo stesso cuore, incontro di più volontà.
Se, poi, cerchiamo il verbo “accordare” possiamo trovare questi significati: Mettere d’accordo; Conciliare; Disporre, combinare qualcosa in modo armonico, gradevole, conveniente; Armonizzare tra loro strumenti e voci.
Dunque la frase: “Se due si accorderanno” fa pensare agli strumenti musicali che si accordono tra di loro per poter suonare una sinfonia. Nessun Maestro di musica dà l’attacco per iniziare a suonare una sinfonia con la sua orchestra, se prima non accorda tra loro gi strumenti; nessun Direttore di coro inizia a a fare cantare, se non si sono prima accordate le voci.
Dunque possiamo dire che come in musica l’accordo produce la bellezza armoniosa di due strumenti o di due voci, così l’accordo di due persone nella comunità produce la bellezza di due cuori e di due volontà che si uniscono fino ad essere una cosa sola: Gesù presente tra loro, in loro. E’ lui che diviene la preghiera che il Padre non può non ascoltare, non accogliere, non esaudire.
Il Vangelo di questa domenica ci svela una verità meravigliosa: Dio ascolta le voci accordate, la preghiera concorde, espressa da un cuore che vibra all’unisono con l’altro, la volontà che ricerca nell’accordo con l’altro il bene, perché in questo orante raduno concorde presente il Figlio amato. Prima di rivolgere la nostra domanda a Dio Padre, ci mettiamo d’accordo con l’altro, non perché scendiamo a compromessi ma perché  uniamo il nostro cuore a quello degli altri fratelli e sorelle e lo accordiamo al cuore di Cristo.
Un esempio di questa preghiera “concorde” è quella delle vergini consacrate, che durante il Rito della Consacrazione ricevono il Libro della Liturgia delle Ore e sono invitate ad una preghiera assidua per la Chiesa.
La preghiera costante e unanime è un prezioso strumento che permette a queste donne di svolgere un servizio efficace di intercessione. Il loro essere profondamente unite a Dio mediante il dono totale di se stesse, permette loro di essere anche profondamente unite agli altri. 
Consacrandosi a Dio, esse mostrano che vale la pena fidarsi completamente di Dio. Questa confidenza si esprime con una preghiera concorde assidua, solidale con gli altri, pienamente fiduciosa verso Dio che ci conosce nell’intimo e si prende cura di noi al punto che – dice Gesù – “perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura” (Mt 10, 30-31).
Infine, con la Liturgia delle Ore queste donne consacrate mettono in evidenza che “la nostra preghiera è pubblica e comune: e quando noi preghiamo, preghiamo non per uno solo, ma per tutto quanto il popolo: e ciò perché noi, tutto intero il popolo, siamo uno” (San Cipriano, De oratione dominica, 8). In questo modo, esse mettono in pratica l’insegnamento di unità che Cristo, Principe della pace e e fondamento della concordia, chiede a ciascuno di noi suoi fratelli e sorelle di pregare per tutti come Lui fece per tutti noi.
*
Lettura patristica
San Cipriano di Cartagine
De oratione dominica 8
Il Dottore della pace e il Maestro dell’unità non vuole che la preghiera si faccia individualmente e in privato, nel senso che chi prega preghi solo per sé.
Non diciamo: Padre mio, che sei nei cieli; e neppure: dammi oggi il mio pane quotidiano; e ciascuno non domanda che gli sia rimesso solo il suo debito; né prega solo per sé affinché non sia indotto in tentazione e sia liberato dal male.
La nostra preghiera è pubblica e comune: e quando noi preghiamo, preghiamo non per uno solo, ma per tutto quanto il popolo: e ciò perché noi, tutto intero il popolo, siamo uno.
Il Dio della pace e il Maestro della concordia, che ha insegnato l’unità, vuole che uno preghi per tutti, così come in uno egli portò tutti.
Proprio questa legge della preghiera osservarono i tre fanciulli gettati nella fornace ardente: essi pregarono in piena consonanza, spiritualmente uniti in un cuor solo. Ce lo testimonia la divina Scrittura, la quale, indicandoci come essi pregavano, ci dà il modello da imitare noi nelle nostre preghiere affinché possiamo essere come quelli. “Allora” – sta scritto – “loro tre, come con una sola voce, cantavano un inno e benedicevano Iddio” (Da 3,51). Essi pregavano come con una sola voce, e tuttavia Cristo non aveva ancora insegnato loro a pregare! Ebbene, la loro preghiera fu efficace, poté essere esaudita, perché una preghiera pacifica, semplice e spirituale attira la benevolenza di Dio.
Così vediamo che pregarono anche gli apostoli, riuniti coi discepoli, dopo l’ascensione del Signore. “E tutti” – sta scritto – “perseveravano unanimi nella preghiera, con le donne, e Maria la madre di Gesù, e con i fratelli di lui” (Ac 1,14). Persevera vano unanimi nella preghiera, testimoniando in tal modo, in questa loro preghiera, e l’assiduità e il loro amore scambievole: ché Dio, il quale fa abitare nella stessa casa coloro che sono una sola anima (Ps 67,7), non ammette nella divina ed eterna dimora se non quelli che pregano essendo un’anima sola.

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi.